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32. MAGNO PRETIO

Era l'ultima sera prima di ripartire. Finita la cena di commiato, l'aveva vista andare via quando la regina Laureloth si era ritirata nelle sue stanze. Non aveva prestato molta attenzione alla cosa: quando Alis si fosse liberata dalle sue incombenze, si sarebbero ritrovati nella stanza di Mellodin per trascorrere la notte insieme. Era sempre andata così.

Quella volta, però, di lei non c'era traccia. La cercò per i corridoi deserti, nelle anticamere dove si udivano i sospiri degli amanti che si dicevano addio, e persino nelle cucine. Alla fine di quella ricerca infruttuosa si ritrovò nella corte, sotto i raggi della luna seminascosta da un cielo velato.

Troppo preoccupato per riuscire a prendere sonno, il comandante si mise a passeggiare lungo le mura del castello. Oltre i cancelli, dalla piazza di Arthalion, giungevano i riflessi dei fuochi e i rumori delle danze. In città si festeggiava la partenza dei soldati. Senza nulla da fare e con la testa vuota, i passi lo guidarono in quella direzione.

Davanti ai suoi occhi scorreva una carola di giovani attorno a una gigantesca catasta di paglia che bruciava in segno di buon augurio, mentre gruppetti di amici formavano allegri capannelli. Mellodin vi passeggiò attraverso, ricambiando i saluti che gli tributavano gli abitanti della città, ma la sua mente era altrove. Non si sarebbe mai aspettato di sentirsi così solo. Non quella notte.

Fu mentre si abbandonava a quella triste considerazione, che la vide: Alis ballava. Le mani unite a quelle di altri due giovani del villaggio, i lunghi capelli biondi che si sollevavano seguendo i saltelli della danza, il vestito che le si attorcigliava attorno alle gambe quando volteggiava.

In qualsiasi altra occasione, il comandante sarebbe rimasto a guardare quello spettacolo, felice di vedere la bellezza della sua donna brillare tra le luci della festa. In quel momento, però, una rabbia feroce gli attanagliò il cuore. Senza nemmeno ragionare, si diresse con passo fermo verso di lei, l'afferrò per un polso e la trascinò verso un angolo più appartato della piazza.

"Ehi!"

Alis cercò di strapparsi dalla sua stretta, ma l'unico effetto che ottenne fu quello di farlo fermare per guardarla. L'espressione dei suoi occhi era terribile, ma lei non tremò né vacillò.

"Che intenzioni avete, comandante?", lo apostrofò, scandendo con ironia il grado militare che aveva appena guadagnato.

"Se questo è uno scherzo, Alis, sappi che non è divertente".

"Scherzo? Non direi. E comunque mi stavo divertendo parecchio prima del vostro arrivo".

Mellodin continuò a fissarla senza capire. Perché d'un tratto gli si rivolgeva così? Non era necessaria quella formalità visto che nessuno, in mezzo a quel trambusto, badava a loro. La lasciò andare e cercò di moderare il tono della voce.

"Vieni, torniamo al castello".

Alis incrociò le braccia sul petto.

"Che autorità avete per darmi ordini?", replicò. "Non siete mio marito, né il mio promesso sposo. Non siete mio fratello, né un mio congiunto. Non siete... nulla per me!"

"Nulla?"

A quelle parole, Mellodin pensò che avrebbe perso le staffe, se quella dannata ragazza non gli avesse fornito subito una spiegazione. La prese per un braccio e, senza troppi complimenti, la trascinò più lontano, dove la piazza si stringeva in un vicolo buio in cui non passava nessuno. Lì la prese per le spalle. Non gli accadeva quasi mai di essere fuori di sé ma, per gli dei!, quello era uno di quei rari momenti.

"Nulla?", ripeté. "Sono nulla i giorni passati insieme? E le notti? È nulla quello che abbiamo condiviso per anni? Il rispetto che ti ho portato? La fedeltà? È nulla?".

"Forse", rispose lei vaga, distogliendo lo sguardo. "O forse no. Ma qual è stato il prezzo?"

