Capitolo 6
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Ciao a tutti.
Grazie a tutti per le visualizzazioni. Spero che la storia vi stia piacendo sul serio.
Prima di iniziare la lettura, volevo consigliarvi nuovamente di leggere la storia di SweetCreation94, "Dolce successo". È fantastica!
Per il resto nient'altro e ...
Buona lettura!
«Allora come mai, sta sera, abbiamo queste lucette sul cappello?», mi chiese.
La guardai. Era ancora più carina di come me la ricordassi. Aveva i capelli castani legati in uno chignon, anche se qualche ciocca si era liberata. Il ciuffo verso destra, insieme alle ciocche libere a sinistra le incorniciavano il dolce viso. Aveva un filo di matita e un rossetto rosso che evidenziava le sue labbra sottili. Indossava una maglietta grigia chiara lunga e con una scollatura che le scopriva le spalle e un paio di jeans scuri, con un paio di stivaletti neri. E gli occhi?! Mi ero sbagliato. Non erano scuri, ma erano di un verde vivo con al centro, verso la pupilla, delle pagliuzze dorate, che non passavano, di certo, inosservato.
«Ehi! Marco, giusto? Tutto bene?», mi chiese sventolandomi la sua mano davanti agli occhi.
«Eh?! Ah sì, si tutto bene. Eh si! Mi chiamo Marco. Che memoria.», dissi ridendo e piuttosto sorpreso. Si ricordava il mio nome. Cercai di capovolgere la situazione a mio favore.
Mi ero distratto ed ero rimasto lì a fissarla senza rispondere. Che incapace!
«Memoria?! Non scherzare. Mia madre mi rimprovera sempre, perché non ricordo mai nulla. Partendo dalle date, finendo a ciò che ho mangiato sta mattina. A proposito, che ho mangiato oggi a pranzo?»
«Io di certo non posso saperlo, Giada. Mai pensato a una cura di fosforo?», le dissi abbastanza confuso. Era carina e spiritosa, ma anche un pò strana. La cosa non mi dispiaceva affatto.
Sentendo ciò, lei spalancò gli occhi. Non capii subito il perché, ma quando ripensai a quello che le avevo appena detto, avrei voluto prendermi a schiaffi.
«Scusami, non volevo offenderti. Non era mia intenzione, stavo solamente scherzando. Davvero.», le dissi cercando di non rovinare il momento. Che pessima figura!
Abbassai lo sguardo imbarazzato, ma lo rialzai subito, non appena iniziai a sentire qualcuno ridere di gusto.
Era lei. La guardai stranito.
"Perché ride? Dovrebbe essere arrabbiata. Le ho dato della smemorata e ride? Che cosa abbastanza bizzarra.", pensai, vedendo il comportamento della ragazza che avevo davanti.
«Tu non devi assolutamente giustificarti. Anzi, hai perfettamente ragione. Piuttosto scusami tu, sono pessima. E ho fatto una brutta figura. Perdonami.», disse, abbassando lo sguardo sul bancone. Aveva smesso di ridere e adesso era piuttosto imbarazzata. Le sue guance erano diventate rosse. Era ancora più carina.
«Ma no, figurati. Fidati, tra me e te, sono io il campione in figuracce.», le dissi facendole l'occhiolino, cercando di metterla a suo agio.
Lei sorrise. Aveva un bel sorriso. Troppo bello. E io stavo degenerando.
«Comunque, queste? Sono la mia punizione per non aver indossato 'correttamente' la mia uniforme da lavoro ieri. O mi licenziavano o le mettevo. E preferisco sembrare un lampadario scadente, che rimanere senza lavoro.», dissi indicando ciò che avevo in testa.
«Mi sembra giusto. Comunque ... anche tu hai una memoria niente male. Ti sei ricordato il mio nome. Questo vuol dire che ti sono risultata simpatica ieri.»
«Può essere ... però devi sapere che dispongo di una memoria fotografica, ciò che mi dici ricordo.», continuai.
Rise, ma, improvvisamente, la sua espressione cambiò.
Iniziò a guardarsi intorno, tirò fuori dalla sua borsa il cellulare per controllarlo, per poi sospirare e sedersi sullo sgabello, davanti al bancone. Si mise a braccia conserte e incominiciò a fissarmi pensierosa.
E nella mia mente avevo solo questo:
"Marco, rifletti bene. Non fare pensieri strani, che poi quello che sta male sei tu. Questa ragazza è una sconosciuta, non puoi fidarti."
