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30. AMANTIUM CAECA IUDICIA SUNT

Non era il momento giusto, e Mellodîn lo sapeva, ma forse non ce ne sarebbe mai stato uno davvero adatto, quindi tergiversare era inutile. Molte azioni e decisioni avevano natura istantanea e non permettevano dilazioni. In più, conosceva abbastanza Galanár da sapere che non sarebbe rimasto ad Arthalion un minuto in più del necessario. Probabilmente, nella sua testa, era già tutto pronto per il viaggio verso Foroddir. Decise che gli avrebbe parlato quella mattina.

La parte meno complicata della sua amicizia con Galanár era che il principe, a dispetto del suo atteggiamento indipendente e delle sue repentine decisioni, era un abitudinario. Anche se non se ne rendeva conto, tendeva a seguire una prassi in ogni situazione, per cui il capitano non dovette sforzarsi molto per immaginare dove fosse: non rinunciava mai a una cavalcata quando era oppresso da qualche pensiero o doveva prendere una decisione importante. Dopo il banchetto e la nottataccia che doveva averlo seguito, lo avrebbe trovato senza dubbio nelle scuderie.

Galanár stava accarezzando il suo stallone, mentre chiedeva ragguagli ai palafrenieri sulla salute degli animali. Accennò appena un saluto quando vide il capitano, e quello non era un buon segno, ma ordinò di fare sellare due animali, quindi era almeno disposto ad accettare la sua compagnia.

Il principe amava la velocità e gli piaceva ancor più scoprire fin dove poteva spingere la fusione con il proprio cavallo. In più, attraversare il bosco al galoppo, concentrandosi sugli ostacoli da evitare, gli liberava la mente. Mellodîn attese quindi che scegliesse il percorso, poi gli tenne dietro in quella corsa.

Dopo essersi lanciato per un lungo tratto spronando il cavallo fino a togliergli il fiato, il principe si fermò in una radura dal lato opposto del lago. Appoggiò gli avambracci sul corno del pomello e rimase a fissare un al di là nebbioso e inesistente. Aveva la stessa espressione quando studiava lo schieramento nemico prima di dare inizio a una battaglia, ma non aveva avversari davanti a sé. Il nemico doveva avercelo dentro, pensò il capitano.

"Quella donna...", borbottò il principe d'un tratto.

Le parole, Mellodîn quasi non le udì. Piuttosto le intuì, e un sorriso bonario gli affiorò sul viso. Il suo amico stava affrontando, in effetti, l'unico esercito che non sapeva portare alla resa, e il pensiero che fosse composto da una sola donna lo divertiva parecchio. L'amore era una battaglia che prevedeva due vincitori o nessuno, ovvero quanto di più lontano Galanár potesse concepire.

"Quella donna... è una donna", concluse Mellodîn con semplicità, accostando la cavalcatura a quella dell'amico. "E tu non puoi farci nulla".

"Non posso farci nulla? Oh, posso eccome! Posso punirla come lei sta punendo me, per esempio. Posso lasciarla qui a ricamare e a suonare il liuto con le altre dame. E stai pur certo che posso escogitare anche qualcosa di peggio, se solo mi darà la scusa per farlo".

Parlava con risentimento, ma l'espressione del suo viso trasmetteva tutt'altro. Mellodîn capì che il discorso che si era preparato non era che una piccola parte del problema che avrebbe dovuto affrontare. Avrebbe potuto continuare a fingere di non vedere quello che stava accadendo, e concentrarsi solo su ciò che gli stava a cuore, oppure avrebbe dovuto farsi coraggio e portare alla luce i dubbi e le paure che stavano nascondendo da ambo le parti. Si chiese se sarebbe riuscito a essere un capitano di Arthalion e un buon amico allo stesso tempo e, soprattutto, con i medesimi risultati.

"Non sei nato per farti dominare dalle passioni. Non ci sei abituato. I sentimenti mandano all'aria i tuoi piani e ti fanno sentire confuso. Se tu fossi un uomo qualsiasi, sarebbe del tutto normale, e io starei qui a darti una pacca sulla spalla e a dirti che prima o poi passerà. Ma non posso farlo. Perché ho bisogno che tu sia lucido. Ne abbiamo bisogno tutti. E non prima o poi. Ci servi adesso".

