Secondo capitolo
La sveglia iniziò a trillare e Serena sobbalzò. «Gabriel!» urlò quel nome quasi volesse farsi udire da lui, ovunque fosse. «Un sogno» mormorò poi, stropicciandosi gli occhi. Si ritrovò avvolta nel suo piumone avio, di un azzurro spento tendente al grigio, lo stesso che aveva assunto il suo animo da un po'. Sollevò la schiena per riprendere fiato, ma scattò di nuovo quando si spalancò la porta.
Ester irruppe nella camera e le si sedette affianco. I suoi lunghi capelli biondi, raccolti disordinatamente in una treccia, le pendevano sulla schiena, mentre la pelle bianca e liscia come una lastra di ghiaccio faceva da sfondo ai suoi occhi verdi, che scivolarono su Serena come un faro abbagliante. Ester aveva imparato a convivere con quella parte della sua coinquilina che si rivelava di notte, tra urla agghiaccianti, singhiozzi sommessi, sguardo di terrore. «Chi è Gabriel?» indagò, prima di mollarle un affettuoso buffetto sul braccio. «Da quando hai un ragazzo e me lo tieni nascosto?»
«Non è il mio ragazzo.»
«Non lo sono mai, tesoro», sottolineò Ester. «Avanti, dimmi com'è?»
«Un figo pazzesco.»
«Quanto pazzesco?»
«Hai presente Pattinson?»
«Okay, non aggiungere altro.»
Serena rivide il suo volto e si sentì stranamente confusa, qualcosa si era messo in moto dentro di lei, simile ad un giro sull'ottovolante: una scarica di adrenalina che la terrorizzava, ma, al tempo stesso, la rendeva viva.
"È mai accaduto prima?", non poté fare a meno di chiedersi. I suoi pensieri volarono a quel giorno, quando sentì di aver perso un pezzo di sé, permettendo alla vita di scivolarle accanto, di fare finta che non esistesse, lasciando che la buia e fredda indifferenza l'avvolgesse...
Si aggirava per casa in cerca delle ultime cose da mettere in valigia. Sua madre voleva darle una mano, mettere a tacere il senso di colpa, ma Serena non lo permise. Stava lasciando casa sua e voleva farlo da sola, in silenzio, nella consapevolezza di quello che stava per lasciare.
Ripiegato l'ultimo capo, chiuse il trolley e con lo sguardo scattò un'istantanea di ciò che non l'avrebbe seguita nel suo viaggio. Uscì sul pianerottolo, il rumore secco della porta, chiusa alle sue spalle, le stava negando la possibilità di tornare indietro. Il soffio di una leggera brezza le confermò che la decisione era stata ormai presa e non le restava altro da fare che seguire il vento, ovunque avesse deciso di portarla. Seguire qualcuno non era mai stato un problema per Serena, in fondo era quello che aveva sempre fatto. Lasciarsi guidare era più facile per lei. Decidere implica coraggio e consapevolezza. Serena aveva la consapevolezza di non avere coraggio. Coraggio di prendere una decisione, di fare qualcosa che voleva veramente, di non mettersi contro chi non condivideva le sue scelte. Quel senso di vuoto era così profondo che partire le era sembrata l'unica cosa sensata da fare, ma si sbagliava. Aveva fatto le valigie insieme a lei e, giorno dopo giorno, in modo subdolo e silenzioso, stava scavando una voragine.
«Me ne torno a dormire» sentenziò Ester, uscendo dalla camera sbadigliando. «Ci vediamo a pranzo.»
Serena saltò giù dal letto e filò in bagno, guardò il suo riflesso allo specchio e trasalì. Il viso che la stava contemplando non poteva essere il suo: occhi vivi e lucenti; guance evidenziate da un alone roseo; la bocca incurvata verso l'alto.
"Il volto di una sconosciuta", pensò. Si preparò in fretta e raggiunse la cucina. Scaldò una tazza di caffelatte nel microonde e, nell'attesa, si spalmò della marmellata di lamponi su una fetta biscottata. Mentre faceva colazione, l'immagine di Gabriel le balenò nella mente e si ritrovò a sorridere come un'idiota. Non avrebbe saputo definirsi in un modo più appropriato, si stava agitando per un sogno, figo, ma pur sempre un sogno.
Giunta nel cortile, salì in sella alla sua bike e sfrecciò lungo via Baiamonti; arrivata all'incrocio, girò a destra per via Svevo e proseguì per Campi Elisi. Serena non amava i mezzi pubblici, l'idea di ritrovarsi spalmata ad altri passeggeri come un marshmallow tra due biscotti non l'allettava; a quel bunker claustrofobico, preferiva l'aria gelida del mattino che le schiaffeggiava il viso.
