3. Fenelia
Soletum*, Messapia.
A dodici anni Fenelia si dichiarava una bambina felice e in salute.
Il padre, Carisio, che ogni tanto andava a trovarla quando era più piccola, smise del tutto di farlo quando si risposò ed ebbe altri figli.
Inizialmente era rimasta molto male ma poi la nonna le disse che non valeva la pena crucciarsi per un uomo che non ti voleva nella sua vita, anche se era tuo padre, e che a perderci era solo lui. Fenelia pensò seriamente a ciò che disse e, considerando che i maschi con cui aveva avuto a che fare fino a quel momento l'avevano sempre delusa, a parte il nonno, decise che aveva ragione la nonna e non ci pensò più.
Un maschio che la deluse molto fu Dositeo.
La madre dell’amico andò dai nonni, molto arrabbiata, perché il suo adorato e innocente figlio le aveva raccontato, con dovizia di particolari, di come Fenelia gli avesse mostrato con orgoglio le sue parti intime.
“Ma nonna! Continuava a dire che in realtà sono un maschio e io allora gliel’ho fatto vedere che non era vero.” Si giustificò lei.
E poi Dositeo le aveva promesso che, se gli avesse dimostrato senza ombra di dubbio che fosse femmina, allora l’avrebbe baciata. A lei piaceva molto Dositeo e voleva quel bacio.
“Non devi mortificare te stessa per accontentare un uomo in particolare, e nessun’ altra persona in generale, solo perché ti promette qualcosa in cambio.” Le disse la nonna, severa.
Dopo il tradimento del ragazzino, decise che non le piaceva più e si beccò un’altra punizione quando giorni dopo, appena libera dal castigo, si recò dritta da lui e gli tirò un pugno sul naso.
“Ma nonno! Mi dovevo vendicare!” Disse, come fosse ovvio, gli occhi spalancati, dopo un lungo rimprovero.
Anche le sue amiche l’avevano sgridata.
“Non ti sposerai mai se ti comporti così.” Dissero.
“E allora resterò sola.” Aveva risposto, facendo spallucce.
Aveva deciso che preferiva restare sola piuttosto che sposare un maschio che non la rispettava. E, dopo le sue riflessioni, era quasi certa che mai si sarebbe sposata. Non sarebbe mai riuscita a trovare uno uomo come voleva lei, bello e buono, forte e deciso, rispettoso e integro come era il nonno, perché non esistevano più.
Fenelia lo sapeva che prima della salita al trono di re Alaskiritas, le donne erano tenute in grande considerazione, partecipavano alla vita sociale attivamente, venivano trattate bene dagli uomini e potevano scegliere di essere chi volevano nella vita: la nonna glielo aveva raccontato.
Ma adesso non era più così e gli uomini le volevano solo sottomesse, ubbidienti e zitte, buone solo a dar loro piacere, sfornare figli e cucinare.
Fenelia voleva di più.
Allevata nella natura, grazie alle lezioni del nonno sapeva cavalcare, tirare con l’arco e la fionda; abile con lancia e pugnale, sapeva pescare, nuotare e coltivare la terra.
Grazie agli insegnamenti della nonna sapeva leggere e scrivere, conosceva le buone maniere (anche se non le applicava spesso), sapeva cucinare e prendersi cura di se stessa.
Ribelle e testarda di natura, trasgrediva i divieti che per il suo bene le avevano imposto e che erano sempre seguiti da una spiegazione ragionevole, e si cacciava spesso nei guai.
Diverse volte tornava a casa, sporca e accompagnata da qualche vicino adirato, perché si era arrampicata sui loro alberi ad assaggiare qualche frutto o perché aveva bisticciato con i loro figli, lasciando in regalo un occhio nero o un bernoccolo in testa.
Il fatto che i nonni la amassero sopra ogni cosa, in quanto figlia della loro defunta e adorata bambina, contribuiva purtroppo a renderli più permissivi e più facilmente disposti a perdonare le sue scorrerie.
Fenelia, furba e scaltra, lo sapeva benissimo e se ne approfittava.
Soprattutto sapeva che il nonno non riusciva a resistere al suo sguardo color del miele, così simile a quello di sua figlia Nedina e della sua sorellina, anche lei morta e il cui nome per Fenelia era sconosciuto.
Le punizioni non duravano mai quanto il nonno prometteva e Fenelia tornava a scorrazzare libera con i suoi amici.
C’era qualcosa però in cui Fenelia non riusciva mai a spuntarla. Le era assolutamente vietato lasciarsi crescere i capelli. Doveva portarli cortissimi e sempre nascosti da un copricapo.
Avrebbe voluto portarli sciolti e lunghi e soprattutto decorati, come le sue amiche e i suoi amici.
