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Capitolo 9

Dopo che Vanni e Matteo ebbero lasciato la stanza, o meglio, il freddo spogliatoio riservato ai dipendenti del locale dove lavoravo, vi eravamo rimasti solo Giada e io, che stavo cercando di riprendermi dal colpo subito quella sera.

Non avrei mai pensato di fare qualcosa del genere.
Certo, ero sempre stato pronto ad aiutare gli altri in caso di bisogno, però cercavo di evitare situazioni che mi avrebbero causato troppo dolore fisico.
Girai la testa verso lo specchio e guardai nuovamente il mio riflesso. Non ero conciato poi così male, solo qualche graffietto e taglietto che si sarebbero rimarginati grazie agli 'impacchi' che avrei fatto, una volta tornato a casa, di disinfettante o di acqua ossigenata.
Poi c'era l'occhio destro che era completamente nero e quella medesima parte della faccia era abbastanza gonfia, lì ci sarebbe voluto un pò più di tempo e avrei dovuto metterci il ghiaccio almeno due o tre volte al giorno.
E per finire c'era il mio naso.
Come aveva detto Matteo, e che poi avevo confermato anche io, non era rotto, solo un pò ammaccato e che la forte fuoriuscita di sangue era dovuta al fatto che possedevo un setto nasale piuttosto delicato.
Per il resto stavo bene. Sorrisi.

Nel riflesso dello specchio mi accorsi che, oltre alla mia figura, c'era un piccolo accenno di quella di Giada.
Mi voltai per scorgere meglio i particolari e la vidi. Era ferma, immobile, seduta su una sedia di plastica, non molto distante da dove mi trovavo io.
Assomigliava ad una scultura di marmo, ben rifinita nei minimi dettagli.
I lineamenti del viso, l'espressione e la posizione del corpo, facevano trasparire tutte le emozioni che stava provando in quell'istante.
Un po' come quelle sculture che mi era capitato di vedere durante una visita guidata in qualche museo o galleria d'arte.
Per me visitare quei luoghi era un qualcosa di indescrivibile.
Vedere dal vivo tutti quei dipinti e sculture che avevano riempito i miei libri di storia o di storia dell'arte quando andavo ancora al liceo.
Un'emozione unica.
I diversi stili, i colori, le pennellate, i metodi utilizzati per scolpire e tanto altro.
Per me era come vivere un sogno.
Un bellissimo sogno da cui non volevo essere svegliato.
Anche se tutto questo non centrava nulla con quello che stavo faticosamente cercando di diventare.
L'arte era il mio rifugio, il mio svago, e, quando ne avevo la possibilità, andavo a qualche mostra.
Me la cavavo con la matita. Certo, non ero Giotto o Picasso, ma questo non mi importava.
Ciò che contava per me erano le emozioni che provavo quando vedevo un'opera di quel genere.
Nient'altro.

Ma lasciai perdere subito quei pensieri, ricordandomi la situazione attuale in cui mi trovavo.
Innanzitutto non ero in una galleria d'arte e nè tantomeno in un museo, ma in una stanza fredda e un pò umida di un pub, in centro, e che, quella che avevo di fronte, non era una scultura di marmo, ma una ragazza in carne e ossa.

Una ragazza che, a quanto pare, non aveva nessuna intenzione di guardarmi e di iniziare a intraprendere una conversazione, poichè era rimasta per tutto il tempo in silenzio e con lo sguardo basso. Sicuramente aveva ancora gli occhi lucidi e stava continuando a torturare le sue labbra mordicchiandole.

Anche se le pareti erano sottili e potevano sentirsi chiaramente la musica, la gente che cantava a squarciagola, o le bottiglie e i bicchieri che venivano presi e rimessi a posto continuamente sulle mensole che si trovavano dall'altra parte del muro, proprio dietro di me, in quel momento mi sentivo ovattato.
Tutti quei suoni e rumori sembravano essere lontani anni luce da me.
Come se quella stanza dalle pareti sottili fosse insonorizzata.

In quel momento, c'eravamo io e lei. Aspettavo con ansia che dicesse qualcosa, che mi chiedesse anche una cosa innocua, semplice, stupida, insomma per iniziare a fare conversazione ... ma nulla. Silenzio.

Non ce la facevo più, ero stanco, la testa mi doleva, dovevo assolutamente riposarmi e stare a letto per un giorno intero.
Ero pronto a lasciar perdere tutto, ad andarmene e lasciarla lì, in fondo era una sconosciuta.
Però, ripensandoci, avevo fatto tutta quella fatica per parlarle, per spiegarle ciò che provavo e come stavano davvero le cose e non mi ero fatto picchiare per niente.