La mia vocina interiore ripeteva ininterrottamente tali parole e lei continuava a fissarmi. La cosa mi metteva piuttosto a disagio.
Così, per evitare il suo sguardo le chiesi se voleva qualcosa da bere e lei mi disse di si.
La richiesta fu piuttosto insolita.
«Succo all'ananas, con ghiaccio e cannuccia. Grazie.», disse.
«Ok ... », feci di rimando.
E tornò a fissarmi pensierosa.
«Ecco a te il succo. Desideri altro?», le chiesi nuovamente.
Lei sembrò non sentirmi. La sua attenzione era passata da me al suo cellulare. Non sapevo cosa stesse facendo in particolare, sapevo solamente che appena alzava lo sguardo, si girava e controllava il locale, come se cercasse qualcuno.
Così, visto che mi ignorava, continuai a lavorare.
«Marco ci porti due birre?», sentii due voci, troppo familiari, fare un'ordinazione.
«Ma a voi due non avevo detto che bere a lavoro è vietato? Chi carica poi le attrezzature? Io? Da solo?», dissi. Erano Matteo e Vanni. Stavano facendo una pausa ed era loro abitudine venire a disturbarmi e a chiedere da bere.
Il problema? Semplice. Tre o quattro volte era capitato che, dopo esserci andati giù pesante con birra e altro, ritornavano a casa ubriachi o fatti. E chi doveva coprirli con Emilio e con il proprietario del nostro appartamento, era il sottoscritto. Per non parlare dei pericoli corsi, quando uno di quei due era alla guida. Quindi, per evitare di essere cacciati o denunciati, mi presi anche la responsabilità di controllare quanto alcool circolasse nel loro corpo o se avessero fumato.
E la cosa funzionava. Erano mesi che non avevo più problemi di questo genere, però ogni volta cercavano di prendersi gioco di me.
«Avanti, Marco! Solo una birra per ciascuno. Che male può farci?», mi pregò Vanni.
«Ho detto no, a meno che non vi dia quella analcolica.»
«E che siamo bambini?! Dai, Marco una sola per ciascuno, come ti ha detto Vanni. Cosa può succedere?», continuò Matteo.
«O analcolica, o niente.», ero deciso e niente e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea.
«Uffa! E va bene. Ma certo che sei una palla. Noi ci stiamo solo divertendo un pò. Dovresti farlo anche tu. Dovresti rilassarti. Sei sempre così rigido. In fin dei conti hai solo ventiquattro anni, che problema hai? La tua vita dovrebbe essere di feste e divertimento. Secondo me, tu ti preoccupi troppo. Sei esagerato.», concluse Vanni.
Non risposi. Lo ignorai e presi le due bottiglie di birra analcolica, poggiandole sul bancone. Matteo fissò Vanni in malo modo e dopo aver preso quello che li avevo messo davanti, si allontanarono dal bancone per raggiungere il palco. Avrebbero dovuto esibirsi con una nuova canzone.
Prima di arrivare al palco, vidi Matteo tirare uno schiaffetto a Vanni, sulla nuca. Doveva avergli detto qualcosa, forse riguardo a quello che quest'ultimo mi aveva appena detto.
Matteo era iperprotettivo nei miei confronti.
Lo era sempre stato, sin dal primo giorno di università, quando alcuni ragazzi si presero gioco di me, indicandomi l'aula sbagliata e facendomi arrivare in ritardo alla prima lezione.
Risultato? Ero stato marchiato come il solito romano cafone, ritardatario cronico e scansafatiche, senza che sapessero il mio nome, e, senza che ci conoscessimo, lui mi aiutò prendendo le mie difese e si sedette accanto a me. Poi ci fu lo spiacevole episodio con una ragazza del corso, che aveva attirato la mia attenzione. Io, solito imbranato, non ero riuscito a farmi avanti e quando decisi di dirle qualcosa, inciampai e le versai addosso del caffè bollente.
Non mi rivolse più la parola.
Ma, un giorno a mensa, la ragazza si avvicinò scusandosi per la reazione esagerata e che il mio amico le aveva spiegato come stavano realmente le cose.
Da quel momento, non mi separai più da lui. Una volta, mi confessò che stava solamente provando a frequentare le lezioni e che non era sicuro che sarebbe rimasto a studiare a Roma, così cercai di convincerlo a rimanere e insieme cercammo un appartamento. Non volevo perderlo. Sentivo che la nostra amicizia era diversa dalle altre, sentivo che sarebbe durata.
