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Il cuoco

Dedicata a tutti i cuochi infelici!

"Due medaglioni di maiale con purè di patate e salsa roastbeef al tre!"
"Quattro taglieri nostrani al tavolo quattro."
"Trofie al pesto al sette!"
"Doppia tarte tatin al due, tre babà al cinque."
"Tortelli speck e porro, sei porzioni, al dodici!"
"Altro?"
"I complimenti."
"Ah, bene, la carta igienica."

Il cuoco si tolse il suo cappello, si asciugò la fronte, madida di (disperazione?) sudore, e si posò sullo sgabello per qualche secondo. Il locale era affollato, popolato da una densa turba di clienti dalle spocchiose esigenze. I piatti serviti sulle loro tavole erano gustosi, succulenti, abbastanza persino per i loro palati viziati, per i loro gusti schizzinosi.
Era gente all'incessante ricerca di cotture innovative, complesse, di ricette costruite con tante di quelle preparazioni da far perdere il senno al pover'uomo che le realizza.

Ma al buon cuoco non importava nulla di tutto ciò. Esprimere il suo pensiero attraverso la cucina? Sia mai! Sfoderare la sua visione del mondo con dei piatti, imprimere la sua sensibilità negli ingredienti? Meglio lasciar perdere. Tra i suoi colleghi v'erano uomini formidabili. Alcuni di loro erano persino in grado di descrivere le piogge dell'ultimo diluvio con una marinara, di incarnare le danze sismiche e gli incalzanti tamburi dell'apocalisse con un branzino. Nelle cucine rivali lavoravano mostri capaci di trasmettere l'intensa forza di un fulmine, di far assaggiare al cliente il lampo, l'imbianchino dei cieli più iracondi, con un cous cous al nero di seppia e caciocavallo.
C'era chi, chiudendo gli occhi, aveva visioni di mondi idilliaci, di fanciulle in fuga, di linee disegnate nel deserto. E poi progettava le portate del menù col chiodo fisso di riprodurre il folle volo pindarico nella mente bacata del cliente, nell'esatto attimo in cui la forchetta si posava sul palato, guidando l'assaggio alla lingua.

Ma non lui, non quel cuoco. Eh sì, se parlassi di persone a posto con la loro esistenza, sarei uno scrittore noioso. Serrando gli occhi, il mio cuoco sentiva le mosche ronzargli attorno ma non riusciva a vedere nulla, se non le sue stesse palpebre. E non gliene poteva importare di meno. Neppure gli piaceva cucinare, per quanto fosse discretamente bravo.
Il vento, un bel dì, lo aveva spinto a quel locale, e lui aveva accolto l'invito, seppur con qualche riserva. Così poté superare la disoccupazione e uscire dalla buia caverna in cui aveva annegato svariati mesi del suo tempo.
Era tornato alla luce, finalmente, dopo tanti giorni.
Ne fu subito lieto, entusiasta.
Il dolore della disillusione si acuì quando il nuovo Sole si dimostrò un falso. Lo abbagliava, sì, ma era  una squallida lampadina dentro un'altra caverna, ancora più cupa e fredda dell'altra.

La cucina non faceva per lui, come tante altre cose. Sbagliando si impara, sì, ma lui aveva appreso soltanto di essere negato per una marea di mestieri.
Era stato muratore. Era stato commesso. Era stato buttafuori. Era stato persino pittore e poeta.
Ma i suoi muri erano pieni di buchi, negli scontrini mancavano i prezzi, le sue liriche nascevano prive d'anima.
In fondo a sé, non era nulla di tutto ciò.
Era incerto su cosa fosse.
Era incerto su cosa essere.
Forse, un cuoco?

L'uomo (e penso di parlare a nome di tutti) ha bisogno di trovarsi un suo posto, una propria maschera sul palco del grande teatro, una sedia in questo nostro atomo opaco del male. Lui si era perso, la sua non l'aveva mai trovata. Ancora la cercava?

No. Il ristorante, la cucina era un ultimo tentativo, un'ultima cartuccia di un revolver quasi rotto.
Anche stavolta aveva mancato il bersaglio.
E abbandonò l'arma, lasciandola precipitare e sprofondare nella polvere. Cos'altro gli rimaneva?

