11. Pioggia scarlatta
La fanciulla si è assopita, è tornato il guerriero.
L'armatura tintinnava a ogni passo e i capelli mori svolazzavano sulle spalle rigide, come un'oscura aureola battagliera che accompagnava la sua avanzata.
L'andatura era spedita e decisa, a passo di marcia. Era la camminata di qualcuno abituato a dare ordini.
-Bene, bene. Guarda chi si rivede! – esclamò una voce rauca da dietro una colonna.
Il cavaliere si fermò di botto.
-Ciao, Jordan. Speravo proprio di non incontrarti – rispose, il tono atono privo di colore e la voce troppo delicata per essere quella di un uomo.
Al suo arrivo ad Axor nessuno aveva creduto in lei e, quando aveva iniziato l'addestramento, erano stati in molti a scommettere su quanti giorni sarebbe resistita prima di crollare.
Non c'era voluto molto perché comprendessero il loro errore.
Non a caso, era chiamata La Mannaia.
Jordan rise, uscendo dall'ombra in cui si era celato e appoggiandosi con una spalla alla parete.
Era un uomo sulla quarantina, alto ma un po' cicciottello. Con quegli occhi chiarissimi, barba e capelli biondi e un naso sempre arrossato dall'alcol, nessuno lo avrebbe mai temuto. E avrebbe fatto male.
-Ma come siamo crudeli! Per caso ci siamo alzati dal letto con la luna storta? O forse... – ghignò malignamente – forse sei solo preoccupata per la riunione di oggi?
Sganciò un contenitore di metallo dalla cintura e se lo portò alla bocca. Qualche goccia di liquore gli scivolò sul mento.
-Preoccupata? E perché mai? – la ragazza lo fissò inarcando un sopracciglio, la beffa malcelata tra le sue labbra.
Lui sorrise affilato, asciugandosi la bocca con la manica. Si staccò dal muro e si avvicinò lentamente. Il fodero della sua spada gli rimbalzava sulla coscia a ogni passo.
Arrivato di fronte a lei si protese in avanti, fino a ritrovarsi con il viso a un soffio dal suo.
La donna non si mosse di un millimetro, nonostante la puzza di alcol che gli arrivava dritta in faccia.
-Non devi fingere con me – sussurrò, mentre il suo ghigno si allargava ancora di più. – Lo so che sei preoccupata per il tuo amichetto.
Le afferrò il mento, mentre gli occhi di lei lampeggiavano furiosi nella penombra del lungo corridoio.
-Non è forse vero, Vicky del Paese della Terra?
Rabbrividii.
Ero bagnato fradicio dalla testa ai piedi. L'acqua gocciolava giù dai capelli, bagnandomi il viso e scorrendo in rivoletti gelidi giù per la schiena.
Me ne stavo rintanato sotto una tettoia, con le ginocchia al petto, come i bambini quando scoppia un temporale. Erano quasi due ore che ero là fuori e la notte aveva ormai eclissato il giorno.
Erika non mi sarebbe venuta a cercare.
Un gatto corse di fronte a me, cercando riparo dalla pioggia. Saltò su uno scatolone, si scrollò la pioggia di dosso e si leccò una zampa, guardandomi diffidente.
Un tuono risuonò in lontananza e io alzai lo sguardo, osservando quel grigio e freddo ma, a suo modo, bellissimo spettacolo.
In una casa vicina al mio nascondiglio un bambino iniziò a piangere impaurito. Pochi istanti dopo, una donna iniziò a cantare per tranquillizzarlo, la voce calda e melodiosa.
Quasi inconsciamente, mi alzai dal mio rifugio e attraversai la strada, mentre le gocce rimbalzavano sulla ghiaia. La voce si faceva sempre più nitida. Appoggiai la guancia al muro di una piccola abitazione di mattoni rossi, mentre il cielo continuava a tuonare.
Dall'altra parte, la donna non interruppe la sua melodia. Il bambino aveva smesso di piangere, incantato anche lui da quella voce angelica.
Mi salirono le lacrime agli occhi.
Il ricordo era lontano, sfocato. Era la stessa canzone che mia madre intonava quando ero piccolo per farmi addormentare.