A Galanár mancò il fiato, a quelle parole, come se un abisso gli si fosse di colpo spalancato davanti.

"Che intendi?", si sforzò di domandare, con l'ansia di ricevere una risposta che già conosceva, ma che non voleva sentire.

"Che devi fare una scelta. In una direzione o nell'altra, non importa, purché tu prenda una decisione. Abbiamo una missione da portare a termine, e non occorre che io ti rammenti quanto sia cruciale il tuo ruolo. Mi servi presente a te stesso, o non rischierò la vita per te, e nemmeno i miei uomini".

Galanár non tentò nemmeno di controbattere. Era la verità, quella, e faceva paura.

"Lei a te non piace, vero?", chiese dopo un lungo silenzio.

"La mia opinione cambierebbe qualcosa?"

Il principe non replicò.

"Il punto non è se mi piaccia o meno. Ha salvato la vita a entrambi, è logico che mi piaccia averla sempre tra i piedi, ma io non la conosco e forse neanche tu. Non mi fido delle persone che non conosco, soprattutto se riescono a distrarti così tanto, al punto da influenzare ogni tua risoluzione. Tuttavia...", prese una pausa e mutò di espressione, "se va bene a te, allora va bene a me".

Galanár annuì e accennò un sorriso, come se quella risposta lo avesse rincuorato.

"In effetti", osservò con tono più lieve, "sarebbe dura scendere di nuovo in campo senza di lei. Il solo pensiero mi consuma".

Mellodîn gli lanciò un'occhiata divertita.

"È una fortuna, allora, che tu sia quasi immortale", scherzò.

Il principe non riuscì a trattenere una risata. Mille altre volte, in passato, si erano tirati fuori da un problema con una battuta di spirito. Era il loro modo per dirsi che la soluzione c'era, e che loro l'avrebbero trovata.

"Andiamo fino al villaggio?", propose Galanár. "Ho fame e non ho voglia di strozzarmi con le chiacchiere di quei noiosi Arconti".

"I tuoi Arconti, riuniti qui per rifocillare il tuo esercito...", lo canzonò l'altro.

"I miei Arconti, che rifocilleranno il mio esercito, ma non oggi!", rise il principe, dando di sprone al cavallo. "Oggi voglio mangiare".

Si fermarono alla locanda e si presero il tempo per rilassarsi, chiacchierando del passato e delle loro avventure, come una qualsiasi coppia di vecchi amici. Quando un pallido sole velò la campagna nel pomeriggio, ripresero la strada per il castello.

Un torpore grigiastro era sceso ad addormentare il paesaggio che stavano attraversando e lo scalpiccio dei cavalli sul terreno era l'unico suono che si imponeva sui bassi rumori della natura. Mellodîn pensò che non gli restava molto tempo. Galanár era tornato di buonumore, il che poteva essere un bene, ma in definitiva anche un male, visto che di solito non gradiva interruzioni ai suoi stati di grazia. Pensò di saltare ogni preambolo e lanciare i dadi. Avrebbe deciso la sorte dell'esito di quella partita.

"Avrei un favore da chiederti", esordì. "Vorrei includere anche Aidanhîn ed Edheldûr nella spedizione".

Il principe fece un brusco movimento con la mano e il suo cavallo ebbe uno scarto. Non disse nulla, ma riprese il controllo dell'animale e proseguì con la stessa andatura.

"Hai avuto modo di osservarli entrambi durante le giostre e spero che avallerai la mia decisione".

Il principe si limitò ad assentire con il capo. Sì, aveva visto abbastanza durante le giostre e avrebbe preferito ricacciare indietro tutte le immagini. Riusciva al massimo a salvarne una, che lo aveva impressionato a dispetto di tutto.

"Aidan ha dimostrato di essere un pregevole arciere", sentenziò. "Ed è molto abile con le lame, nonostante i suoi modi poco educati".

Fece una pausa.

