9. INCONTRARSI
Thomas scansionò al computer il viso dello sconosciuto, una sera di ritorno dal lavoro. Poi diede l'avvio alla stampante. Nello stereo girava Ferment, e lui canticchiava Black Metallic impilando i fogli quando uscivano, ancora caldi.
Sul viso allungato del disegno, che aveva l'austerità di una statua antica, spiccavano spesse labbra chiuse e occhi infossati sotto l'osso orbitale. Il ragazzo portava un orecchino piuttosto grande al lobo sinistro.
«Uno studente, forse, o uno sbandato. Con questo aspetto non poteva svolgere un lavoro di responsabilità in certe aziende. Magari era un musicista.» Per un breve istante, Thomas avvertì un moto di comunione con lo sconosciuto: anche lui aveva azzardato desiderare, all'inizio della sua vita adulta, di vivere di musica. «Mark non ci ha detto come vestiva. A quale anno apparterrà? Sarà l'ennesimo morto con una storia irrisolta?» Si alzò, s'infilò una giacca leggera di pelle degli anni Novanta, spense lo stereo e lo fissò aspettandosi che si riaccendesse. Attese per qualche secondo e prese il malloppo di fotocopie. Eddy dormiva sulla poltrona, gli diede una carezza e uscì.
Scese le scale e salutò la signora White, che guardava giù dalla balaustra. La signora White non rispose: forse non l'aveva sentito o l'anzianità la rendeva sorda. Thomas non ripeté il saluto, accelerò il passo e dopo qualche scalino sollevò il viso. Lei era ancora lassù, aspettava il marito come d'abitudine, e lo vedeva, lo vedeva bene con i suoi occhiali spessi, ma non diede segno di ricambiare.
Fuori la sera era tersa e ventosa. I temporali di inizio estate non lasciavano strascichi, eccettuata una leggera foschia che comunque era di stanza in città. San Francisco bruciava d'agosto, pensò Thomas, quando lui sarebbe stato a New Orleans a prendersi uno degli uragani che i bollettini meteo preannunciavano fin dal principio della stagione calda.
Affisse il primo volantino al palo di fronte alla palazzina. La lunga fila di auto si snodava dal palo fin dove lui riusciva ad arrivare con la vista, una quasi attaccata all'altra, che digradava con la strada diagonale. Non c'era più l'auto di Carole Slade, e nemmeno il Suv di David Slade che, prima del processo, la Scientifica aveva sequestrato trovandovi alcuni capelli scuri e impronte digitali della ventenne che frequentava in quel periodo. Thomas l'aveva saputo da un quotidiano online, e ripensò ai figli degli Slade mentre camminava. In quel momento gli premeva conoscere il loro futuro e non capiva perché, il suo pensiero si sdoppiava e avevano acquisito importanza questioni che non l'avevano mai interessato.
Erano in due, i figli degli Slade, presenti in aula durante il processo, nel banco in prima fila. Avevano guardato gli apparecchi del paranormale con un'aria incredula, e il maschio sdegnata. Fisicamente il maschio somigliava al padre nella sua avvenenza giovanile.
"Chissà come sarebbe stato avere un fratello". La sua era un'idea sentimentale di supporto reciproco e affetto, dimentica di quale fosse la natura sfaccettata e contradditoria di qualsiasi relazione.
Chris aveva una sorella più grande con cui andava d'accordo, ma ciascuno aveva condotto e conduceva tuttora la vita senza invadere lo spazio dell'altro. Sadie non aveva idea di dove fosse e cosa stesse facendo Chris, e lui, interpellato sulla sorella, rispondeva che non la vedeva da un po' e pensava che se la passasse bene, altrimenti l'avrebbe saputo. La madre li teneva legati evocando nei discorsi l'assente di turno quando andavano a farle visita.
«Non ho mai sentito la mancanza di un fratello» disse Thomas, come se parlasse con qualcuno che gli stava a fianco. «Quando vivevo coi miei, ospitavamo mio cugino, la persona per me più vicina a un fratello.» Il cuore accelerò, e lui ebbe una vertigine. Rimase in piedi sul marciapiede e strinse sotto l'ascella il plico di fogli.
Due fidanzati, nascosti dalla penombra serale che scendeva nel parco, lo fissarono pensando che barcollasse perché era fatto o ubriaco.