In fondo ero testardo e se volevo qualcosa, cercavo in tutti i modi di ottenerla.

E in quel momento desideravo solo parlare con lei, stare in sua compagnia, perchè, anche se la conoscevo solo da due giorni, starle accanto aveva suscitato emozioni che non credevo di poter riprovare.

Era questo che avrei voluto dirle, ma tra i diversi tratti del mio carattere, c'era la timidezza e l'insicurezza di cui avevo sempre goduto, sin dalla tenera età.

Una 'bella' situazione, ma ero deciso. Non me ne sarei andato da lì, finchè non ci fossimo chiariti e se le fosse sfiorato, anche solo lontamente, il pensiero di alzarsi, prendere le sue cose e andarsene, glielo avrei impedito con le poche forze che mi erano rimaste in corpo.
Ma in quel momento non sembrava aver preso alcuna decisione, poichè era ancora ferma lì sulla sedia.

Passarono altri minuti e nella stanza regnava incotrastato, purtroppo, il silenzio.

Mi stavo innervosendo.
Perché non parlava?
Eppure si era dimostrata una ragazza piuttosto schietta, una di quelle che dicono sempre ciò che pensano e che non si risparmiano in commenti pungenti, che creano imbarazzo.
Forse alla maggior parte delle persone quel tipo di carattere avrebbe potuto dare fastidio, ma io lo trovavo divertente e adorabile.
Mi piacevano le persone dirette, quelle che ti dicono come stanno veramente le cose, senza mentirti mai. Ma mai dire mai.
In cuor mio, sapevo che persone del genere non esistevano e che se esistevano erano pochissime.
Giada, forse, era tra queste rarità.
Però al suo carattere schietto, socievole e loquace, completamente opposto al mio, si era aggiunto anche, per quello che avevo potuto osservare, qualcosa di più simile al mio di carattere.
Era insicura.
Proprio come me.
Forse era questo il motivo per cui non parlava.

In quel momento mi venne in mente un episodio della mia infanzia, non sapevo il perchè, ma evidentemente i pensieri che avevo per la testa mi portarono a ricordarmi di Poldo.

Poldo era stato il mio primo cane. Avevo, forse, 8 o 9 anni quando lo trovai per strada.
Ero ai giardini e stavo giocando per conto mio, quando iniziò a piovere. Allora presi le mie cose e iniziai a correre. Mi ero anche accorto che avevo dimenticato, come al mio solito, l'ombrello a casa.
Così cercai di non bagnarmi molto, correndo sotto i balconi, che utilizzavo per proteggermi dall'acqua, come mi aveva detto il nonno, più di una volta, di fare se mi fossi mai trovato in situazioni del genere, anche se ero già pronto per essere rimproverato dalla nonna, per la mia continua disattenzione.

Stavo ancora correndo, ero quasi arrivato, quando all'improvviso mi fermai.

In un vicolo sentii qualcuno o qualcosa lamentarsi.
Sapevo che dovevo tornare a casa, prima che potessi bagnarmi così tanto da prendere una broncopolmonite, ma la curiosità era troppa e decisi di andare a verificare.

Entrai nel vicolo, muovendomi piano piano, in modo che potessi sentire meglio da dove proveniva quel suono. Mi avvicinai al cassonetto dei rifiuti e vidi degli scatoloni accatastati uno sopra l'altro.
Il lamento proveniva da lì.
Avevo paura, ma la curiosità diede al mio corpo la spinta di continuare. Scostai il primo scatolo e trovai all'interno del secondo un cagnolino. Era un meticcio con il manto bianco munito di chiazze marroni sparse su tutto il corpicino, orecchie a penzoloni e occhi grandi. Provai ad avvicinare la mia mano per accarezzarlo, ma lui iniziò a ringhiare. Ebbi paura e lui approfittò di quel momento per uscire velocemente dallo scatolo e allontanarsi.

Era terrorizzato.
Pensai di attirarlo con il cibo, così presi la brioche che avevo nello zaino, ne staccai un pezzetto e glielo sistemai accanto allo scatolo dove si era rifugiato e mi allontanai.
Lui si avvicinò, l'annusò e se lo mangiò.
Mi guardò come se ne volesse ancora, ma nello stesso tempo aveva paura.
Continuava a piovere, mi stavo bagnando e sarei tornato a casa con la febbre, forse, ma non mi importava. Volevo aiutare il cuccioletto.

