8. IL DISEGNO
«Non mi piace prendere permessi per malattia.»
Thomas si sfregò la fronte. Mae guidava lungo la statale 101 a velocità costante, e l'auto avanzò per un tapis roulant d'asfalto bordato di case d'aspetto moderno, schermate da filari di palme, coi marciapiedi puliti davanti agli ingressi. Aveva scelto di chiudere i canali di comunicazione che utilizzava, come Mark Wilson l'aveva istruita, una misura per proteggersi da spiriti che non erano amichevoli. Esaminò il navigatore, mancavano due miglia alle trentatré stabilite per Palo Alto, dove l'ex-amante si era trasferito dopo averle succhiato l'energia che lei si arrischiava a chiamare amore.
Thomas aveva detto che trovava complicato il Mondo Altrove. Mae non era il tipo a cui piaceva discorrere di piani astrali, dei vari livelli, dei luoghi in cui si rifugiava chi non voleva ascendere a conoscere l'Altissimo, ammesso che esistesse. E ultimamente, anche lei vacillava sulla barca della fede. Pur senza vuotare la mente e distaccarsi da sé per diventare il canale attraverso cui l'entità parlava – come una radio per una canzone –avvertiva la presenza di una terza persona seduta sul sedile posteriore. Se si concentrava, il passeggero le appariva nelle sembianze di uomo ombra, senza alcuna fattezza riconducibile alla persona che poteva essere stato, un umano con una voce maschile e profonda.
L'unico particolare colorato che l'uomo ombra le mostrava adesso erano le pietre che teneva in mano. In due giorni gliene aveva fatte vedere quattro, di cui una grossa, sbozzata e coperta di muschio.
"Non è un uomo ombra di quelli che conosco. Di solito si limitano a osservare, non toccano le persone, non provano a possederle. Non voglio pensare a cos'altro potrebbe essere. Un uomo ombra non è malvagio, il qualcosa d'altro sì." Mae pensò a cosa diavolo potesse volere da un vivente, mentre svoltava a destra in una strada stretta, buia d'ombra, e rallentava.
L'auto uscì di nuovo nella luce e attraverso il finestrino abbassato a metà a Mae arrivò una zaffata di asfalto in granuli. Il calore del rullo compressore parcheggiato vicino a un marciapiede investì l'abitacolo spandendo un respiro bituminoso. Uno degli addetti gridò rivolto al collega al posto di guida; due giovani e un vecchio con la barba hipster cominciarono a spalare.
Thomas osservò gli uomini che sudavano nella calura. Sentiva con chiarezza, e nemmeno questo gli pareva un pensiero suo, che esistere era una noia mortale, un ripetersi quotidiano di gesti meccanici, stropicciati. Batté il pugno sul finestrino e disse: «Che vita miserabile!»
Mae lo guardò. Il grande dolore che Amy aveva lasciato in eredità a Thomas, un lascito crudele, lo rendeva un ricettacolo per altri fantasmi tormentati. Così com'era fatta, non avrebbe affrontato il discorso, ma voleva, doveva aiutarlo.
Gli uomini ombra che l'avevano visitata in altri tempi – non succedeva da anni – comparivano di notte, per lo più, in un angolo della stanza in cui si trovava. La coda dell'occhio li catturava per brevi secondi, dopodiché sparivano, e lei era troppo giovane per sapere se fossero gli stessi che venivano e perché. Uno solo di loro d'abitudine appariva di giorno e sostava vicino alla finestra o ai piedi del letto. Era arrivato dopo altri, quando spiriti come lui non le facevano più paura. Indossava un cappello, Mae lo ricordava: era diverso dagli altri umanoidi. Quando una notte, verso le tre, aveva dieci anni circa, gli aveva domandato perché stesse fermo a fissarla, lui aveva parlato con una voce che lei non aveva saputo dire se bella o inquietante e le aveva rivelato: «Guardo».
La vita di una bambina, la stanza rosa e bianca, le bambole, Mae era curiosa di sapere. «E ti piace quello che guardi?»
«Sì.»
Non avevano avuto altre conversazioni, lei capiva che non era giusto tormentarlo. A volte lo salutava e lui si muoveva per ricambiare. Quando aveva compiuto diciotto anni, l'uomo ombra se n'era andato per non tornare più. Come Thomas, anche lei se n'era accorta dopo mesi.
«Non dovremmo disturbarlo» disse Thomas con la sua voce da vivo.