Mellodin sospirò nell'istante in cui cominciò a capire. In cuor suo sapeva che prima o poi sarebbe dovuto accadere ma, dopo tutto quel tempo, aveva iniziato a sperare che quella corda, sebbene sempre tesa allo spasimo, avrebbe retto fino alla fine.

"Quale vuoi che sia, il prezzo? Che diamine, prima o poi tutto questo avrà fine! Galanár un giorno sarà re, gli passerà la voglia di andare in giro a conquistare...".

"Gli passerà la voglia?", lo interruppe lei con una risata sarcastica. "A Galanár passerà mai la voglia di conquistare qualcosa che non possiede, finché ne esiste una?"

Lui allentò la presa e lasciò scivolare le mani sulle sue braccia, con delicatezza, come se si fosse arreso di fronte a quell'osservazione.

"D'accordo, forse no, ma... per gli dei, Alis! Quante altre donne, qui ad Arthalion, aspettano che i loro uomini tornino dalla guerra? Ho scelto una vita difficile, è vero, perché sono pazzo e ho deciso di seguire uno che è più pazzo di me. E so che sarò sempre in viaggio, perché per quelli come me è più facile partire che restare, ma nulla potrà mai cambiare quello che sono davvero".

Lei non rispose. Si divincolò da lui, si voltò e si allontanò di qualche passo, in silenzio. Mellodin, in quella penombra, poteva solo seguire la sagoma della sua testa e la curva della sua schiena. Quell'immagine, d'un tratto, gli parve terribile e ne comprese anche il motivo: non gli era familiare. Era sempre lui quello che andava via e lei quella che lo guardava partire. Non era mai successo il contrario.

Mentre ragionava così, Alis si girò e lo inchiodò con lo sguardo. Il comandante vide che brillava nell'oscurità di una rabbia e di un dolore che non le conosceva e tacque di fronte a quegli occhi.

"Sono io a essere cambiata, infatti", commentò con tristezza. "Ma tu non riesci a vederlo. E come potrebbe essere altrimenti? Non hai fatto altro che partire e vivere altrove per mesi, per anni. Tutto quello che vedi è la ragazzina di sedici anni che hai baciato tanto tempo fa per la prima volta, con le trecce e i bei vestiti, i monili e le romanticherie che leggeva nei libri. Io sono ancora questo, per te".

Scosse il capo e strinse gli occhi. Pure nel buio Mellodin si accorse che una lacrima stava rotolando lungo la guancia. Una sola lacrima, e lui non poteva toccarla. Era troppo lontano e non osava fare un passo verso di lei, non osava entrare in quel dolore. Alis, però, non la cancellò. Piuttosto la lasciò orgogliosamente al suo posto, esibendo quel segno come una cicatrice di guerra.

"Doveva accadere prima o poi, lo capisci? Dovevo crescere, era inevitabile! Non posso restare per sempre a sognare il tuo eterno ritorno, dietro una finestra, a cercare l'ombra di una bandiera all'orizzonte".

"Io non ti ho mai legata", scandì lui con voce dolente. "Non ti ho mai chiesto di aspettare".

Lei annuì a quelle parole.

"E forse è stato l'unico bene. Così ognuno di noi può ancora fare la sua scelta. E io, Mellodîn, io scelgo di essere libera".

Così era accaduto, alla fine: lei si era arresa. Si era arresa con lui, con loro.

Il comandante chiuse gli occhi. C'era troppo silenzio, attorno. Forse perché il cuore aveva smesso di fare il suo lavoro, anche se lui era ancora in piedi. Sì, il suo corpo era ancora in piedi, e avrebbe continuato a muoversi, a respirare, a tirare di spada, a prendere vite e a salvarne altre, ma non ci sarebbe stato nulla di più.

Sollevò le palpebre e annuì, poi si voltò e si mosse verso la piazza. Quando arrivò al punto in cui la strada curvava e si apriva, si fermò al limitare dell'ombra proiettata dal muro. Appoggiò il braccio alla parete mentre la sua mano si serrava in un pugno che colpì la pietra. Facendo quasi violenza su se stesso, si girò di nuovo e si accorse che Alis non lo stava guardando. Forse aveva scelto anche quello, di non doverlo fissare mentre andava via per l'ultima volta.