-Mamma! – la chiamai singhiozzando, mentre due lacrimoni mi scendevano sulle guance.
-Cos'è successo? – mia madre alzò la testa dal giaciglio accanto al mio, borbottando con voce impastata dal sonno.
-I-io ho fatto u-un incubo.
Tenevo la coperta, stretta nelle manine paffute, su fino al naso, come a proteggermi dai mostri viscidi sognati poco prima.
Mia madre sorrise dolcemente, si alzò e si infilò nel mio letto. Mi strinse a sé, accarezzandomi i ricci biondi.
-Va meglio ora?
-Più o meno – mi aggrappai a lei.
-Sai cosa ti farebbe sentire meglio? – la sentivo sorridere sopra di me.
Mi guardò negli occhi, mentre un ghigno diabolico le si apriva sul viso.
Provai a scappare, ma mi tirò per il piede e mi riportò a fianco a lei. Mi tenne fermo per i polsi mentre io provavo a dimenarmi a metà tra il divertito e il terrorizzato.
Si avvicinò al mio orecchio:
-Questa è una piccola vendetta per avermi svegliato.
E mentre lei mi riempiva di pernacchie sul collo e sulla pancia, mi faceva il solletico sotto i piedi e io mi dimenavo tra le coperte, le mie lacrime si asciugarono.
Quando ricademmo a letto, sfiniti, mi accoccolai con la testa sul suo petto.
-Mamma, cosa faccio se i mostri tornano a prendermi?
Mi fece un occhiolino:
-Canta questa canzone.
La sua voce risuonò tra le pareti della casa, mentre la guardavo con le palpebre spalancate, rapito da quei versi arcani e struggenti che parlavano di morte e distruzione, di urla angosciate e paure logoranti. Demoni e mostri spaventosi popolavano le sue strofe, nascondendosi all'ombra di sussurri lontani e respiri rubati.
Ma parola dopo parola, sillaba dopo sillaba, il terrore scompariva.
E restava solo il coraggio.
-È molto antica. Un tempo, quando solo i Primi Uomini e gli stessi Dei osavano calpestare questa terra, i nostri antenati la usarono per scacciare i demoni da Valhaar – sussurrò come se fosse un segreto, una volta finito.
-Davvero?
Lei annuì e mi scompigliò i capelli, mentre la sua risata risuonava nelle spaccature del terreno e tra le stelle del cielo.
Tirai su con il naso mentre, dall'altra parte del muro, la melodia lentamente scemava. Rimasi un altro po' con la guancia a contatto con i mattoni freddi e l'acqua che mi colava sulla schiena. Quando starnutii, compresi che era giunto il momento di tornare alla locanda.
Infreddolito, scossi leggermente la testa per rimuovere l'immagine fin troppo nitida di mia madre.
La pioggia, intanto, non accennava a fermarsi. Fissai il cielo: sarebbe stato meglio sbrigarsi.
Iniziai a riavviarmi verso la taverna, camminando rasente i muri per prendere meno acqua possibile. Dopo tutte quelle ore passate al freddo, avevo le dita congelate e il naso che colava.
Mentre avanzavo sotto il temporale, mi lasciai andare a un debole sospiro. Erika aveva ragione: mi serviva aiuto. Non avrei mai obbligato nessuno a seguirmi nel mio piano suicida ma, se qualcuno avesse voluto prestarmi il suo aiuto, lo avrei accettato volentieri.
Sbattei un paio di volte le palpebre per far cadere le gocce di pioggia che erano rimaste impigliate alle ciglia.
E, nel farlo, inciampai. Caddi in avanti in una pozzanghera, sporcandomi di fango.
Imprecai sottovoce. Sinceramente pensavo che, dopo tutti quegli anni di allenamento, le mie abilità motorie fossero un po' migliorate. A quanto pareva mi sbagliavo.
Guardando indietro, notai però una borsa di cuoio abbandonata sulla ghiaia.
Chissà chi l'ha lasciata qui.
Un rumore mi mise subito in allerta.
Saltai in piedi e mi guardai intorno. Tesi l'orecchio e, qualche secondo dopo, percepii delle voci che provenivano da un vicolo situato tra due case.