«Gli ho telefonato. Ha accettato.» Una telefona asciutta e anonima, diversa dai toni scherzosi dell'inizio.
«L'ha detto per gentilezza.»
«Se devi innervosirmi con le tue considerazioni, non parlare.»
«Non comportarti come mia madre.»
«Taci.»
«Come ti permetti?»
«Taci, siamo arrivati. Scendi.»
Thomas accompagnò la portiera e scosse la testa a liberarsi di una maleducazione che non era sua. Strizzò gli occhi.
Mae tirò su la testa verso il cielo sopra le colline. Le nuvole si compattavano in un mucchio bianco e minaccioso, in meno di due ore avrebbe piovuto su una città che in luglio non vedeva pioggia. Alcuni spiriti possedevano inquietudini che agivano sul clima, sconvolgendolo, pensò.
I Wilson si erano trasferiti in una villetta dei primi anni Duemila, senza querce intorno ma con un giardino di erba tagliata sul retro. Mark l'aveva detto a Mae dopo che se n'era andato, dopo la diagnosi. "Lo spirito di un medico mi ha parlato nella mente. Ha detto che avrei dovuto farmi controllare il neo sul piede. Ha insistito, non volevo cedere. Poi mi ha detto: 'Mi spiace che non posso fare di più. Avrei preferito aiutarti, ma non posso cambiare quello che hanno stabilito.' Ci pensi?»
Mae bussò alla porta e attese il ciabattare della signora Wilson. Una donna bassa e smilza coi capelli corti e un sorriso cauto aprì e li invitò a entrare. Degnò Mae di un'occhiata neutrale, nascondendo i sospetti che avevano alimentato la sua gelosia per anni. Provava un rancore scarico perché un rovescio del destino l'aveva aiutata a riprendersi il marito senza lottare, discutere e mettersi in ridicolo. Aveva di nuovo un uomo accanto, e soprattutto lui l'aveva scelta di nuovo.
"È stupida, dopotutto", pensò Mae.
«Prego, entrate.»
Mark era seduto sul divano che, nonostante fosse stato rigovernato e coperto da un telo, aveva un aspetto sfatto. Thomas, che tornò in sé appena varcata la soglia, vide un fazzoletto di carta appallottolato nascosto dietro il piedino di metallo. Notò che Mark si stava lasciando crescere i capelli, nonostante la chemioterapia: gli erano arrivati alle spalle, ormai grigi, serrati in un codino sporco. Si chiese se andasse dal barbiere. Magari la moglie glieli tagliava, e i capelli cadevano a ciocche in un secchio di latta messo sul pavimento. Pettinava un uomo che si lagnava per i soldi e che poi ordinava di raccogliere e vuotare il secchio, prima di alzarsi dalla sedia e mettersi sul divano. Strizzò di nuovo gli occhi per pararsi da un'immagine apparsa in un flash.
«Ciao Thomas, ciao Mae.»
La ragazza salutò il medium, si avvicinò e non lo baciò. Si presero le mani, le tennero sospese fra loro, e si sorrisero.
Thomas fece per allungare la sua, ma la ritrasse. «Non so se è prudente. Ho avuto il raffreddore.»
«Se adesso non sei malato non ci sono controindicazioni. Mi servirà per stabilire un contatto.»
«Non sono sicuro.»
«Non preoccuparti.» Mark allungò la mano, strinse quella di Thomas e chiuse gli occhi. Thomas gli fissava la barba ispida, a chiazze, grigiastra. Il veleno della chemioterapia scavava le guance. Avvertì che il medium rinserrava la presa, s'impose di vuotare la mente e lasciare la mano inerte. Rammentò la tecnica di rilassamento dell'insegnante di inglese alle superiori, quando la classe era costretta a rimanere nel pomeriggio per le ore aggiuntive. Lo chiamava training autogeno: faceva appoggiare gli studenti al banco con le braccia lungo i fianchi e la testa sul legno del piano e li costringeva a pensare al movimento delle onde. Il blu confortava.
«Pensi a una cosa blu» disse Mark, e gli lasciò la mano. «Sedetevi vicino a me. Tu, Tom, a destra. Tu, Mae, a sinistra. No, Helen, non servono sedie.»
«Allora io esco a fare la spesa al Save Mart.»
Thomas guardò la donna, i suoi capelli corti, le rughe.
Lei sorrise. «Sì, ci siamo già visti. Fai la guardia giurata, giusto?»