Thomas si costrinse a ignorarli, la bocca voleva aprirsi per dire che cazzo guardate. Raddrizzò le spalle ed evitò d'incrociare i loro sguardi. Aveva chiaro in mente cosa pensasse la gente di lui con un viso come il suo. Tempo addietro aveva inquietato anche Elizabeth.
Proseguì; misurava i passi e si fermava per attaccare il volantino su lampioni alterni. I due fidanzati si avvicinarono, Thomas udì i passi sul cemento. Si fermarono a guardare il viso disegnato.
«Non è un cane smarrito» disse lei con una voce sottile.
«Hm, no, pare di no.»
«Sarà qualcuno che non torna a casa. Qui non c'è scritto il nome, solo un numero di telefono se si hanno informazioni. Tu sai chi è? Lo conosci?»
«Hm, direi di no. Fammelo guardare meglio.»
Thomas vide, con la coda dell'occhio, che il ragazzo avvicinava il viso al volantino, pareva che la luce del lampione non fosse sufficiente. La ragazza tolse di tasca lo smartphone e illuminò il foglio con il chiarore bianco del display.
«No, non è del nostro giro.»
Thomas attese che lo chiamassero per fargli delle domande, ma quando si voltò i due ragazzi se n'erano andati. Riprese a camminare.
Una donna arrivava verso di lui a passo sostenuto, faceva ticchettare sul cemento le scarpe con il tacco a stiletto. «Ehi, ciao! Ehi, non mi riconosci?»
Thomas, che l'aveva superata, si fermò.
«Tom. Da quanto tempo! Non mi hai più chiamata.»
Thomas abbozzò un sorriso. Non aveva accettato di rivederla l'ultima volta, per lui bastava. A certa gente nemmeno se li prendevi a schiaffi riuscivi a fargli arrivare il messaggio. Scosse la testa. «No.»
«Cosa fai?»
Thomas fu evasivo, poche parole misurate. «Tu?», chiese, ligio alle norme sociali di cortesia.
«Ho appena finito di lavorare. Ormai dentro è rimasto solo il ragazzo delle pulizie. Oggi sono andata in tram, era una giornata talmente bella che ho lasciato la macchina in garage. Torno a casa a piedi, almeno finché non mi stanco. Queste scarpe maledette mi uccidono.» La donna volse gli occhi verso il basso e provò la stessa sensazione di quando le aveva viste per la prima volta: piacere e felicità che fossero sue.
«È pericoloso per una donna camminare di sera quando non c'è in giro nessuno.» Amy tornava spesso a casa da sola, a sera inoltrata o a notte fonda quando usciva dalla casa della Signora.
La donna socchiuse gli occhi. «Mi sa che abiti qui vicino.»
«La palazzina là in fondo, oltre gli alberi, quella bianca.»
«Un bel quartiere tranquillo.» La donna sorrise e chiese: «Almeno ti ricordi come mi chiamo?»
«Nicole.»
Lei sorrise di nuovo e si toccò i capelli, ci passava le mani in mezzo e lisciava verso il basso una massa nera e setosa che le pesava. Thomas conosceva il gesto, precedeva una richiesta. Era successo quando lei aveva abbandonato le amiche al locale e l'aveva seguito fuori. Non avrebbe dovuto farlo, adesso Thomas ne era conscio. Era una consuetudine rischiosa a cui molte ragazze cedevano, ignorando le conseguenze. Tori Amos venne stuprata a ventun anni da un tizio che le aveva chiesto un passaggio in macchina. Era scritto nell'articolo di un giornale musicale, uno dei tanti che aveva visionato durante il caso precedente. Tori Amos aveva passato la notte, mentre l'ammiratore la penetrava, a cantare inni sacri per salvarsi. Lui le aveva ordinato di farlo, altrimenti l'avrebbe fatta a pezzi con un coltello. Tori Amos si era salvata perché lo stupratore aveva avuto bisogno di droga ed era uscito. Anche Mia Zapata era stata assalita e violentata: per la cantante dei Gits non c'era stata salvezza, come per Amily.
«Ti offro qualcosa, vieni. Ma non voglio fare altro.»
Nicole non rispose. Era agitata, voleva Thomas come la prima volta e si arrabbiò quando seppe che non ci sarebbero stati rotolamenti fra le lenzuola. Storse la bocca senza che potesse controllarlo, poi disse, come se stesse ringraziando qualcuno che le dava un passaggio: «Va bene, grazie».