Così staccai altri due pezzetti della mia brioche e li sistemai, questa volta, più vicini a me per poterlo attirare. Non sapevo cosa stavo facendo, volevo solo essere utile a qualcuno.
Il cagnolino puntò il suo naso verso la mia direzione e si avvicinò ancora di più.
Mangiò i pezzetti che avevo sistemato a terra e poi rivolse il suo sguardo verso di me.
Ne voleva ancora, aveva fame.
Gli porsi il pezzetto che mi era rimasto nella mano e lui continuò ad avvicinarsi, sempre di più.
Mangiò direttamente dalla mia mano e dopo si mise seduto.
Provai ad accarezzarlo e lui non si mosse, anzi, iniziò a scodinzolare contento.
Allora presi una decisione, la nonna non avrebbe avuto pietà di me e ne avrebbe dette di tutti i colori, il nonno, forse, sarebbe stato dalla mia parte, ma volevo continuare a prendermi cura di quel cucciolo.
Lo presi in braccio e me lo portai a casa.

Nonna Elisa, quando mi vide, non sapeva se essere felice o meno, fatto sta che ero completamente bagnato fradicio, sporco, puzzavo e in più non ero solo, ma avevo un cagnolino che abbaiava felice.
Come avevo previsto, il nonno era d'accordo sul tenere Poldo, mentre la nonna no.
Ma dopo tante preghiere e promesse, la nonna dovette cedere.
Poldo sarebbe rimasto con noi.

Però non avevo calcolato un piccolo inconveniente.
Un giorno il nonno venne a casa accompagnato da due persone, erano una bambina e la sua mamma.
In quel momento io stavo giocando in camera mia con Poldo, quando, all'improvviso, venni chiamato.
La nonna precisò che dovevo portare anche il cane insieme a me.
Io e Poldo entrammo nel salotto e non appena il mio cagnolino vide la bambina, le corse incontro scondinzolando e abbaiando felice. Non capivo cosa stesse accadendo, sapevo solo che quella bambina stava giocando con il mio cane.
Ero geloso, così la prima cosa che feci fu di riprendermelo e andare in camera mia.
Nonno Antonio mi fermò e mi disse di lasciare Poldo in salotto con la nonna e con quelle estranee e che io e lui dovevamo fare una chiacchierata tra uomini.
In parole povere, Poldo aveva già un padrone, ma lo avevano smarrito ed era un mesetto circa che lo stavano cercando disperatamente.
Il nonno continuò il suo discorso, sul fatto che era giusto che Poldo ritornasse dalla sua famiglia d'origine, che io ero stato bravissimo a prendermi cura di lui e che se volevo, potevo scegliere un altro cucciolo dal canile.
Lo lasciai finire e gli risposi con un secco 'no'. Avevo gli occhi lucidi.
Gli dissi, urlando, che non volevo che Poldo soffrisse di nuovo, solo perchè quelle persone erano così sbadate o stupide da non capire i bisogni del cane e che non volevo un altro cucciolo, ma solo lui.

Il nonno mi rivolse uno sguardo dolce, carico di compassione e comprensione.
Mi abbracciò e mi disse sottovoce all'orecchio, questo:
«Marco, mettiti nei panni di quella bambina. Cosa proveresti tu, se la cosa o la persona a cui tieni di più al mondo sparisse dall'oggi al domani? Non ti metteresti a cercarla come un pazzo? Non faresti di tutto per riaverla? Prima di giudicare qualcuno, mettiti nei suoi panni, piccolino. Cerca di capire il suo atteggiamento, la situazione o altro e alla fine saprai, perchè quella persona abbia reagito così e cosa prova.
So che è difficile da comprendere, soprattutto alla tua età, ma quella bambina ha sofferto tanto per la lontananza del suo cagnolino e ai suoi occhi sarai un eroe, perchè le hai salvato la cosa a cui lei tiene di più al mondo.»
Tirai su con il naso, cercai di trattenere le lacrime.
Poi, il nonno mi prese per mano e ci recammo nuovamente in salotto.

Non avevo capito molto di quello che mi aveva detto, però provai a pensare cosa sarebbe accaduto se fossi stato io a perdere Poldo.
Non ci volli pensare, sapevo che avrei sofferto, così guardai prima il nonno, poi gli altri e dissi imbarazzato e con lo sguardo rivolto verso il basso, che avevo deciso che Poldo poteva ritornare dalla sua padroncina.
Detto questo, alzai lo sguardo e vidi il nonno sorridermi.

Fu quello il momento in cui iniziai a crescere per davvero e a diventare più responsabile delle mie azioni.

Ripensando a ciò decisi di applicare lo stesso metodo con Giada.
Volevo provare a mettermi nei suoi panni, magari avrei capito il perchè lei non volesse parlare con me.