Fenelia detestava quel petaso, quel brutto copricapo di giunchi palustri che la nonna aveva creato per lei.
Erano stati inutili i suoi pianti disperati o le sue moine dolci. Quella era l’unica questione su cui capì di non poterla mai avere vinta.
Con l’aiuto della nonna, lo decorava con fiori e foglie per renderlo più interessante e, una corda sottile che le passava sotto al mento e legava una parte del copricapo all’altra, la aiutava a non perderlo durante il gioco.
Quel copricapo diventò il suo marchio di riconoscimento. Non lo accettò mai veramente ma capì che se voleva uscire a giocare con i suoi amici, doveva farselo andare bene.
Ciò che disturbava di più Fenelia era il fatto che non le veniva spiegato il perché lo dovesse portare.
I nonni erano molto sinceri e le spiegavano ogni cosa, tranne quella questione.
Crescendo lo intuì da sola e non si lamentò più del suo copricapo.
Per capire se ci avesse visto giusto, una sera buttò lì al nonno: “Sai, il tuo altro nome mi piace di più.”
Il nonno la guardò stupito, con la bocca spalancata per qualche attimo poi si riprese e, con un sorrisetto che alla bambina non sfuggì, le rispose che non sapeva di cosa stesse parlando e che Darius era il suo unico nome.
A Fenelia bastò e non fece più domande.
Lo aveva capito ormai che la storia segreta sulla famiglia reale che il nonno diverse volte le aveva raccontato, sottolineando che fosse una leggenda e che a nessuno doveva rivelare, (avevano suggellato un patto solenne) era vera e riguardava il nonno.
Era lui Tarides, il fratello perduto del re Alaskiritas e il principe Apone e, Sifika, la povera principessa a cui era stato rubato il trono, era la sua dolce a amata sorellina.
Avrebbe voluto davvero tanto parlarne con il nonno ma non trovava il coraggio. Capiva quanto doloroso fosse per lui e non voleva essere colei che riportava a galla brutte e tristi storie del passato solo per curiosità. Magari gliene avrebbe parlato quando fosse cresciuta. Forse non la riteneva pronta a sapere quella verità.
Andando contro alla sua natura ribelle e curiosa, decise di rispettare il volere del nonno.
Pensava comunque che il nonno avesse fatto bene ad andare via e a decidere di vivere come un uomo semplice: la famiglia reale era proprio orrenda!
Re Alaskiritas era un prepotente che costringeva tutto il popolo della Japigia a lavorare la terra, di cui erano solo affittuari, e si prendeva tutto lui.
Non aiutava nessuno e chi cadeva in miseria e non moriva di stenti, diventava schiavo delle famiglie nobili o del re stesso, oppure entrava nel suo esercito, vendendo l'anima a Yothnos.
Ripensava a quella storia proprio quella mattina Fenelia, mentre era sola in casa. I nonni erano andati in città, a Hydros, per alcune questioni di affari e come al solito lei non aveva ricevuto il permesso di andarci.
Ci era andata forse solo due volte da chè era nata e non le era certo sembrato tutto questo pericolo come i nonni dicevano che fosse. Certo, era caotica e c’era gente davvero maleducata e sporca ma era anche interessante.
Al nonno non piaceva andarci e infatti non lo faceva se non per qualche urgenza. La nonna invece ci andava più spesso, da sola o in compagnia di qualche vicina di casa.
Ormai Fenelia sapeva perché era saggio che lei e il nonno non ci mettessero piede.
Alaskiritas e Apone avevano ucciso senza scrupoli le loro stesse figlie femmine per paura che lo spirito di Sifika dimorasse in loro, anche se avevano detto che erano decedute di morte naturale: il nonno ne era certo.
Non avrebbero avuto pietà se si fossero ricordati di Tarides e scoperto di lei.
"Se ci camuffiamo per bene però, non avremo problemi, no?” Borbottò tra sé, in piedi vicino al tavolo quadrato intenta a dividere dei pomodori in due cesti.
Uno lo avrebbe poi ben nascosto per l’arrivo delle guardie.
Quando i nonni tornarono, erano agitati e spaventati e ordinarono a Fenelia di chiudersi nella sua stanza.
Origliando attraverso la porta, Fenelia capì che il nonno aveva ragione di credere che il principe Apone lo avesse riconosciuto.
La nonna cercava di calmarlo e lo rassicurava, affermando che se per tanti anni non lo avevano cercato non c’era motivo di credere che lo facessero ora. Solo perché i loro sguardi si erano incrociati per sbaglio tra la folla non significava nulla.
Ma la nonna si sbagliava di grosso.