-E dai ragazzi, lasciatemi in pace. Non ho fatto niente di male – stava dicendo qualcuno.
-Tu ora vieni con noi! – ringhiava un'altra voce.
Le mie gambe si mossero da sole: svoltai l'angolo e, quando la mia visuale si ampliò in una piazzetta spoglia e appartata, mi paralizzai sul posto.
Dei soldati stavano puntando le lame alla gola di un uomo. Erano quattro contro uno.
Mi avvicinai lentamente, analizzando la situazione e stando attento a non fare il minimo rumore.
I soldati mi davano le spalle e non mi avevano ancora notato. L'uomo, invece, mi vide ma, contro ogni aspettativa, non chiese aiuto. Se ne rimase zitto, fingendo di non essersi accorto della mia presenza, mentre un soldato gli pestava le dita della mano.
Che avesse capito che avevo intenzione di aiutarlo e non volesse attirare l'attenzione su di me?
-Su, alzati!
L'uomo fece come gli era stato detto e mi accorsi che aveva il labbro spaccato e un taglio sulla fronte.
-Muoviti! – un soldato ghignò, assestandogli un gancio allo stomaco.
Mi sembrò di aver visto quella scena migliaia di volte. E forse era vero.
Senza ragionarci più di tanto, mi lanciai a peso morto contro i due che lo tenevano per le braccia e, aiutato anche dalle loro pesanti armature, riuscii a farli cadere a terra. Mi rialzai velocemente piazzandomi davanti all'uomo.
-Scappa! – urlai stringendo i pugni, pronto a combattere, e lui fece come gli avevo detto. Mentre correva via, cercai disperatamente un modo per uscire da quella situazione.
Perché diamine non ho portato la spada con me?, mi maledissi.
Un soldato mi si avvicinò menando fendenti, mentre gli altri mi accerchiavano. La mia mente viaggiava alla velocità della luce, esaminando la situazione.
Quattro contro uno. Non ho vie di fuga e sono disarmato. Due di loro sono equipaggiati con spade, uno con la lancia e un altro con l'arco.
Quest'ultimo fece un passo indietro, incoccando una freccia.
Devo prima eliminare chi combatte a lungo e medio raggio.
Scattai verso l'arciere e lo colpii con forza sul collo, appena sotto il mento, prima ancora che potesse prendere la mira. Crollò a terra.
Riuscii per un pelo a evitare una scoccata che mi recise una ciocca di capelli.
Il sangue era adrenalina pura nelle mie vene. Avevo paura, ma non ero più un ragazzino sperduto e impaurito: sapevo benissimo cosa dovevo fare. Per la prima volta, ero totalmente padrone di me stesso.
Quindi è questo che si prova in un vero combattimento.
Avanzai con fatica verso il lanciere, cercando allo stesso tempo di eludere gli attacchi degli altri due.
Fino a quel momento stavo andando abbastanza bene: avevo riportato solo qualche graffio, ma sapevo di non poter andare avanti per molto. Presto avrei esaurito le energie.
Con uno scatto di reni, mi portai accanto al soldato con la lancia. Gliela sfilai di mano e lo colpii in testa. Anche lui collassò.
Per un istante, rimasi a osservare soddisfatto il mio operato.
Le distrazione mi fu fatale: uno degli altri due mi colpì al fianco.
Il mio sangue si mischiò alla pioggia, che prese un macabro colore scarlatto.
Caddi a terra graffiandomi le mani e la lancia rotolò lontano. La ferita non era molto profonda, ma bruciava. Non riuscivo più a pensare lucidamente.
-Sei finito, pezzo di merda.
Un tuono rimbombò all'orizzonte, mentre il soldato caricava il braccio e una terribile sensazione di déjà vu si faceva strada dentro di me.
No, non morirò qui.
Contrassi la mascella, stringendo i denti. Non poteva finire così, dopo tutta la fatica e gli sforzi.
Mi serve qualcosa. Qualsiasi cosa.
La spada calò verso di me, rapida e brutale, mentre fulmini sfolgoranti illuminavano il cielo.
Dannazione, non c'è tempo. Non c'è tempo.
Chiusi gli occhi.
Era passato qualche secondo, ma niente mi aveva colpito.