Iniziai ad analizzare la situazione e a chiedermi cosa avrei voluto che gli altri facessero, se mi avessero mai visto in quello stato, dopo tutto quello che mi era appena successo.

Così mi feci questa domanda. "Come ci si sente a sapere di essere stati traditi dall'unica persona che sapevi di amare e che ricambiava per te lo stesso sentimento?"

Ebbi una risposta fulminea.
Io sapevo come ci si sentiva, perchè nella realtà mi era già capitato di provare una cosa del genere.
Ed era questo uno dei motivi per cui ero conciato in quel modo.

Volevo spiegarle che non era la sola a provare quelle sensazioni e che anche io le conoscevo e che l'avrei potuta capire.

Sapevo quello che voleva.
Giada voleva essere lasciata in pace, voleva stare da sola, voleva del tempo per riflettere e riprendersi.
Ma contemporaneamente desiderava essere considerata, aiutata.
Ecco perchè la sera prima era con un gruppo di amiche a ubriacarsi in un pub per dimenticare una storia importante.
Lo avevo fatto anche io con i miei amici.

Giada era una ragazza molto socievole, loquace, schietta e con una buona parlantina, però quella era una parte del suo carattere che le permetteva di proteggersi dagli altri, senza far del male e sapeva sfruttarla benissimo.
Tuttavia, c'era un'altro lato del suo carattere con cui era difficile avere a che fare.
Giada era anche una ragazza insicura, buona, gentile, testarda e soprattutto ... orgogliosa.

Era l'orgoglio che non la faceva parlare. Sapeva che ero stato preso a pugni per lei, per difenderla, ma le costava ammetterlo.
Ero sicuro che fosse così.

Presi la mia decisione.
Come quella volta con Poldo, abbassai lo sguardo imbarazzato, guardai cosa avevo tra le mani, sorrisi e iniziai a parlare.

«La prossima volta che devo difendere una bella ragazza, devo ricordarmi di lasciare qualsiasi cosa danneggi la mia immagine di cavaliere errante.», dissi serio, rivolgendomi verso di lei.
Giada alzò lo sguardo, confusa.

I suoi occhi erano ancora lucidi e le labbra sempre più arrossate.
Avevo attirato la sua attenzione.
Le indicai con gli occhi cosa avevo tra le mani e il suo sguardo si spostò. Sorrise. Finalmente!

«Non è possibile, sono proprio sfortunato. Uno prova a far colpo su una ragazza, difendendola da un brutto ceffo e che fa? Si dimentica di togliersi uno stupido cappello di Babbo Natale?» Adesso rideva.
Il suono della sua risata era così confortante per me, perchè questo significava che ero ancora in tempo, mi avrebbe ascoltato.

«Ti ci metti anche tu adesso? Non sono stato umiliato abbastanza per stasera?», le chiesi con tono ironico.

«Sì, hai ragione, Marco.
Adesso la smetto. Ma tu dovevi vederti! Eri troppo assurdo con quel coso in testa! Per carità, sei stato bravissimo, però eri poco credibile conciato in quel modo.», disse asciugandosi alcune lacrime che le erano sfuggite.
Stava cercando di controllarsi, secondo me non sapeva se ridere o piangere.

«Grazie mille! Dovrò chiedere ad Emilio di pagarmi i danni.
Adesso, secondo te, chi 'riparerà' il mio viso?», dissi guardandomi allo specchio.
Sentii la sedia strisciare per terra, poi le assi della panca flettere un pò e, nell'istante in cui stavo per controllare cosa stava accadendo, mi ritrovai la stecca di ghiaccio di prima, che era fredda al punto giusto, sopra la parte gonfia del mio viso.
Era una sensazione stupenda, mi sentivo meglio.
E poi c'era lei che mi guardava divertita, anche se nei suoi occhi c'era un misto di preoccupazione e tristezza.

«Per 'riparare' il tuo simpatico viso, ci vuole una stecca di ghiaccio, un pò di riposo e soprattutto evitare altri guai. Piuttosto, come ti senti?», mi chiese.

«Uffa! Sono io il medico qui.
O meglio, quello che sta provando a diventarlo. E ho già detto che sto bene, mi gira solo un pò la testa e avverto un pò di dolore qui, qui e ... qui.», dissi indicando alcune parti del mio viso e poi, per finire, il petto, all'altezza del cuore.

Lei guardò l'ultimo punto che mi indicai, mi rivolse uno sguardo confuso e poi capì.
La sua espressione divenne dura e avvertii la rigidità del suo corpo.
Era tesa come un corda di violino.
Ero deciso a raccontarle tutto.

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