"La libertà, Alis, non è sempre facile da sopportare", disse soltanto, prima di allontanarsi.

La cera si scioglieva consumando le candele fino alla base. Gli occhi di Edhel fissavano le spesse gocce che rotolavano lungo i fusti senza vederle davvero. Restava immobile, mentre la sua testa scandagliava i ricordi dei suoi ultimi anni nella reggia che stava lasciando per la prima volta. Non aveva mai amato Gundech quanto Mellodîn, ma era stato comunque preciso nell'addestramento della spada. Quanto a Vargas, poi, non avrebbe potuto avere allievo migliore: aveva studiato, si era allenato con la magia e alla fine aveva raggiunto i risultati per cui tanto aveva faticato: un Daimonmaster. Del Fuoco e dell'Acqua.

Le fanciulle attorno a lui, di fronte al suo silenzio, non osavano proferire verbo, limitandosi a bisbigliare parole mozzate. In verità avrebbero potuto anche urlare: Edhel non avrebbe comunque rivolto loro la sua attenzione. Perfino mentre le loro mani sfioravano il suo corpo perfetto sembrava non notarle.

Lasciò che le loro dita si muovessero sulla sua pelle fino a quando la prima fioca luce del mattino illuminò i loro occhi stanchi. Solo allora Edhel sollevò lo sguardo e fissò lo specchio che aveva davanti. I suoi occhi accarezzarono l'immagine riflessa più e più volte.

"Ottimo lavoro", mormorò soddisfatto.

Si girò verso le ragazze, quasi si fosse accorto in quel momento della loro presenza.

"Potete andare, adesso. Sarete ripagate come si conviene per l'enorme servizio che mi avete reso stanotte".

Le giovani si inchinarono e lasciarono la stanza. Edhel si girò una volta ancora verso la lastra d'argento e annuì al suo io riflesso.

Ciò che non si possiede, lo si può creare.

Sorrise a quel pensiero. L'intelligenza superiore della specie poteva sopperire alle mancanze della natura, purché se ne avesse il talento, la volontà e la pazienza.

Galanár levò lo sguardo a Est. Ogni fascio di luce che si aggiungeva all'incerto chiarore dell'alba aumentava la sua serenità. Il solo pensiero della partenza gli alleggeriva lo spirito.

Anche quella volta non sarebbe passato da Laurëgil, ma avrebbe puntato a Nord-Est, alla volta di Formenos. Non aveva alcuna intenzione di rivedere il re degli Elfi, né di conversare con lui. Che re Arantar sguinzagliasse pure i suoi segugi per il regno, lui non sarebbe andato a rendergli omaggio. Partiva, d'altronde, portandosi dietro soltanto alcune compagnie di cavalieri e di arcieri. Calemar, Medthalion e Aermegil gli avevano chiesto del tempo per armare i propri uomini. Il grosso dei rinforzi si sarebbe messo in marcia qualche settimana più tardi.

Il sole apparve come una fulgida scia sulla linea dell'orizzonte. Era il segnale che attendeva per iniziare a passare in rassegna i soldati schierati nella corte. Compiva quel gesto più per abitudine che per necessità. Gli uomini erano pronti a partire almeno quanto lo era lui. Il suo era solo un rito, un buon augurio per la spedizione. Al principe non era mai sfuggito l'intrinseco potere che le tradizioni e le superstizioni possedevano e, pur non credendo quasi in nulla, non si era mai tirato indietro di fronte alla possibilità di instaurarne di nuove.

Così sfilò a cavallo, accennando un saluto col capo ancora scoperto. Quando si trovò di fronte a Mellodîn rallentò il trotto, perché accanto al comandante c'era il suo nuovo capitano, suo fratello Aidanhîn. Galanár voleva osservarlo con attenzione, poiché aveva smesso di essere una semplice entità nell'intricata corte di Arthalion ed era diventato una presenza concreta all'interno del suo schieramento.