Evidentemente Apone lo aveva riconosciuto e i fratelli si ricordarono quindi della sua esistenza perché tre giorni dopo, Fenelia e il nonno videro arrivare Yothnos con due bestioni dei suoi al seguito mentre erano nel piccolo campo a lavorare la terra.
Tarides afferrò la nipote per un braccio ed entrò in casa ad avvertire la moglie del pericolo.
Pronti da sempre a quell’evenienza, Tarides ed Esside, muovendosi in casa a recuperare il necessario, consegnarono ad una spaventatissima Fenelia un sacco.
“Scappa il più lontano che puoi Fenelia!” Le disse la nonna, con le mani che tremavano.
“Lo so che lo hai capito, bambina. Si, è tutto vero e ora sei in pericolo. Corri, non tornare mai indietro e non toglierti mai il cappello. Và.” La spinse il nonno fuori dalla porta.
“Venite con me!” urlò la bambina, tremando, con il sacco tra le mani.
“Noi li tratteniamo. Staremo bene. Vai!” La spinse via la nonna.
“CORRI!” Urlò il nonno con gli occhi pieni di terrore, quando ancora non si mosse.
Trasalì per la durezza di quell’ordine e uscì di casa.
La figura imponente, massiccia e spaventosa di Yothnos si avvicinava sempre più velocemente.
Il nonno glielo aveva detto che con lui non c’era da scherzare. Era un demone vero e proprio, non aveva pietà per nessuno.
Si voltò, dando le spalle alla sua casa, alla sua infanzia e ai suoi adorati nonni e corse a perdifiato tra i campi pronti per la semina, le sterpaglie, e le infinite campagne abbandonate, con il cappello ben saldato sulla testa e il sacco che sbatacchiava di qua e di là.
Dopo ore di corsa senza sosta, si fermò a riprendere fiato appoggiata al grosso tronco di un ulivo secolare; lo stomaco che borbottava per la fame fu il segnale che la avvisava che era giunta l’ora di cena.
Aprì il sacco e, tra due pugnali e un cambio di vestiti, agguantò una mela rossa. La mangiò in fretta, gettò il torsolo tra le erbacce e, quando sentì un rumore lontano, prese uno dei pugnali e lo tese in avanti, pronta ad usarlo.
Il buio che calava in fretta, il cuore che martellava impaurito, Fenelia si impose di essere coraggiosa. Gli occhi saettavano da una parte all’altra e le orecchie erano attente ad ogni fruscio: qualcuno si stava avvicinando e non si stava certo nascondendo da come rumorosamente camminava tra l’erba alta.
Riprese a correre, mentre iniziava a piovere.
Presto zuppa, fu costretta a camminare anziché correre, intralciata dalla terra che bagnata, la faceva affondare. Dopo infiniti giorni di siccità, Fenelia non poteva credere che dovesse piovere proprio in quel momento.
Distratta, si sentì agguantare per un braccio con forza e si trovò faccia a faccia con Yothnos, il demone.
“Fine corsa.” Disse con un vocione basso, cavernoso.
Altissimo e grosso, Yothnos era a petto nudo, aveva la pelle scura e dei muscoli enormi.
Impossibile dire quanti anni avesse. Il suo naso era largo e schiacciato, la pelle, calda, sembrava dura ed era caratterizzata da strane scaglie appena visibili ma Fenelia le vide chiaramente, per quanto vicino a lui si trovava.
La fronte alta luccicò, bagnata dalla pioggia; brillò il nodo decorativo che teneva insieme, in una coda alta, un ciuffo lungo di capelli scuri, posto al vertice del capo.
Un basso ringhio uscì dal profondo della sua gola e la bocca si allungò in un terribile ghigno.
Fenelia spalancò gli occhi per il terrore e non riuscì nemmeno a gridare. La voce era scomparsa.
Ma non era una che si arrende facilmente, Fenelia. Colpì il polso di Yothnos con il pugnale ma non successe niente. Dove un uomo normale avrebbe urlato e ricevuto un taglio profondo, lui ebbe solo un graffio da cui una piccola e quasi invisibile stilla di sangue ne fuoriuscì. La pelle di Yothnos era dura, pareva una corazza.
Rise Yothnos e la tirò ancora di più a sé, afferrandole il mento con l’altra mano per vederla bene in faccia.
“Sei una femmina?” Chiese, brusco.
Un lampo illuminò il cielo sopra di loro e il crocchiare secco e forte di un tuono echeggiò tra gli alberi secolari.
Yothnos si distrasse e guardò in alto, allarmato; la sua presa si allentò.
Fenelia ne approfittò e, con uno slancio all’indietro si liberò e riprese a correre spingendo le gambe e il fiato fino allo stremo.