«Se ti fanno male i piedi ti accompagno a casa con la jeep.»
«Va bene, grazie.»
Nell'appartamento si muoveva odore di sigaretta. «Adesso fumi?» domandò Nicole.
Thomas andò ad aprire la finestra della cucina, a cui era stata montata la zanzariera. «Un mio amico è stato qui oggi pomeriggio. Fuma quando è nervoso.»
Nicole appoggiò la borsa dove Thomas le suggerì, sul tavolino. Era una borsa di marca, piccola, che riusciva a contenere a malapena un mazzo di chiavi. Quando lei lasciò la tracolla si accorse del portafoto col ritratto di Amily, dove la ragazza indossava un giubbotto di pelle sopra una maglietta bianca, una gonna nera e rossa e portava le Dr. Martens ai piedi.
«Chi è? Tua sorella?» Temeva la risposta ma era curiosa, le veniva un disagio nelle vertebre se taceva.
«La mia ragazza.»
Nicole prese il portafoto e osservò da vicino il viso pallido di bambina imbronciata. La ragazza indossava vestiti fuori moda, come del resto faceva Thomas. Spiriti affini, si disse, e la considerazione la nauseò. «Non eri fidanzato quando ti ho conosciuto, vero?» Voleva essere distaccata, ma avvertì il patetismo della differenza d'età. Le amiche l'avevano presa in giro per la sua conquista di quella sera, il toy boy l'avevano chiamato.
«È morta.»
Nicole guardò Amily con un approccio diverso. Un soffio di aria fredda le fece venire la pelle d'oca, sotto la giacca leggera portava un top smanicato. «Che freddo, è sempre così nelle vecchie case, eh? Ho l'occhio da architetto, ormai. Dalla struttura posso dire, con approssimazione, che ha quasi cent'anni.»
«L'hanno costruita dopo il Grande Terremoto.»
Nicole lasciò il portafoto e notò un'altra fotografia in cucina, vicina allo scolatoio. Voleva chiedere come si chiamava, com'era morta. Abbassò gli occhi sulle scarpe nere e vide i graffi leggeri che rovinavano il pavimento di legno. Sbucavano da sotto la poltrona. Prese il caffè per scaldarsi dal gelo che le premeva addosso sul lato destro del corpo, però la tazza era fredda. L'appoggiò sul tavolino e sorrise di nuovo.
«Mi porti a casa? Non ho mangiato e vorrei farmi una doccia.»
Thomas guardò da sopra la spalla di Nicole e vide con chiarezza l'uomo ombra vicino alla parete. Mae gli aveva detto che chi aveva a che fare con le entità non sarebbe riuscito a condurre una vita normale. Era una scelta: se vai di là e torni indietro, niente è come prima. Lo ripeteva il corvo di Lovecraft: mai più, mai più.
«Prendo le chiavi e andiamo.»
.................................
Quando Thomas tornò, l'odore di sigaretta era scomparso. Lo stereo non riproduceva alcuna canzone, ma si accorse che c'era un cassetto aperto in cucina e sopra i pochi coltelli l'ossidiana nera che Brandon aveva trovato durante uno scavo nelle montagne Warner, dov'era per sovrintendere un lavoro di costruzione. Gliela aveva regalata come portafortuna. La rigirò sulle dita e la fece scivolare sul palmo.
Il fantasma non aveva fatto cadere o rivoltato i portafoto.
«Deve essere un indizio, come lo era Goodbye.»
Appoggiò sul tavolino l'ossidiana nera. Andò in camera a prendere la Spirit Box, l'apparecchio che prediligeva. Per misurare le variazioni di temperatura nella stanza si affidava al corpo. L'accese e la lasciò rumoreggiare. Dal cassetto dove teneva il porto d'armi, i documenti relativi al lavoro, alcuni appunti e un numero di telefono, prese dei fogli ruvidi per dipingere con gli acquarelli e l'inchiostro blu che aveva comprato lo stesso giorno in cui lui e Mae avevano fatto visita a Mark.
Appoggiò i fogli sul tavolino e vi versò sopra l'inchiostro, una macchia informe.
«Se ti va, sposta l'inchiostro e scrivi il tuo nome. Hai detto che vuoi che ti ascoltiamo.»
Dalla Spirit Box uscì la parola Ascoltare.
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