Dopo circa mezz'ora arrivò in via Valerio, lasciò la bicicletta al parcheggio e si diresse verso Scala Jan Palach. A pochi metri dall'ingresso, notò una fontana da cui sgorgava uno zampillo d'acqua fresca, per chiunque altro non era una gran cosa, ma per Serena fu una scoperta, soprattutto perché se ne era accorta con un anno di ritardo. Sorseggiò un po' d'acqua, attenta a non bagnare i lunghi riccioli castani che le ondeggiavano sulle spalle; si asciugò le labbra con la mano sinistra e, in quel preciso istante, ebbe la sensazione di aver vissuto la stessa scena ma da un'altra parte. D'istinto, si passò un dito lungo la cicatrice che le rigava il palmo, come se quel ricordo c'entrasse qualcosa. Scosse la testa per far emigrare altrove quei pensieri e varcò il padiglione di Psicologia, con addosso quella strana sensazione di dejà vu. Si sforzò di ricordare, ma più si affannava e più quell'immagine si dissolveva, come la foschia del mattino alle prime luci dell'alba.
Percorse il lungo e affollato corridoio, stringendosi al petto le braccia come uno scudo difensivo contro quel patchwork di universitari frenetici. Quelle voci urlanti, mescolate alle risate chiassose, però, non smossero i suoi pensieri, che la imprigionarono in una nuvola d'isolamento. Raggiunse l'aula di psicologia morale e, mentre stava per oltrepassare la porta, una voce familiare spazzò via quella nuvola, come un ventilatore azionato alla massima potenza.
«Ciao, Sere.»
«Emis, ciao.»
Lui si chinò per baciarle le guance, poi le poggiò un braccio sulla spalla e, insieme, avanzarono verso i banchi della prima fila, dove si sedettero.
«Ester?» le chiese lui, guardandola con stupore. «Ancora alle prese con psicologia sociale?»
«Non vuole proprio entrarle in testa.»
Emis tamburellò nervosamente le dita sul banco. «Non devi coprirla.»
«Dalle un po' di respiro, Emis» lo redarguì Serena, con un'occhiataccia. «Non sei suo padre.»
«Ma sono il suo coach e stasera c'è il derby.»
«E allora? Non esiste solo la pallavolo» sentenziò lei, tirando fuori dalla borsa il quaderno degli appunti.
«Su questo hai ragione. Sei radiosa, oggi», Emis le strizzò l'occhio. «Vieni alla partita, ci porterai fortuna.»
«Avete già una mascotte.»
«Sì, ma, dopo tre sconfitte consecutive, abbiamo bisogno di un tifo pazzesco.»
«E da quando sei diventato superstizioso?»
«Non si tratta di scaramanzia, ma di energia positiva. E' una pillola di saggezza di Gabe.»
«Tuo fratello, certo. Come se la passa?»
«Alla grande, sarà a casa per Natale.»
«Non mi metterò ad esultare sugli spalti. Lo sai, vero?»
«Per me conta solo che vieni.»
«Credevo contasse per la squadra.»
«Ehm...». Emis si schiarì la voce, imbarazzato. «E' quello che ho detto.»
Il professor Beraldi si materializzò sulla porta, ponendo fine a quel duello verbale. La lezione cominciò poco dopo, smorzando il vociare studentesco di cui si era impregnata l'aria. In un'aula universitaria, affollata da circa duecento studenti, la concentrazione ed il silenzio erano gli unici a non faticare per trovare un posto libero.
Serena non fu sorpresa di ritrovarsi a sognare ad occhi aperti, mentre riempiva di ghirigori il quaderno. In realtà, non si trattava affatto di una bizzarra intrecciatura di linee, quanto piuttosto di una linea unica tracciata in modo ben definito, che rappresentava un volto. Per quanto si sforzasse, non riusciva ad incanalare la sua attenzione sull'argomento del giorno, i suoi pensieri erano ingestibili. L'immagine di quel ragazzo le si era conficcata nella testa come un chiodo, ma più tentava di allontanarla e più la sentiva tatuarsi nel cuore.
«Cos'hai?», le sussurrò Emis.
«Niente, perché?» gli chiese lei, sempre più a disagio.
«Sono dieci minuti che fissi quel foglio» ribatté lui.
«Memorizzavo il concetto» fu l'unica cosa che le venne in mente.
Emis non aggiunse altro, ma non smise di osservarla. Aveva una luce diversa negli occhi, se n'era accorto subito quella mattina. L'aria stralunata, poi, gli dava l'impressione che Serena fosse presa da qualcosa, un ragazzo? La conosceva da poco più di un anno, ma non aveva mai visto nessuno ronzarle intorno. Eppure, Serena era diversa.
«Ti sei innamorata?»
«Cosa? Innamorata?» farfugliò lei, a disagio. «Cosa ti viene in mente?»
«Ti sei messa con qualcuno?»
«No, Emis.»
Serena riprese a fissare quel volto. Si chiedeva dove potesse trovarsi Gabriel, le era sembrato così reale, che doveva pur essere da qualche parte. Chissà, in un universo parallelo, di cui bisognava solo trovare l'accesso. E da quell'universo, lui la stava cercando?
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro