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21. NEC SPE, NEC METU

Da quante ore erano lì, chiusi in una tenda a discutere? Galanár aveva ormai perso la cognizione del tempo trascorso. Dopo avere reso omaggio al re di Foroddir e avergli offerto la sua spada, i due si erano seduti attorno a un tavolo, dove erano distese le mappe e i piani di battaglia.

Il principe di Arthalion era rimasto in silenzio ad ascoltare le parole dello zio, a figurarsi nella testa gli scontri avvenuti fino a quel momento e le misure di contrattacco predisposte dal re elfo. Disapprovava la gestione dei primi ed era molto perplesso sulle seconde. 

L'atteggiamento di re Anárion era, a suo parere, eccessivamente guardingo. Galanár era pronto ad ammettere di essere sempre stato un condottiero spregiudicato in battaglia, ma ciò che suo zio stava disponendo per l'imminente scontro era troppo, troppo cauto. Sembrava più mirato a proteggere la propria posizione che a tagliare le gambe all'avversario. Nonostante il rincorrersi dei pensieri e delle considerazioni, riuscì a tacere e a non far trapelare le sue perplessità. E non soltanto grazie agli sguardi che Aegis gli lanciava di tanto in tanto, per esortarlo alla pazienza e rammentargli la dose di calma necessaria a quella trattativa.

In verità, per la prima volta da quando era iniziato quel viaggio, Galanár si era davvero preso il tempo di riflettere e di osservare tutti i dettagli che lo circondavano: il campo, la sua disposizione, gli armamenti scelti, gli elfi e le loro attitudini in battaglia, la tenda reale, gli arredi, gli ufficiali e infine Anárion, le sue mappe, i suoi appunti, il modo in cui sceglieva e pronunciava le parole discorrendo con lui.

La situazione era abbastanza chiara, se la si giudicava con attenzione: in primo luogo, Galanár giungeva come alleato apprezzato ma non richiesto, e ciò faceva di lui poco più che un supporto ausiliario, necessario ma mal tollerato. Inoltre, nel momento in cui aveva offerto i suoi servigi, aveva tacitamente rinunciato al proprio ruolo di generale. Non era più lui a prendere le decisioni. Poteva osservare, giudicare, suggerire ma, in definitiva, doveva anche obbedire. Il suo potere restava limitato ai propri uomini, e non era escluso che perfino quel comando venisse in qualche modo compromesso. Oltre a essere un Mezzelfo, cosa che tutti fingevano di ignorare, trattandolo più come un principe umano che come ciò che era davvero, era anche il più giovane comandante in quel consesso. Sebbene Anárion dimostrasse appena qualche anno in più del nipote, il principe stimò che dovesse aver vissuto già più di cent'anni, e questo rendeva quasi ridicola l'esperienza in fatto di guerra acquisita da Galanár.

Se tutte quelle considerazioni non fossero state sufficienti a farlo tacere, c'era almeno un altro elemento della discussione capace di ridurlo al silenzio: qualunque discorso di Anárion andava a parare sulla protezione del castello e del suo popolo. Sembrava per lui una preoccupazione imprescindibile, che aveva necessarie ricadute sulla sua tattica.

Il principe di Arthalion aveva sempre combattuto sulla terra di qualcun altro. La difesa, che non fosse quella della propria vita e dei suoi uomini, era sempre stata l'ultimo dei suoi pensieri. Prendere delle decisioni considerando quella variabile gli creava, in effetti, parecchie indecisioni.

Non riuscendo ad approvare per intero il piano di battaglia dello zio, ma non potendo comunque obiettare né tantomeno tirarsi indietro, accettò infine di gestire l'unica manovra che nessuno dei presenti avrebbe eseguito, quella che tutti si aspettavano da lui: aprire la carica con la sua cavalleria.

Anárion posizionò una graziosa figura in legno, un cavaliere su un destriero, davanti alle altre miniature che affollavano la mappa distesa al centro del tavolo. Ritrasse la mano, osservò lo schema, quindi tornò a sedere sul proprio scranno con aria soddisfatta. Galanár represse un sospiro e ricaccio indietro ogni protesta.

"Quando dovremo essere pronti?", fu la sua sola domanda.

Il re lo fissò sorpreso.

"Quando? Appena possibile. La stagione calda volge al termine: appena il ghiaccio avrà avvolto ogni cosa, combattere sarà impossibile per mesi. I Nani hanno avuto fortuna negli ultimi assalti, non si faranno sfuggire l'occasione di infliggerci ulteriori perdite prima dell'inverno. Dobbiamo essere pronti a tutto".