"Suppongo che per quelli ci sia rimedio, e comunque la cortesia non è necessaria in guerra. Se lo vuoi come sottoposto, puoi portarlo con te".

Il capitano incassò il primo punto, ma non esultò. Restava ancora la parte più difficile da affrontare.

"Ed Edhel?"

Lo sguardo di Galanár si offuscò. Sembrava che tutti, da sua madre allo stesso Mellodîn, si ostinassero a parlare di Edhel in sua presenza come se nulla fosse accaduto. Si domandò se non fosse lui a volerne essere ossessionato senza motivo.

"Edhel riesce a stento a governare un cavallo con una mano sola", replicò indifferente. "Non credo sia pronto per combattere tra i miei cavalieri".

"Non sto suggerendo di inserirlo tra i tuoi cavalieri", scandì, "ma tra i tuoi incantatori".

Il principe arrestò il cavallo.

"Che scherzo è questo, Mellodîn?"

"Nessuno scherzo. Edhel ha seguito il richiamo del suo sangue e ha perfezionato le sue arti a tal punto da meritare un posto tra i più validi incantatori".

Il principe si chiuse di colpo in un cupo silenzio. Deviò verso le rive del lago, smontò da cavallo e abbandonò le redini sul collo dell'animale, poi si allontanò fino a sfiorare la linea dell'acqua.

"Dimmi, Mellodîn", esordì il principe appena il capitano si fu fermato al suo fianco. "Cos'altro non mi è stato detto? Fino a che punto ha creduto di potermi ingannare, quel ragazzino falso e sleale? O fino a che punto l'hai fatto tu".

In quel momento, con lo sguardo tagliente, i capelli sciolti che gli ricadevano sul viso e la punta delle orecchie che fremeva di rabbia, il principe avrebbe impaurito chiunque. A parte colui che gli stava accanto e che era così sicuro della bontà del proprio operato da non essere disposto ad accettare accuse.

"Non parlare di slealtà con me".

"Spiegami, allora!", esclamò il principe, mentre i toni della conversazione si facevano più accesi.

"Io ho addestrato Edhel alle armi per anni, ma capivo che c'era qualcosa di strano in lui. Non sono esperto di materia arcana, così ho chiesto il parere del maestro Vargas".

"Del maestro Vargas?"

"Sì. Volevo che lo esaminasse ed egli ha creduto di vedere in Edhel un Daimonmaster, lo ha preso tra i suoi incantatori e lo ha addestrato alla magia".

"Un Daimonmaster? Edhel? E quando pensavi di dirmelo?"

"Ha vincolato tutti a un patto di segretezza".

"Sei il mio capitano, adesso, o sei il suo?", lo interruppe Galanár con rabbia.

"Un patto è un patto e va rispettato!", sbottò Mellodîn, esasperato. "E lui è figlio del re tanto quanto lo sei tu!"

A quelle parole, il principe sembrò trattenere la propria ira. Non voleva commettere l'errore di mescolare la rabbia per il tradimento che pensava di aver subito con un altro tipo di sentimento, più basso e irrazionale, che in qualche modo stava indirizzando al fratello. Se voleva vederci chiaro, doveva restare calmo.

"Per quale motivo non ha rinunciato all'addestramento delle armi?", chiese.

"Edhel non è un combattente, ma sa il fatto suo: ha imparato a difendersi per potersi muovere sul campo di battaglia senza essere di peso a nessuno. E a me stava bene così".

Galanár non replicò. Mellodîn gli lasciò il tempo di ragionare sulla situazione, poi tornò alla carica.

"Ora che sai tutto, possiamo portarlo con noi?"

Il principe lo ricambiò con uno sguardo strano, accompagnato da un sorriso inusuale.

"Se è il cavaliere che vuole fare, allora lo accontenteremo".

"Non è questo che...".

"Che indossi l'usbergo e monti a cavallo", dichiarò con voce dura, incurante della sua protesta. "Scenderà in battaglia tra i miei cavalieri, e questo è un ordine che gli consegnerai di persona".

Quella giornata le era sembrata interminabile e quella vita, se era davvero tutta uguale, le era parsa terribile. Forse, se collocata nell'ottica della brevità umana, poteva essere appena tollerabile ma, nella prospettiva di una longeva esistenza elfica, era una vera condanna.