Al buio e spaventata, non si rese conto di dove stava andando.
Si fermò, frenando bruscamente,
piantando i sandali nel terreno bagnato, appena prima di rischiare di ruzzolare nell’avvallamento.
La sua corsa l’aveva condotta lungo il fiume Limini Grande.
Era già così lontana da casa.
Il fiume scorreva placido, picchiettato dalle gocce di pioggia.
L’arrivo di Yothnos, annunciato dalle sue urla furiose, la convinse ad entrare in acqua.
Piano, quanto più silenziosamente riuscì, entrò.
Era gelata e mille lame parvero trafiggere il suo piccolo corpo. Tappandosi la bocca con la mano per silenziare i suoi incontrollati rantoli, si immerse completamente e nuotò agile come un pesce. Si disse che era molto meglio morire congelata o annegata tra l’acqua salata del fiume e quella dolce del cielo invece che dalle mani di quel mostro o peggio, da quelle del re.
Riemerse a galla, a riprendere fiato e a controllare se stava procedendo nella giusta direzione. Voleva raggiungere l’altra sponda ma prima decise di nascondersi tra gli alti e fitti canneti.
Una volta raggiunti restò immobile, le braccia strette attorno al corpo, tremando e battendo i denti. Il temporale crebbe di intensità e sperò di non essere raggiunta da un fulmine. I sensi allerta, non sentì nessun rumore, a parte quelli della natura. Pensò che Yothnos la credesse morta annegata e avesse abbandonato la ricerca.
Aspettò più che poté, non seppe dire quanto; fino a quando ormai con la pelle blu, sentì che stava per svenire.
Spinse il suo corpo rigido e tremante e, arrampicandosi sul piccolo avvallamento, si aggrappò ai ciuffi d’erba selvatica, si issò e si lasciò cadere con la faccia nella terra. Si rivoltò a guardare il cielo, il petto che si alzava e si abbassava rapido, il corpo che tremava per il freddo; piccole nuvolette uscivano fuori dalla sua bocca.
Si accorse che non pioveva più ma il cielo ancora si illuminava della luce dei lampi.
Non poteva credere di essere sfuggita al terribile Yothnos. Rise di nervosismo e le lacrime scesero giù incontrollate.
“Secondo te, chi rappresenta?” Chiese una voce femminile, adulta, calma.
Il cuore di Fenelia perse un colpo ma, impossibilitata al momento a muovere anche un solo muscolo, girò solo gli occhi alla sua destra, da dove la voce era provenuta, e la vide.
Una donna era seduta al suo fianco, a gambe incrociate e bagnata fradicia. Vestita con una lunga veste bianca, aveva lunghi capelli castani, decorati da trecce e nastri colorati. Tra le mani si rigirava una piccola statuetta. La mostrò a Fenelia.
Si guardarono negli occhi e la bambina lesse in quell’azzurro, dolcezza e bontà.
“Una… una donna… pesce.” Rispose Fenelia con voce roca, guardando la statuetta*.
Aveva la forma di un essere umano: una testa e delle braccia attaccate al corpo, i piedi erano uniti. Non poteva vedere molto altro e la prima impressione che ebbe fu quella.
Forse perché era appena uscita dall’acqua.
“Ma tu pensa! Ero venuta a meditare per trovare la pace interiore e invece mi ritrovo con la statuetta di una donna pesce e una bambina.” Sorrise, guardando in alto.
Fenelia seguì il suo sguardo e vide un grande volatile passare nel cielo attraversato dai lampi. Un’aquila, forse.
“Se n’è andato, sei al sicuro.” Disse seria la donna.
Tornarono a guardarsi negli occhi. “Posso ospitarti, se vuoi.” Aggiunse.
“Io… non…” Balbettò Fenelia.
“Prenditi il tempo che ti serve per riprendere fiato.” La interruppe, coprendola con un telo sbucato da chi sa dove. “Poi se vorrai, potrai venire con me, nel mio villaggio. Ci prenderemo cura di te, potrai studiare e diventare la regina che sei destinata ad essere o forse no, se non vuoi.” Continuò, parlando piano.
Fenelia si alzò a sedere di scatto a quelle parole e il cappello di paglia, appesantito dall'acqua, si sfaldò e le cadde dalla testa.
I corti capelli bianchi di Fenelia si rivelarono e la donna, che la guardava attentamente, sorrise.
“Mi chiamo Mut. Se vorrai, sarò la tua Maestra.” Disse.
*Soletum: Oggi Soleto.
*Statuetta: La Venere degli Alimini è una piccola scultura in osso trovata presso i Laghi Alimini. (Chiamati un tempo Laghi di Limini).
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