Lì, posato sulla sgabello, il cuoco non sentiva più nulla. Si era isolato da tutto, mentre attorno a lui risuonava il gran frastuono delle cucine, il cigolio delle porte a vento, aperte e poi chiuse dal viavai dei camerieri, il baccano dei commensali, le risate, lo stridore metallico delle posate sbatacchiate l'una contro l'altra dallo sguattero, nell'acquazzone che fluiva nel lavello. Il pesce fritto pigolava nell'olio bollente. Il cuoco teneva gli occhi serrati, i timpani gli riferivano tutto ma non li voleva ascoltare. Attorno a lui tutto era ovattato, sfocato e offuscato. Era come se fosse in una bolla, in cui viveva da solo con i suoi pensieri, galleggiando sul resto del mondo, da cui gli giungeva un sottile vocio, flebile, tenue e smorzato, mescolato con gli altri rumori che echeggiavano nel locale, coagulati in un sottofondo musicale a stento percepibile. Il resto del personale lo chiamava, lo scherniva sguaiatamente, in una goffa serie di schiamazzi e risa, ma per lui non esisteva nulla oltre la sua bolla.

"Chef, sei dei nostri? Abbiamo sei tavoli che aspettano solo di poter mangiare!"
"Lascialo perdere! Tanto, se la vede lui con il proprietario!"
"Faccia come gli pare, affama i clienti ogni sera ma i complimenti gli giungono in ogni caso."

Senza minimamente curarsi di quelle parole, il cuoco aprì gli occhi, deciso sul da farsi. Si levò dallo sgabello, scaraventò nel vuoto la spatola (colpendo uno dei cari colleghi) che ancora stringeva tra le dita e si disse licenziato. Non volle sentire nulla, né proteste né commenti. Non domandò la liquidazione, ché comunque non l'avrebbe avuta, né la sua fetta delle grasse mance della serata. Prese la porta sul retro e se ne andò.

Passeggiava al buio, tra i faggi del parco cittadino, lontano dalla Luna, coperta delle foglie.
Tra i cinguettii degli uccelli notturni cercava forse una via per quella vecchia caverna, per quell'antro sperduto, in cui rintanarsi fino a morire di fame. Era questo il suo nuovo obiettivo. L'ultimo desiderio di un uomo privo di sogni.

Purtroppo per lui, persino l'oblio lo rigettava. Non ne era fuori ma nemmeno più parte. Lui era il figliol prodigo, ma l'abisso non è mai un buon esempli biblico. Chi lo abbandona non torna indietro. E il cuoco s'era smarrito per l'ennesima volta. Nel bosco, scurito dalla notte, il sentiero non c'era più. Sperando di imboccare proprio quello giusto, di ritrovarsi proprio in quella sua accogliente caverna,  scelse un percorso a caso.
Poi, il vento gli fu nemico. All'uomo con lo sguardo sognante rifiuta di dare una mano, al cuoco spento e deciso a darsi per vinto offre un'altra occasione. Perché il destino è come un croupier, ti invoglia a giocarti anche la casa che hai perso. Stanotte, il vento gli porse la mano vincente. Fu una fregatura? Forse, ma magari ne parliamo un'altra volta.
Di fatto, il cuoco s'imbatté in una nuova luce. E non era quella del Sole, perché era quella della Luna.

Tra i rami degli alberi, sotto il verde pianto dei salici, tra le foglie e i fili d'erba, inumiditi dalla brina di inizio primavera, si apriva una radura. Al centro c'era una panchina. I suoi piedi di vecchia ghisa, in parte arrugginiti, riflettevano sul suolo bagnato il candore dei raggi lunari.

Una paesaggio niente male, incupito dai singhiozzi di una donna e dal canto di un merlo improvvisatosi poeta.
Calcato in testa, indossava (la donna, non il merlo) un largo capello di feltro color nocciola, e stringeva in mano un mazzolino di rose gialle e appassite.
Dai due occhi, immensi deserti dalle dune color cioccolato, le lacrime scendevano a irrorarle le guance, mentre il vento le arricciava i lunghi e folti capelli castani, con le sue carezze.

Il cuoco rimase genuinamente di stucco. Non ebbe parole da pronunciare, si sedette accanto a lei e rimase in silenzio.
La donna non capì, si chiese se lo conoscesse e riversò il suo sguardo in quello dell'uomo. Lo trovò perso in sé stesso, in una prigionia infernale che nessun altro avrebbe potuto vivere.