Poi arrivò Vanni, con le sue idee strampalate, la sua libertà, le feste e il divertimento. Insieme formavamo un trio abbastanza strano.
Unito, ma strano.
Non ero mai stato uno che si fidava facilmente della gente o che fosse socievole. A scuola avevo sempre avuto problemi ad integrarmi e i miei nonni venivano richiamati spesso per questo. Così mia nonna cercava di insegnarmi come fare amicizia con gli altri, ma io preferivo stare solo a farmi i fatti miei. Inoltre mi diceva sempre che ero uguale a mio padre su quel punto di vista, freddo, schivo e diffidente. Però con Matteo e Vanni la cosa era diversa. Avevamo poche cose in comune, ma sapevo che di loro mi potevo fidare. Anche se non ero sicuro che avessero capito e accettato fino in fondo il vero me.
«Ve li porto subito.», una volta presa l'ordinazione da una coppia di ragazzi, mi diressi verso la mensola dove erano riposte le bottiglie, quando sentii alle mie spalle la voce della ragazza con cui stavo parlando prima. Giada.
«Che vuol dire che non vieni? Non inventare scuse, come tuo solito. Sei uno stronzo, ecco cosa sei! Prima mi prometti amore eterno, poi scopro che mi hai tradito più di una volta con la ragazza del bar sotto la casa dove noi due avevamo deciso di vivere insieme. Cerco spiegazioni da te, ma tu scompari. Dopo, all'improvviso, mi richiami dicendomi che vuoi vedermi perché vuoi parlare. Ci diamo appuntamento e che fai?! Mi dici che non puoi, perché quella non vuole che tu abbia rapporti con le tue ex! Mi prendi per il culo!? Guarda che se ti prendo, ammazzo sia te che lei. Bastardo! Sparisci una volta per tutte!», concluse sbattendo il telefono sul bancone.
In quel momento non osavo avvicinarmi, chissà come poteva reagire.
La sera precedente, quando le avevo parlato la prima volta, mi aveva raccontato che era lì con delle amiche per dimenticare il suo ex, ma non credevo che la situazione fosse così pesante, però, in quel momento, mi fu tutto più chiaro.
Sapevo perché era lì, perché era vestita in maniera sobria e provocante al tempo stesso, perché non era truccata in maniera pesante e perché non aveva ordinato qualcosa di forte come la sera precedente.
Voleva solo riconquistare il suo ragazzo che l'aveva tradita.
Doveva esserne davvero innamorata ed io stavo lì fermo a guardarla, mentre lei girava con la cannuccia il succo che aveva ordinato e di cui non aveva bevuto neanche una goccia. Con lo sguardo assente fissava il bicchiere, aveva gli occhi lucidi. Non sapevo se da un momento all'altro avrebbe iniziato a piangere o a urlare.
Mi sentivo impotente, non sapevo cosa fare. Mi dispiaceva vederla così, avrei voluto aiutarla, non sapevo come, ma avrei voluto farlo, capivo bene come si sentiva... Era capitato anche a me.
«Ecco a voi, ragazzi.», versai i cocktail ai ragazzi dell'ordinazione e il mio sguardo tornò su di lei.
Era nella stessa posizione, dove l'avevo lasciata. Unica differenza? Il ghiaccio nel bicchiere si era ormai sciolto, così mi feci coraggio e andai ad affrontarla.
«Non credo che questo possa aiutarti», le dissi spostando il bicchiere. Con quel gesto attirai la sua attenzione, infatti il suo sguardo seguì il movimento del bicchiere che si allontanava pian piano da lei, poi i nostri occhi si incrociarono. Una lacrima scese lungo la sua guancia, ma non arrivò fino al mento, perché lei interruppe il suo percorso asciugandola con il dorso della mano.
«Ma, che fai?», mi chiese sorpresa e tirando su con il naso.
«Nulla, ti sto togliendo qualcosa che non ti serve.»
«Ma, io te l'ho chiesto! L'ho ordinato.»
«E allora?! In questo momento non mi sembra che ti serva un succo d'ananas per farti stare meglio. Quello che ti ci vuole adesso è una birra fresca. La vuoi?», le chiesi sorridendole. Mi guardò confusa, poi capì a cosa mi stessi riferendo con quelle parole.
«Sì, la voglio.», mi rispose, abbozzando un sorriso.
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