Il principe si limitò ad assentire, poi prese congedo e tornò al castello con Aegis, per disporre lo spostamento dell'esercito. Si era convinto che il suo arrivo e le manovre militari avrebbero spinto i Nani ad anticipare l'attacco, ancor più della fredda stagione. Se lo sentiva nel sangue che la battaglia era vicina e, quella volta, il pensiero lo angosciava, perché non aveva nessun controllo sugli eventi.

Concesse ai propri soldati il tempo di riprendersi dal viaggio, quindi ordinò loro di allestire le tende accanto a quelle dell'esercito elfico. Si trattenne ancora qualche giorno al castello, dove impegnò fabbri e maniscalchi nella revisione e nel perfezionamento di armi e ferri. Appena tutto fu sistemato secondo i suoi comandi, fece trasferire il proprio bagaglio all'accampamento. Avrebbe trascorso le notti lì, con i suoi uomini, pronto a indossare l'armatura e a balzare a cavallo all'arrivo della staffetta che annunciava l'avanzare dell'esercito nemico. Buona parte dei suoi avrebbe cavalcato incontro alla morte, in quello scontro dalle sorti così incerte. Lo sapeva, lo aveva capito dalla semplice disposizione dei reparti sul campo, ma non aveva altro da fare se non guidarli al meglio delle sue capacità e forse seguirne anche la loro sorte.

Decise di passare da Silanna per congedarsi da lei. Aprì la porta ed entrò con noncuranza, come se, a dispetto del sire Anárion, fosse lui il padrone di quel maniero e di ogni sua stanza.

Silanna non aveva ancora superato la sorpresa e l'indisposizione per quel suo ingresso così poco compito, quando lo sguardo le cadde sull'armatura leggera che indossava. Nessuna traccia del principe e del suo buonumore, della tunica, dei pantaloni e degli stivaletti con cui si era presentato quando aveva passato la notte al suo fianco. Era di nuovo il generale inquieto che fremeva in attesa della battaglia e l'elfa pensò che avrebbe fatto bene ad adattarsi presto a quella realtà.

"Dunque ci siamo", disse, mutando l'espressione indispettita in un sorriso. "Ci prepariamo allo scontro".

Lui le rivolse un'occhiata singolare, come se non avesse compreso la sua osservazione.

"L'esercito è già stato mobilitato e tutto è pronto al campo. Ero passato a porgervi il mio saluto, Silanna".

Il sorriso si spense sul viso di lei, soffocato dalla freddezza di Galanár e delle sue parole.

"Mi state lasciando qui?"

Il tono feroce della domanda lo spinse a un atteggiamento guardingo.

"Non vi ho fatto recapitare ordini, mi pare".

"Ma il maestro Aegis e i suoi...".

"Voi non obbedite più al maestro Aegis, né al capitano Kolridge. Voi obbedite al vostro generale".

"Oltre che obbedirgli, ho anche la pessima abitudine di salvargli la vita. Sapete che devo venire con voi".

Galanár distolse lo sguardo e lo puntò ai guanti che stringeva nervoso tra le mani.

"Silanna, non me lo fate ripetere un'altra volta. Vi voglio qui, dentro questo castello, e sono pronto a mettervi in ceppi e a tenervici per tutto il tempo in cui durerà questo dannato scontro, se mi obbligate a farlo".

Poiché non poteva leggergli gli occhi, lei non riusciva a comprendere quale fosse il suo umore effettivo. Sapeva solo che avrebbe usato qualsiasi mezzo per convincerlo a condurla con lui. Pensò che forse, nonostante i proclami, le sue arti femminili avrebbero potuto smussare la sua inflessibilità. Gli andò vicino, gli cercò lo sguardo e le labbra, e fece per sfiorargli il petto con la mano.

Non arrivò nemmeno a percepire il freddo contatto con il metallo, perché Galanár le ghermì il polso e le torse il braccio, costringendola a restare immobile, vicina e distaccata da lui al contempo. L'elfa si lasciò sfuggire un gemito di dolore, ma lui la ignorò e la obbligò al silenzio con uno sguardo di fuoco.

"Sono un uomo diretto e preciso, quindi non perderò tempo a spiegarvi la situazione una seconda volta: dormo nel vostro letto perché io ho deciso così, ho accettato il vostro discutibile ricatto morale perché io ho deciso così, e scenderò in campo senza di voi, che resterete qui senza fiatare, perché io ho deciso così. Spero che le nostre reciproche posizioni vi siano finalmente chiare, signora!"

La lasciò andare. Lei si massaggiò il braccio senza una parola e senza un lamento. Era esasperata, ma tentava di nasconderlo, mentre Galanár sembrava dover riprendere la calma dopo quella sfuriata.

"Adesso vado", concluse, interrompendo quel silenzio imbarazzante.

Si diresse verso la porta, ma indugiò un istante e le lanciò un'ultima occhiata, come se le avesse voluto lasciare il tempo per dire o fare qualcosa. Lei, però, continuò a fissarlo con aria sprezzante.