Nonostante il fastidioso incidente alle giostre, in qualche strano modo quel ragazzo gli piaceva. Aveva l'intemperanza della giovinezza, ma era evidente che si sforzava di contenerla all'interno del rigore militare. Lo si deduceva dalla cura con cui aveva effettuato la propria vestizione. Indossava una raffinata brigantina sopra una cotta di maglia corta e sulle spalle aveva allacciato la guaina che proteggeva il suo arco. L'unica bizzarria che si era concesso erano le due cinte di cuoio che aveva attorno ai fianchi. La prima, più alta e più sottile, sosteneva i due pugnali che aveva fatto volteggiare con maestria durante il banchetto. All'altra, più bassa e più spessa, era invece affibbiata una spada dall'elsa rifinita in oro e bronzo. Era un'arma anomala per un arciere ma, pensando all'abilità mostrata da Aidan, Galanár concluse che, nel suo caso, quella lama aveva di certo un buon motivo per restare appesa a quel fianco.

La vista di Aidan gli fece notare qualcosa o, meglio, la mancanza di qualcosa. Rivolse uno sguardo ai suoi cavalieri, quindi si arrestò e si rivolse al giovane con piglio severo.

"Dov'è tuo fratello? Non sa che bisogna essere puntuali quando è ora di mettersi in marcia?"

Aidan esitò, impreparato di fronte alla necessità di inventare una menzogna che non aveva preparato. Proprio mentre stava per aprire bocca, la piazza fu scossa da un brusio. Un ragazzino si precipitò ansando nella corte, tirando le redini di un puledro nero scalciante. Nello stesso momento, dalla scala che portava al loggiato, si udì un rapido rumore di passi, poi lo scatto metallico delle alabarde delle sentinelle sollevate in segno di saluto.

"Chiedo perdono per il ritardo".

La voce di Edhel si disperse nel silenzio del cortile. Galanár lo squadrò con disappunto mentre prendeva le redini dalle mani dello stalliere.

"L'ultimo saluto alla regina mi ha sottratto più tempo del previsto, fratello".

Le dita di Galanár tamburellarono nervose sull'elsa di Ariendil.

"Tra le fila dell'esercito noi cessiamo di essere principi e cessiamo di essere fratelli, Edheldûr. Esistono solo generali, comandanti, capitani, luogotenenti e soldati. Spero che ti abituerai presto a queste disposizioni".

Edhel si fermò, serrando ancora le redini tra le mani guantate, e osservò il fratello dal basso.

"Farò del mio meglio, generale", scandì con un sorriso ironico.

Quindi si gettò la cappa sulla spalla e montò a cavallo. Galanár non riuscì a replicare a quell'impertinenza perché si trovò dinnanzi agli occhi uno spettacolo inatteso: stava osservando il più improbabile equipaggiamento mai indossato da un soldato.

Edhel portava la corazza, gli spallacci e i bracciali di metallo con le insegne di Arthalion, come tutti gli altri cavalieri, ma sotto il pettorale non aveva la cotta di maglia. Non indossava nemmeno pourpoint e d'altra parte, osservò Galanár criticamente, non gli sarebbe stato di nessuna utilità, visto che non indossava protezioni alle gambe. Da sotto la cintola, infatti, sbucava la tunica viola degli incantatori. La veste, che di certo gli avrebbe dato impaccio nel cavalcare, era stata tagliata sui fianchi fino alle anche e rifinita con un bordo dorato. Dei calzoni di pelle e degli stivali di cuoio completavano il suo abbigliamento. Su un fianco pendeva una spada in tutto simile a quella di Aidan, ma sulla destra c'era il falcetto che i maghi portavano sempre appeso al loro cordone.

Galanár sentì il sangue che gli ribolliva: Edhel si era preso gioco di lui, e non c'era nulla che potesse dire o fare in quel frangente. Doveva accettare quell'ennesimo compromesso.

Si consolò pensando che sarebbe stato il campo di battaglia a dispensare giustizia, riportando ogni cosa al suo posto. Sollevò il braccio e diede l'ordine di mettersi in marcia.

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