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Capitolo 10

Dopo aver visto l'ultimo punto che le indicai, Giada alzò i suoi occhi verso di me che per un istante si incrociarono.
Poi li abbassò nuovamente e allontanò la stecca, che aveva in mano.

«Anche a te fa male quel punto?», mi chiese fredda, poggiando il ghiaccio affianco a sè.

La fissai.
Aveva lo sguardo perso nel vuoto, il suono della sua voce era diventato cupo e freddo, sembrava come se si fosse improvvisamente spenta.

Non mi piaceva vederla così, perciò volevo raccontarle la mia esperienza, cosa di cui avrei potuto, volentieri, fare a meno.
Non adoravo particolarmente ricordare momenti che avevo faticato dimenticare per evitare di continuare a soffrire, però, nonostante questo, sentivo il bisogno irrefrenabile di dirglielo.
Volevo condividere con lei qualcosa di profondo, anche se doloroso.
Volevo solo starle accanto, tutto qui.

«Si, ma ha smesso di far male solo qualche tempo fa.», sospirai e rivolsi gli occhi al soffitto.

Una delle quattro lampade al neon stava lampeggiando, segnale che da un momento all'altro ci avrebbe abbandonati.
Bisognava avvertire Emilio che doveva essere cambiata.
Anche se mi infastidiva quell'accendi e spegni, preferivo fissare quella lampada, che rivolgere il mio sguardo su Giada.

Non immaginavo quale potesse essere la sua reazione e, poi, mi sentivo in imbarazzo, così continuai a fissare il muro sopra di me e quella maledetta luce.

«Si chiamava Stefania.
La conobbi, un giorno, in facoltà. Stavo camminando per i corridoi, dirigendomi verso la mensa, con in mano una pila di libri e appunti e con la testa fra le nuvole.
Non prestando molta attenzione a dove mettevo i piedi o se potessi urtare qualcuno, tutto a un tratto mi ritrovai steso per terra con le gambe all'aria, i pesanti volumi addosso e i fogli degli appunti che svolazzavano intorno a me.

Mentre mi trovavo sdraiato sul pavimento, udii una voce femminile, non molto distante lamentarsi e io, tutto dolorante, cercai di rimettermi in piedi, pronto per raccogliere le mie cose, prima che potessero rovinarsi.
Sono sempre stato un tipo preciso, forse anche troppo.

Ma, in quel momento, non riuscii a rialzarmi, non subito, almeno. Tuttavia, dopo qualche breve istante, tempo di recuperare fiato e idee, mi misi seduto, per poi cercare di realizzare cosa fosse accaduto e chi fosse la fonte di quei lamenti e ... la vidi.», abbassai lo sguardo, sta volta verso ciò che avevo di fronte.

Non riuscivo a stare fermo.
Muovevo le gambe, giravo i pollici e spostavo gli occhi in continuazione.
Un attimo prestavo attenzione alla pila di sedie bianche di plastica, un attimo dopo alla panca simile a quella dove eravamo seduti e l'attimo dopo ancora agli appendiabiti.

Cercavo di resistere a non guardarla. Da una parte avevo paura, dall'altra ero curioso di quale espressione avesse assunto in quel momento.
Così decisi di riprendere il discorso, cercando di tranquillizzarmi.

«Sicuramente starai pensando, "Eccolo qui! Un bell'inizio da favola, come quelli che si trovano sempre nei primi capitoli dei romanzi rosa, dove i protagonisti hanno un incontro non molto amichevole e che dopo molti ostacoli, riescono, alla fine, a mettersi insieme. L'amore trionfa su tutto."

Ma, ti assicuro che questa storia dall'inizio tipico dei romanzi rosa, è decisamente diversa da quelle che probabilmente avrai letto, o forse sono io che sto insinuando cose che non esistono.

Un mio piccolo difetto?
Traggo sempre conclusioni troppo affrettate. E anche su di lei avevo tratto le mie conclusioni.
Però, sarebbe meglio procedere per gradi. Non vorrei rischiare di rovinarti il finale.», le dissi facendo un sorriso accennato e abbassando lo sguardo.

«Nel momento in cui mi resi conto della persona che avevo di fronte, incrociai i suoi occhi. E credimi se ti dico che mi bastò quell'attimo per innamorarmi di lei.

Sembra assurdo, ma era stato proprio così. Rapido, veloce e indolore.
Ci credi ai colpi di fulmine?
Io non ci credevo, ma dopo che la incontrai, dovetti ricredermi.

Immagina, lei arrabbiata e io imbambolato a fissarla, senza capire ciò che mi stava urlando.
Poi, senza darmi il tempo di reagire, raccolse le sue cose e andò via.

