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Capitolo 20

«Vuole che mi ricordi di lui, ma non vuole che ricordi cosa mi ha spinta a dimenticarlo. Due tizi mi perseguitano negli incubi. Mi fanno paura, ma non so perché.»

«C'è un aspetto della tua vita da cui stai fuggendo, Serena. Più lo ingabbi, nel tentativo di farlo sparire e più esso si trasformerà in un conflitto ostile.»

«Conflitto?»

«C'è una lotta dentro di te, uno scontro fra due forze opposte, che ti stanno tirando in due direzioni contrarie.»

«Conscio e inconscio.»

«Esatto. Finché una delle due forze non avrà la vittoria sull'altra, questo conflitto continuerà a metterti in difficoltà.»

«Che genere di difficoltà?»

«Ansia, angoscia, panico.»

«L'attacco di panico è causato da questo conflitto?». Serena si lasciò sfuggire una risatina nervosa. «Grandioso. Il conflitto genera l'attacco di panico. L'attacco di panico non mi permette di risolvere il conflitto. E' un circolo vizioso, non c'è via d'uscita.»

«Ti sbagli, c'è sempre una via d'uscita. Devi solo imparare a gestire meglio il tuo stato d'animo. Solo se sarai calma e tranquilla, potrai credere in te stessa e risolvere il conflitto.»

«Come faccio a gestire il mio stato d'animo, quando ho un attacco di panico?»

«Avvicina la tua paura e dalle un nome. Il conflitto si nutre di quella paura innominabile che vive dentro di te, trasformando il tuo mondo interiore in una realtà concreta, ma anche l'unica esistente davanti ai tuoi occhi.»

«Perché si serve dell'attacco di panico?»

«È il suo modo di esprimersi, essendo tacito e silente. Diciamo che non ama molto le parole.»

«Non ama le parole? Che intendi dire?»

«Le parole legano te alle tue emozioni.»

«Come un ponte?»

«Esattamente. La strada che devi percorrere per dare un senso alla tua paura. Io posso indicarti la meta da raggiungere, ma la strada devi percorrerla tu, Serena.»

«Cosa devo fare?»

«Se vuoi veramente uscire dal tuo conflitto interiore, devi spostare il tuo punto di vista ad un livello più alto di quello che lo ha generato.»

«Temo di non capire.»

«In altre parole devi aprire la tua mente, pensando in modo diverso da come fai di solito.»

«Come faccio a pensare in modo diverso?»

«Devi guardarti dentro.»

«Guardarmi dentro? No, non penso di poterlo fare.»

«Non lasciarti bloccare da questa convinzione, che ti tiene ancorata al tuo rifugio.»

«Quale rifugio?»

«Il sogno, Serena. Quel posticino sicuro e tranquillo che ti sei ricavata dentro di te, a cui sei legata da tanto tempo e che non ti permette di cambiare, di superare il tuo dolore e di andare avanti. Il sogno rappresenta la tua fuga.»

«E perché lo farei?»

«Nel mondo reale ti senti fuori posto, incompresa, frustrata ed è per questo che, non appena ne hai la possibilità, ti rintani lì.»

«Questo è sbagliato?»

«Se consideri il sogno come un luogo in cui rifugiarti quando sei triste, purtroppo sì.»

«Perché?»

«Perché nel sogno costruisci una realtà che non esiste, ma dalla quale, però, ti lasci trascinare così tanto che ne resti ingabbiata e ti impedisce di liberarti.»

«Il sogno non mi ingabbia.»

«Hai ragione, sei tu che non vuoi liberarti.»

«Non capisco, dov'è il problema?»

«Il problema è che questo tuo modo di fare ti sta allontanando sempre di più dalla realtà. Sottrai il tempo alle persone reali per destinarlo a quelle che non esistono.»

«Quel rifugio mi protegge.»

«Ti sbagli. Ti imprigiona, paralizzando le tue emozioni. Ti obbliga a vivere in una realtà fatta di abitudini immutabili, divieti, percorsi prefissati che ripeti ogni giorno in modo maniacale. Ma è una cosa che senti di dover fare. Una necessità di cui non puoi fare a meno, perché ti rassicura. Devi smettere di voler controllare sempre tutto e di fare la dura, come se niente ti potesse scalfire. Questo atteggiamento impedisce il dialogo interno con te stessa.»