Socchiusi le palpebre e mi accorsi che, davanti a me, si ergeva un muro di solida roccia. Il Marchio bruciava.
-C-Chi sei tu?
Il soldato indietreggiò, la punta della spada che tremava.
Non risposi; non ce n'era bisogno. Mi rialzai, mentre lo scudo che avevo creato si sgretolava sotto il mio sguardo e la pioggia battente.
Avevo agito d'istinto. Quando il soldato stava per colpirmi, avevo alzato un braccio, attingendo ai miei poteri.
Era stato un gesto inconsapevole; in un'altra situazione non sarebbe andata allo stesso modo. Ero stato fortunato, molto fortunato.
-S-sei un mostro – il milite continuò a balbettare, mentre io recuperavo la lancia. Non era la mia arma preferita, ma me la cavavo.
-In effetti me l'hanno detto in molti.
Feci un paio di passi verso di lui, la punta dell'arma che rifletteva la luce cupa dei lampi. Finsi di non notare l'altro soldato che, silenziosamente, mi aggirava.
-Muori! – urlò, prima di attaccarmi alle spalle. Ma non riuscì mai a colpirmi.
Io ero pronto, con la lancia in pugno, ma il mio intervento non fu necessario.
Un'ombra sbucò dietro di lui e l'uomo che avevo salvato lo colpì alla nuca con una spranga di ferro. Si accasciò a terra, mentre il suo elmo scivolava in una pozzanghera.
Io e il mio nuovo e inaspettato alleato ci scambiammo un'occhiata, per poi guardare contemporaneamente l'ultimo nemico rimasto.
-Vi p-prego, n-non fatemi del male – ci supplicò. Si chinò in avanti, in mezzo al fango, mentre le gocce di pioggia gli rimbalzavano sull'armatura.
-Perché dovrei? Avete provato ad uccidermi – dissi, duro, mettendomi una mano sulla fronte per proteggermi dall'acqua che mi gocciolava negli occhi.
L'uomo tirò su con il naso e si alzò la visiera. Era molto giovane, poco più di un ragazzo.
-... gli ordini. Avevamo degli ordini – balbettò.
-Che genere di ordini? – chiesi con un tono di voce perentorio.
Era strano dover recitare il ruolo del cattivo. Non mi si addiceva.
-Dovevamo catturare quell'uomo – indicò con un dito tremante colui che avevo salvato e aveva, poi, immediatamente ricambiato – e far fuori chiunque si fosse messo sulla nostra strada.
Fece un respiro tremulo.
-Non mi ucciderete vero?
Io e l'uomo accanto a me ci guardammo per un istante. Lui annuì, brusco.
-No. Ma adesso vattene.
Il giovane soldato ci sorrise, riconoscente. Poi, si voltò e corse via, abbandonando i compagni sulla strada bagnata dalla pioggia.
Riportai la mia attenzione sull'uomo di fronte a me. Avrà avuto circa trent'anni anni e i capelli scuri erano appiccicati alla fronte.
-Ah, un brutto taglio quello. Ma nulla che non si possa curare – osservò con una voce baritonale calda e melodiosa, studiando con occhio clinico la mia ferita.
Poi, mi fece un cenno con la mano.
-Andiamocene. Non è sicuro rimanere qua – disse e io lo seguii.
Quando svoltammo l'angolo, la borsa di cuoio era ancora lì.
-Ah, eccola! Temevo di averla persa!
La raccolse e la strinse al petto come se fosse un bene prezioso. Poi mi guardò.
-Dove alloggi?
Quando risposi, mi sorrise.
-Vengo con te, almeno potrò sdebitarmi per il tuo aiuto. Pochi si sarebbero fermati per dare una mano.
-Non è stato nulla di che – minimizzai con una scrollata di spalle. Lui non replicò.
Mentre ci avviavamo verso la locanda, gli lanciai un'occhiata di sottecchi.
-Chi sei tu? – chiesi, premendomi una mano sul fianco per bloccare il flusso del sangue.
I suoi occhi scuri luccicarono, mentre un angolo della sua bocca si piegava verso l'alto.
-Mi chiamo Cedric.
Cedric sorrise e continuò:
-E sono un Ribelle.
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