Io? Rimasi, come un emerito cretino, in mezzo al corridoio e con le mie cose sparse per tutto il pavimento.

Cosa mi riportò alla realtá?
Il mio telefono che iniziò a squillare nella tasca. Una chiamata.
Si trattava di un amico che era semplicemente preoccupato, perchè non lo avevo ancora raggiunto a pranzo.», le dissi, ripensando alla ramanzina che quel giorno Matteo mi fece.

«Una volta che lo ebbi raggiunto, mi scusai per il ritardo e non gli raccontai nulla del mio incontro/scontro. Hai presente i ragazzi che erano qui con noi e che ti hanno aiutata?», le chiesi.
E con la coda dell'occhio vidi che fece un cenno di assenso con la testa.
Bene. Era un buon segno.
Significava che mi stava ascoltando e che non si era persa nulla del mio discorso.

«Ecco ... Il ragazzo con i capelli castano chiaro e gli occhi di colore verde chiaro, era l'amico di cui ti parlavo.
Si chiama Matteo ed è il mio miglior amico. Adesso, però, cerco di stringere. Non voglio trattenerti inutilmente per sentire la storia della mia vita, che sicuramente, poco ti interessa. Ma, e non so il perché, desidero che tu ascolti attentamente questa storia, Giada.», le dissi.

Ad un tratto ebbi il coraggio di guardarla. Mi stava fissando.
I suoi occhi verdi erano spalancati e attenti. Mi stava davvero ascoltando.
Ne ero felice. Le sorrisi e lei ricambiò. Per poi dire: «Continua.»

Feci come mi disse.
Spostai ancora una volta il mio sguardo e ripresi a raccontare.

«Inutile dire che per tutta la giornata non feci altro che pensare a lei.
Il suo viso delicato e armonioso mi era rimasto impresso nella mente. Non credevo fosse una studentessa della mia facoltà, perché non mi era sembrato di averla mai vista lì, ma, si sa, non è possibile ricordare tutti i visi delle persone che ci sono là dentro.
Speravo solo di rincontrarla e così fu.

Scoprii che era la sorella di una mia collega ed era venuta a trovarla, per passare con lei una settimana o due. Manco a farlo apposta, sua sorella faceva parte della mia comitiva di amici, quindi ero certo che un giorno sarei riuscito a incontrarla, a parlarle e a scusarmi.

La rincontrai un sabato sera, quando uscii con Matteo e gli altri e non puoi immaginare come reagii quando la vidi. Era ancora più bella della prima volta. Era bionda, occhi azzurri, chiari come il cielo, alta, magra, ... insomma, una modella. Persi un battito.

Ero veramente cotto.», dissi e iniziai a respirare profondamente.
Stavo parlando molto velocemente e il fiato veniva a mancare.

I dolori che avvertivo prima erano scomparsi quasi del tutto e sapevo anche il perché.
Il mio corpo si stava preparando a rivivere un dolore più grande e tutto questo per una ragazza che conoscevo solo da due sere.
Ero proprio un deficiente.

«Quando si presentò, mi riconobbe e io cercai immediatamente di trovare le parole giuste per scusarmi.
Lei all'inizio sembrò particolarmente infastidita, però, più tardi, cominciò a rilassarsi.

Era bellissima.
Quella sera parlammo di tante cose e scoprii che nonostante il suo aspetto, non era affatto una ragazza superficiale.

Così iniziammo a frequentarci e conoscendola cominciai ad apprezzare i suoi gusti e imparare ad amare i suoi difetti.

Avevamo molte cose in comune, partendo dai generi di libri che leggevamo, ai film che guardavamo, ai videogame, ... insomma sembrava che lei fosse la mia anima gemella.
La mia versione al femminile.

Avevamo più volte fantasticato su come doveva essere il nostro futuro insieme. E io ci credevo, perchè l'amavo, e tanto anche.», le dissi rivolgendole un mezzo sorriso.
Lei mi stava fissando concentrata.

Spostai il mio sguardo verso il vuoto, come se stessi rivivendo quei momenti.

«Ero convintissimo che lei ricambiasse i forti sentimenti che provavo, ma non era così.

Ripensa un attimo ai ragazzi che erano qui insieme a te ad aiutarmi.», le dissi.
Giada fece un cenno di assenso con la testa, come per farmi capire che aveva presente le due figure che le stavo indicando.

«Bene. Ti ho giá detto che uno di loro è Matteo, l'amico, che il giorno in cui la incontrai, mi aspettava per pranzare, mentre l'altro ragazzo, il biondino con gli occhi chiari, è Vanni e oltre ad essere i miei migliori amici, sono anche i miei coinquilini.