«Non è facile.»

«Non è facile, lo so. Ma devi provarci. La tua è una difesa fobica che ti regala soltanto l'illusione di poter controllare il problema, evitando tutte quelle situazioni, luoghi e oggetti che tu consideri pericolosi. Ne trai un lieve sollievo, evitandoli. E' vero. Ma quanto dura questo sollievo? Intanto, la paura continua ad agire contro di te. La tua paura di avere paura sta limitando la tua vita, prima o poi ti impedirà di compiere anche le azioni più comuni come uscire di casa, andare in bici o entrare in un negozio.»

«Questi gesti li compio ogni giorno, senza alcuna difficoltà.»

«Apparentemente, senza alcuna difficoltà. L'ansia e gli attacchi di panico ne sono la prova. Fuggi lontano dal problema-pericolo e ti senti meglio. T'immergi in un mondo parallelo, che solo tu conosci. Separato dalla vita reale da un muro invisibile, su cui fai scivolare via le tue emozioni. Tu non ascolti veramente chi ti parla, non guardi con attenzione ciò che vedono i tuoi occhi, non ti lasci toccare dal calore delle persone che affettuosamente ti circondano. Preferisci stare da sola e renderti invisibile al resto del mondo. La paura non vuole che ti trovi faccia a faccia con la verità. Una verità scomoda, dolorosa che sa che ti farà soffrire. Per questo, continua a tenerla lontana da te.»

«Non è possibile.»

«Non puoi negare l'esistenza di qualcosa che porti addosso ogni giorno, come un abito cucito su misura. Il tuo viso, il tuo sguardo, la tua postura, tutto di te è velato da un'espressione di sofferenza. E' come se fossi attanagliata costantemente da potenti artigli che ti stanno facendo a pezzi. E ti senti morire.»

«Morire», la sua voce ridotta a un sussurro.

«È veramente questo quello che vuoi? Scomparire? Cancellata per sempre dalla tua paura?»

«No.»

«Bene, allora rilassati e prova a parlarmi di questi ragazzi che tormentano il tuo sonno.»

«Gli ho rivisti di recente, ma non stavo dormendo. Stavo guardando un film. Un horror. Ho visto un pugnale ricoperto di sangue ed è successo.»

Buio.

Il suo respiro riecheggiava, cupo, smorzato.

Un tunnel.

Ecco dov'era.

Muoveva i suoi passi lentamente, strisciando contro una parete dura e fredda, tenendo lo sguardo basso. Improvvisamente, udì delle voci deboli che, man mano che procedeva, diventavano sempre più forti.

Assordanti.

Inquietanti.

Portavano con sé dolore. Paura. Disperazione. Rabbia. Le parve di vedere uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Accelerò il passo e raggiunse l'uscita. Un sole splendente l'accecò e avvampò dal calore che sentiva irradiarsi sulla pelle; l'odore del mare l'investì, mentre infrangeva con furia le sue onde contro gli scogli. Dopo le rocce, la prima cosa che vide fu la sagoma slanciata di un ragazzo. Era di spalle e un soffio di vento gli accarezzò i capelli, probabilmente aveva avvertito la sua presenza, perché si girò prima che potesse aprire bocca. Le si strinse la gola, non riusciva a respirare. Il cuore sembrava impazzito, per quanto scalpitava. Aveva la sensazione di conoscere quel giovane, ma più si sforzava di ricordare, più sentiva lo stomaco contorcersi, come un boa che stritola nella sua morsa se stesso.

D'un tratto, altre due sagome gli si affiancarono. Serena lanciò uno sguardo inquieto al ragazzo e vide la tensione nei suoi occhi accesi, mentre fissava i nuovi arrivati. La paura comparve al suo fianco, con la sua tempestiva difesa da bodyguard, quando il volto di quel ragazzo si chiazzò di sangue. Chiuse gli occhi, nel tentativo di cancellare la scena inquietante di quel thriller proiettato nella sua testa. Quando li riaprì, c'era ancora. Il regista aveva urlato lo stop, per non darle modo di perdere le scene successive. L'orrore del volto di quel ragazzo continuava a perseguitarla, come i suoi occhi vitrei che la guardavano in un saluto d'addio.

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