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L'anima in corsivo

La luce si accende ogni giorno alle 9.30, con puntualità.

Un brivido, ed ecco che il tocco preciso dei suoi polpastrelli si fa sentire leggero, danzante: non mi muovo, ma lo sento palpitare su di me, a tratti più frettoloso, a tratti esitante. Le unghie mi graffiano soltanto raramente, so che non vuole farmi del male nemmeno negli attimi di frustrazione; si appresta a lavorare.

Passa il tempo, e sulla scrivania si accumulano documenti su documenti, principalmente scritti, sì; scritti in un elegante carattere corsivo che soltanto lui riesce a leggere, lo cambierà appena i frammenti saranno completati, cuciti insieme. Non vuole irritare di nuovo il suo editor, già stizzito per l'ultima mail: ritarda sempre la consegna definitiva, ma posso capire il suo perpetuo rimandare. Non vuole staccarsi da lei.

Lo guardo attraverso il vetro, in silenzio: è il mio scrittore, l'uomo che resta con me fino alla fine della mattinata, lasciandomi solo dopo aver riprodotto sempre la stessa musica fatta di struggenti note al pianoforte. È triste, venata di malinconia: lui, tuttavia, sorride ogni volta che la melodia raggiunge il suo culmine, mentre chi la suona muove con più veemenza le mani gentili sopra la tastiera bianca e nera, la stessa, in fondo, che anche lui suona, battendo lettera su lettera i caratteri dell'ispirazione.

Ho trovato altre volte quel viso dolce, di passaggio in più d'una fotografia: sfugge sempre ai bordi delle immagini, ammiccando, l'espressione un po' schiva e un po' ribelle scomposta in una miriade di pixel frantumati dalla bassa qualità dei ritagli; sono vecchie scansioni, in fondo, com'è vecchio e rovinato quel video, in equilibrio sul filo di un ricordo che non rischia di sfumare.

Rivedo un barlume di luce anche in altre ore del giorno, quand'è festa, quand'è domenica: di solito succede la sera, quando ha ancora voglia di musica – soltanto della sua. Sono armonie diverse, intrecciate ad altri strumenti; fra tutti, però, risalta sempre il pianoforte, appassionato, impavido, sempre diverso da com'è lei. Ma la musica gliela ricorda, certo: esprimeva tanto di quello che sarebbe potuta diventare, se fosse vissuta.

Nei giorni, le cartelle crescono di volume, capitolo per capitolo. Al pomeriggio lavora altrove, ma non c'è creatività nel mestiere che svolge. Tutta la passione e le emozioni che vibrano nelle corde del suo cuore si riversano qui, all'interno del capolavoro che cresce riga per riga, inciso nella mia infallibile memoria. Ricordo ogni paragrafo, ogni titolo, ma oggi accadrà qualcosa di diverso: qualcosa che renderà lo scritto più fedele all'idea che gli ha dato vita.

Lo registrerà.

Gli darà la sua voce, ed eccolo già al microfono, pronto a premere "Play" sull'eterno concerto da solista di quella presenza che non chiama mai per nome: il suo nome è in quella musica,  scritto dietro ad una chiave di violino, e danza come le dita del padre sulla tastiera, danza come forse non ha mai ballato lei, viva, felice, all'interno di queste nostre mura.

Il sottofondo per la registrazione sarà quello spartito, almeno all'inizio. L'inizio è stato composto proprio a ridosso della fine, ed è fatto di nostalgia: di anime che si cercano nella notte, nei sogni, nei ricordi e nelle fotografie, nell'alito di vento che gli scompigliava i capelli quand'era chino a piangere su questo tavolo di legno chiaro. Il dolore è stato un compagno fedele per molto tempo, ma molto di quel dolore è stato lentamente cancellato da un pensiero. Da un dono, un dono d'addio.

Ogni musica che ho sentito procede, incalzante, nel ricordo della bellezza: delle risate, dei compleanni, di un bacio sulla guancia e di nuove, giovanissime amicizie; di un fiore in boccio che ha sempre conosciuto una sola stagione, la più bella, mostrando i colori di una rosa alla sua primavera.

Le pagine prendono la forma del suo viso sbarazzino, di un sorriso spavaldo, di un profilo che nascondeva la timidezza: cadono a terra come petali appena la stampante finisce di mormorare quelle poche parole, le prime, le ultime di una storia che nasce per lei.

A mia figlia.

L'editor ha risposto con una messe di lodi, tanto enfatizzate da essere persino fastidiose: vuole che venga pubblicato, lo vuole al più presto.

Il carattere, nella stampa di casa, resta il corsivo impossibile a cui mi sono affezionata; il dattiloscritto e le sue grazie intrecciate verranno lasciati in uno scrigno a mezza coda che da troppo tempo non viene accordato. La polvere, però, non osa posarsi sulla sua superficie.

Lui sta riascoltando la registrazione, vuole essere sicuro che sia perfetta: la sua voce calda trema un poco, nel ricalcare le prime sillabe, ma prosegue senza arrestarsi mai, coraggiosa. Glielo deve.

Chiude gli occhi, raggiungendo la fine: questa volta ha un sapore diverso, quella parola.

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Non posso vedere il libro sugli scaffali, ma online, negli store digitali, il suo nome compare spesso in cima alle classifiche: so che non gl'interessa, come non gl'interessa la proposta di doppiaggio arrivata inaspettatamente fra le lettere di altri padri, di altre mani alla ricerca di una musica da suonare, ciascuno a modo proprio. Un giorno è arrivato un dipinto, una sola riga di testo in chiusa: io la ricordo così.

La luce si accende anche sul suo viso, ora. Sa che il dolore non lo abbandonerà mai del tutto, ma è felice, ha mantenuto una promessa.

"Mi racconti una storia?"
"Certo, piccola. Quale vorresti sentire, oggi?"
"Una mia! Inventa una storia per me"
"Un giorno la scriverò, bambina, vedrai. Scegline una tra quelle di mamma, per ora".

Erano serviti troppi anni, e non l'aveva inventata. Ma era pur sempre la sua storia, quella, così come lui è il mio scrittore. Io, invece, sono il suo computer.

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