Nel nostro appartamento, sono presenti quattro camere.
Ecco ... una è la mia, una è di Matteo e l'altra è di Vanni.
La quarta camera è vuota, ma prima c'era qualcuno.

Un amico di Matteo che studiava con noi, Giacomo.
Era un tipo simpatico, tuttavia, non ero riuscito a stingere alcun tipo di legame con lui.
Non avevamo nulla in comune.

O meglio, una cosa in comune l'avevamo. E questo lo scoprii un giorno, per caso.», Sospirai.

Era arrivato il momento.
Ero pronto e il dolore stava ritornando, ma sta volta sarebbe stato diverso. Lo avrei contenuto, lo avrei sopportato e solo per farle capire che si può andare avanti.
Anche senza la persona che credevi fosse quella giusta per te.

«Avevo chiesto in prestito la macchina a Vanni, ma, data la mia solita sbadataggine, avevo dimenticato le chiavi dell'auto a casa. Così ritornai nell'appartamento.

Dopo aver aperto la porta, entrai e vidi magliette, pantaloni, scarpe e biancheria intima maschile e femminile sparsa per tutta la casa.

Pensai subito a Vanni in 'dolce compagnia' e non volevo disturbarlo, così cercai velocemente le chiavi nel cassetto del mobile che avevamo vicino l'entrata, quando mi saltò agli occhi un particolare.

Stefania aveva la mania di comprarsi le scarpe di tela e di scriverci sopra con il pennarello colorato.
Ci scriveva qualsiasi cosa e anche se le scritte sbiadivano durante il lavaggio, lei le riprendeva con lo stesso pennarello.
Si firmava sempre con una stellina stilizzata.

La trovavo un'idea assurda, ma a lei piaceva, e tanto anche.» Ripresi fiato, stavo parlando troppo velocemente.

Anche se ero convinto di quello che stavo facendo, temevo, comunque, di ricadere, perchè era da tanto che non ci pensavo. Ma non mi importava. Dovevo andare avanti. 

«Quindi tra i diversi indumenti, mi accorsi che le scarpe della 'ragazza' di Vanni erano uguali a quelle di Stefania. Non volevo crederci.

Presi la scarpa, convintissimo che l'avrei fatta pagare ad entrambi, quando mi resi conto che quegli orribili suoni non provenivano dalla stanza di Vanni, ma da quella di Giacomo.

Continuavo a non volerci credere. Spalancai la porta e vidi qualcosa che mi avrebbe segnato.

Lei, la ragazza che amavo e con cui sognavo un futuro, era a letto con uno dei miei coinquilini, amico del mio migliore amico.

L'unica cosa che feci fu scappare.

Mi sembrava impossibile che Stefania avesse buttato al vento la nostra relazione. Stavamo insieme da quattro anni ed erano stati i quattro anni più belli della mia vita.», feci un mezzo sorriso e alzai lo sguardo.
Mi rivolsi a lei. 

«Inutile dire che Giacomo prese le sue cose e andò via.
Andò a vivere insieme a lei.
Matteo e Vanni cercarono di aiutarmi a dimenticare l'accaduto, ma io desideravo solo sparire.

Volevo morire, era tutto così irreale, più volte avevo desiderato che fosse tutto un sogno, anzi un incubo e che mi sarei svegliato, che l'avrei ritrovata lì, accanto a me.

Ma non era così. Quella, purtroppo, era la realtà.», inspirai, per poi buttare fuori l'aria che avevo nei polmoni e iniziare a strofinare le mani sulle mie gambe.
Cercavo di riprendermi.

Avevo finito il mio racconto e credevo che avrei sentito di nuovo lo stesso dolore che mi aveva distrutto per un anno e mezzo e invece ... niente ... assolutamente niente.
Mi sentivo libero e leggero, come se mi fossi appena tolto un peso.

All'improvviso sentii sulla mia mano qualcosa di fresco e morbido.
Era la sua mano.
L'aveva poggiata sulla mia e la stava stringendo. Le intrecciammo e iniziai ad accarezzarla.

Passai lo sguardo dalle nostre mani a lei. Mi stava sorridendo e aveva gli occhi lucidi. Poi si avvicinò di più a me e si poggiò sulla mia spalla, continuando a tenere la sua mano nella mia.

«Ti ringrazio, Marco. Davvero.», disse sottovoce, per poi iniziare a piangere.

L'unica cosa che potei fare fu prenderla e stringerla fra le mie braccia e aspettare che anche a lei quel dolore passasse.

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