"Chi è lei?"
"Se lo sapessi almeno io, le darei una risposta. Ma non la ho, né per me né per lei."
"Ha perso il senso della sua vita?"
"Non l'ho mai trovato. E non ho più voglia di girovagare in questa caccia al tesoro per cercarlo."
"Siamo molto simili, io e lei, sa? Un motivo per esistere l'avevo, ma questi fiori me lo hanno portato via."
"Non le piacciono le rose gialle?"

La donna diede loro un'altro sguardo, e si convinse che fossero l'incarnazione del tradimento, figlie di un amore strozzato dall'infedeltà.

Un'altra lacrima le rigò il viso.

"No. Le odio."

Le scaraventò al suolo, urlando contro la Luna e contro i cieli, disperata.

"Amavo e mi bastava! Dove nasce quest'odio?"
"Da quell'amore, forse?"
"Tolga pure il forse."

E cadde su di loro un silenzio ermetico, cupo e drammatico, a tratti interrotto solo dalle litanie del pianto. Il cuoco, imbarazzato dalla scena, pensò bene di svignarsela, ma quando alzò gli occhi al cielo notò la Luna, immensa e immersa in una cornice di stelle. La trovò magnifica, stupenda, e non riuscì a staccare lo sguardo da lei per diversi minuti. La sua luce non era riuscita a raggiungerlo, a lambire teneramente il suo volto per molti anni. Un brivido lo scosse.

La donna, le gote ancora umide e un bagliore malinconico nelle pupille, scoprì il cuoco improvvisamente calmo, fermo in una placida serenità. Prima tremante, fremeva all'idea di tornare ad abbandonarsi laddove niente e nessuno lo avrebbe potuto più disturbare. Prima gli gridavano gli occhi, sbraitavano, ragliavano, straripanti una mesta disperazione, mentre le labbra piangevano il lutto dell'ennesimo mestiere fallimentare. No, adesso era subentrato il dono della pace.

"Lei ha mai passato un'intera notte con la Luna?"
"No," rispose la donna, con voce tremante, sbigottita dal repentino cambiamento nei modi del cuoco.
"Io l'ho fatto spesso, da bambino. Con mia nonna salivamo sul tetto e, lì seduti, miravamo il cielo. La Luna placava le  ansie, affogava la fame e ogni altra preoccupazione nella quiete notturna, con il suo volto angelico."

La donna posò il suo sguardo sul tanto amato satellite. Bastarono pochi minuti di religiosa contemplazione. La donna si dimenticò di tutto, del tradimento, delle rose, del suo seccante amore. C'erano solo lei e la Luna. E quel bizzarro cuoco.

"Quindi, non le piacciono le rose gialle?"
"Decisamente no."
"Non le piacciono le rose gialle, ma altri fiori ne gradisce?"
"No, non sono la mia passione."
"E i fiori di zucca, invece?"
"I fuori di zucca?"
"Sì, panati nella pastella e fritti."
"Dovrà scusarmi, ma non ho idea di cosa lei stia parlando."
"Ma come sarebbe? Dobbiamo porre riparo! Se mi concede una mezz'ora del suo tempo, le farò assaggiare una delle cose più esaltanti mai ideate dall'uomo."
"Lei è un cuoco?"
"No!" Esclamò il cuoco, con ancora indosso la casacca bianca e il caratteristico cappello conico.

La Luna aveva compiuto la sua magia. Scontenti dei loro giorni si erano incontrati, tanto allegri se ne andavano.

"Mi segua! La tirerò su di morale."
"Non è più necessario. Se n'è occupata la Luna!"
"Oh, ne sono lieto."
"Ma la seguo volentieri, mi ha messo curiosità."
"Molto bene! Si fidi, non se ne pentirà!"
"E lei?"
"Io? Cosa intende?"
"Anche lei ha cambiato umore, di punto in bianco."
"Oh, ha ragione. Neppure me ne sono accorto! Come posso spiegarmi? La vita è un biscotto e se piove si scioglie. Ho vissuto in un temporale per troppi anni, ma adesso il cielo si è spalancato e mi ha mostrato la soluzione, immersa nella luce!"
"E quale?"
"Mi spremevo e mi sforzavo per capire quale fosse il mio ruolo, il mio posto, la mia destinazione in questo folle viaggio."
"E l'ha trovato?"
"No. Ma serve così tanto una meta?"
"Direi di sì! E dove va, altrimenti?"
"Intanto si parte, si va dove piace alla Luna. Stasera, mi ha condotto fuori dalla caverna."
"Non la capisco, ma forse ha ragione."
"Non lo so e non mi interessa! Andiamo, ora, il resto lasciamolo a domani!"

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