Silanna si era sforzata di trovare interessante la corte di Arthalion. 

A Valkano il tempo era scandito dagli impegni quotidiani: lezioni da seguire, libri da studiare, incantesimi da praticare. Nell'esercito di Galanár, invece, il computo dei giorni e delle notti non aveva importanza, perché c'era sempre qualcosa a cui pensare, anche quando non si era in campo.

Il tempo di Arthalion era diverso.

La mattina l'aveva occupata facendo un bagno, pettinando i capelli e scegliendo un abito. Anche sforzandosi di prolungare ciascuna di quelle azioni il più possibile, non era riuscita a impiegarci che un paio d'ore. Si era aggirata per i loggioni in attesa del desinare, quindi aveva pranzato con la regina e le sue dame.

Nessuna di loro le aveva rivolto la parola. Laurëloth era stata cauta e cortese, interrogandola di tanto in tanto sull'andamento della guerra, interessandosi ai suoi compiti in battaglia ed evitando qualsiasi domanda sulle sue origini e sulla sua famiglia. Da quella eccessiva discrezione, l'elfa aveva compreso quanto l'argomento fosse opinabile.

Finito il pranzo, la regina l'aveva invitata a trascorrere il pomeriggio nelle sue stanze ma, con enorme sorpresa di tutte, Silanna aveva rifiutato, adducendo una scusa banale.

Non aveva intenzione di trascorrere altro tempo con quelle donne che la guardavano e la giudicavano con cattiveria. Di certo le sue origini non erano nobili, ma lei era un Daimonmaster addestrato a Valkano. La sua preparazione, la sua cultura e la sua intelligenza erano doti di gran lunga più rilevanti. Una delle ragazze in particolare, una bellezza bionda palesemente troppo presa dalla cura dei propri capelli e delle mani, l'aveva sfidata per tutto il tempo con uno sguardo sfacciato. Era la stessa ragazza per cui Aidanhín aveva giostrato: aveva già avuto la sua parte di soddisfazione durante il torneo, perché la fissava a quel modo? 

Si mise a passeggiare nel chiostro. La regina aveva fatto portare molte piante dalle terre degli Elfi. L'incantatrice cominciò a ripassarne i nomi e le proprietà curative o venefiche. Sfiorava il bordo delle foglie e i calici delicati con un lieve gesto della mano, e intanto sprofondava nei suoi pensieri.

Dov'era Galanár? Che stava facendo? Se fossero stati all'accampamento, sarebbe stata con lui. Dentro quelle mura, invece, le sembrava di non esistere. Lui era da qualche parte a discutere del destino della sua vita - della loro vita - e di quella di tutti i suoi uomini, e lei era in un giardino a guardare piante e fiori. Chissà se l'aveva pensata...

Siete testarda e impertinente, e io ne ho abbastanza!

Ebbe un brivido nel ricordare la sua voce. Cosa ne sarebbe stato di lei, se davvero un giorno ne avesse avuto abbastanza? E cosa, se quel giorno fosse già arrivato? Si accorse solo in quel momento di quanto precario fosse il suo stato: era in balia dei desideri di Galanár.

Capire che tutto poteva finire all'improvviso, nonostante il suo impegno e i suoi sforzi, la gettò nella confusione. Per la prima volta, dopo moltissimo tempo, sentì il bisogno di piangere. Nascosta tra le fitte rose dei giardini di Arthalion, si abbandonò alla tristezza.

Se fosse stata un uomo forse avrebbe avuto una scelta. Se fosse stata un uomo avrebbe forgiato il destino degli uomini con le sue sole mani. Ma era donna, e le toccava forgiare il proprio destino attraverso le mani di Galanár.

NOTA DELL'AUTORE

Amantiun caeca iudicia sunt (I giudizi degli amanti sono ciechi) è una frase di Cicerone che vuole sottolineare come gli innamorati non riescano a essere lucidi e oggettivi, quando si tratta di giudicare situazioni che riguardano la persona amata 😉 

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