"Ascoltate almeno il vento prima di attaccare", si limitò a dire con voce di ghiaccio.

Gli diede le spalle senza ritegno e rivolse lo sguardo fuori dalla finestra. Attese immobile finché i suoi passi scivolarono nel silenzio e solo allora si allontanò dal davanzale. Non lo avrebbe guardato salire a cavallo, non lo avrebbe seguito mentre usciva dalla corte, armato e pericoloso, per andare incontro alla battaglia.

Fece qualche passo fino a raggiungere il centro della stanza. Serrò i pugni per controllare il fremito che la scuoteva e strinse le palpebre sperando di sigillare anche il cuore. Era furiosa e adirata con Galanár per la sua ennesima, stupida esibizione di maschia violenza, ma era anche in pensiero per lui e per tutto ciò che stava per accadere, e non riusciva a negarselo.

Quando aprì gli occhi, la stanza era ancora lì. L'arredo, i colori, gli odori erano gli stessi. Nulla si era mosso, nulla era andato in frantumi: la tempesta si era scatenata dentro di lei. Non poteva restare con le mani in mano o le violente emozioni che le squassavano il cuore l'avrebbero fatta esplodere. 

Uscì dalla camera e cominciò a vagare per i corridoi deserti di quella reggia. Non aveva familiarità con quel luogo, ma ne aveva parecchia con le arti magiche. A un Daimonmaster non occorrevano troppi indizi per individuare la fonte di un potere. Le bastò scendere le scale, arrivare nei sottosuoli e seguire la potenza che sentiva vibrare, sempre più forte, sotto la pelle.

Attraversò passaggi bui senza incontrare nemmeno una guardia. Il castello sembrava essere stato svuotato. Il silenzio ininterrotto cominciò ad animarsi di un leggero brusio cadenzato. Quel vociare sommesso la guidò fino a una grande sala rotonda, cui si accedeva attraverso sei grandi archi. Il soffitto sferico, sorretto da alte volte, era rischiarato da una luce innaturale e Silanna poté vedere con i suoi occhi il potere arcano che sosteneva l'immenso scudo magico di Formenos. Dodici incantatori elfici stavano in cerchio, evocandolo. Sul pavimento splendevano tre figure geometriche concentriche, a formare un elaborato simbolo che incastonava rune splendenti. La fitta rete magica pulsava di luce purissima. La magia aleggiava su di loro, sprigionandosi verso l'esterno in una forma stabile e perfetta.

L'incantatrice avanzò con passo cauto e rispettoso. Un elfo comparve dal fondo della sala e subito le fu di fronte. Era alto, bianco e aveva occhi di ghiaccio. La squadrò con disprezzo, irritato.

"Allontanatevi, signora. Non posso permettere a un Elfo Scuro di assistere ai nostri misteri".

Lei gli rivolse uno sguardo altrettanto gelido.

"Posso rimpiazzare due o perfino tre dei vostri incantatori, Maestro. E darvi l'opportunità di farli riposare a lungo. Il sire Anárion sta per scendere in campo contro i Nani, quindi datemi il posto che mi spetta e vi aiuterò a tenere in piedi le difese di questo castello molto meglio di come potreste fare da soli".

L'elfo la fissò severo per qualche istante. La stava soppesando, lo sapeva, e stava anche valutando se fosse più rischioso farla restare o mandarla via. Lei, allora, evocò l'Arcano dell'Aria. 

Non lo aizzò né lo utilizzò, ma lo alimentò quel tanto che bastava perché il maestro potesse percepirne la presenza in mezzo a loro. Questi fece un brusco cenno con il capo, richiamò uno degli incantatori e fece posto a Silanna.

L'elfa si sistemò composta, poggiò i piedi su una delle rune splendenti tracciate sulla pietra e allargò le braccia. Le sue palme aperte sfioravano appena quelle dei due maghi al suo fianco. Chiuse gli occhi e allineò il proprio potere con la forza che scorreva impetuosa nel cerchio magico. Lo accordò con il pulsare incessante dell'evocazione e si lasciò travolgere dal flusso, come da un'onda.

Quando lo spirito di Vilya attraversò il suo corpo, Silanna entrò mentalmente nello spazio sacro dei Daimon.

NOTA DELL'AUTORE

Nec spe, nec metu (né con speranza, né con timore) è una di quelle espressioni latine dal significato incerto, cui sono stati assegnati diversi plausibili significati, a seconda del contesto.

Probabilmente era un invito ad affrontare gli eventi futuri o le avversità con un atteggiamento stoico (ovvero senza temere del peggio, ma senza aspettarsi nulla). Nel linguaggio corrente è usato spesso nei discorsi ufficiali come punto di partenza per affrontare trattive difficili.

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