«Oggi ci sarà il mio collega DiGregorio.»
«È un uomo simpatico. Mi ha raccontato la sua disavventura, rideva. Santo cielo, gli ho detto l'ultima volta, come riesce a ridere di un accoltellamento non so.» Prese la borsa rossa che era appoggiata al divano e fece cadere una piccola scatola di cartone. La raccolse e disse, rivolta al marito: «Te le sistemo qui. Ti prendo lo yogurt?».
«Bianco greco. Niente frutta.»
«Le uvette, i muesli?»
«Non sento i sapori, e il cibo aguzzo mi raschia la gola. No, grazie. Prendi le vongole, riesco a sentirle in mezzo alla saliva metallica che ho sempre in bocca.»
«Devi mangiare. Sei sicuro che funzionino?» La donna indicò la scatola che aveva posato sul divano.
«È l'unica cosa che mi fa venire fame.»
La donna sorrise di nuovo tirando le labbra senza trucco, baciò il marito, salutò i ragazzi, aprì e richiuse la porta.
«È un maschio, uno giovane.» Mark si appoggiò allo schienale del divano e prese la scatola. L'aprì e ne trasse una sigaretta rollata a mano.
Thomas socchiuse gli occhi. Di nuovo un'immagine, come se qualcuno d'invisibile gli scattasse fotografie con il flash: stavolta era un tavolo con sopra delle cartine, un barattolino di metallo e un mucchietto di erba pressata.
«Sì, è marijuana. La legge è del Novantasei. Non c'è bisogno che dica che allevia i dolori.»
«So che è usata a scopo terapeutico. La legge che disciplina la vendita e l'uso a scopo ricreativo è passata, potresti fumarla comunque. E non sono un poliziotto.»
«Smisi di fumare quando Helen rimase incinta di Wilton.» Mark accese la canna, la fumò a boccate rapide, nient'altro che l'ennesimo dovere, e l'ultimo pezzo lo schiacciò nel posacenere di plastica dentro la scatola. Lasciò intorno a sé un odore di mirtilli. Rimise il tappo e cominciò a far danzare le mani nell'aria come era abituato a fare.
Mae lo ammirava, l'aveva aiutata in molti modi in passato. Per lei era un medium quasi perfetto, uno che con la sua forza rasserenante non offriva nessun accesso agli spiriti affamati di pensieri violenti, che concedeva le preghiere e la luce che le entità cercavano. Un uomo buono, paziente e protettivo. «Riesci a vederlo?» chiese.
Mark smise di muovere le mani e guardò fisso davanti a sé. «Da quando sono malato vedo chiaramente i particolari. Li vedo, facce e abiti, anche di quelli che una volta erano sfocati. Sono più vicino a loro, adesso.»
Mae deglutì senza distogliere lo sguardo.
Thomas serrò le mani che teneva appoggiate alle ginocchia. L'aveva detto anche allora, all'insegnante, che l'intermezzo di training autogeno non serviva a nulla. Era stanco come prima e dietro le palpebre nere era difficile immaginare il blu.
«Puoi passarmi un foglio, Mae? È lì sul tavolo, ho detto a Helen di prepararlo. C'è la matita? Bene, portameli qui, per favore.»
«Ti serve un appoggio.»
«Prendi un libro, lì dallo scaffale.»
Mark cominciò a definire le linee su un foglio. La figura che aveva in mente si disfaceva al pari di un gomitolo in linee invisibili che uscivano nell'aria a congiungersi con la matita, percorrevano la lunghezza del bastoncino, uscivano dalla punta della mina e rimanevano impresse sul foglio.
Thomas e Mae seguivano con curiosità il formarsi di un viso con la chioma che scendeva sforbiciata e mossa sotto le orecchie.
Mark disegnò una freccia sul foglio e scrisse Capelli rossi in una grafia tremante. Le dita stringevano per impedire alla mano di arrendersi all'alterazione nervosa causata dai farmaci. Sforzandosi, una bolla di sangue gli uscì dal naso. Dovette interrompersi per asciugarla.
«Dov'è? È qui nella stanza?» chiese Mae.
«È seduto a gambe incrociate vicino a Tom.»
Thomas guardò il vuoto di fianco al bracciolo. Era cosciente che non aveva né avrebbe mai avuto la capacità di percepire altro che freddo intorno e, a volte, un odore. «Puzza di sigaretta.»
«Fumava.»
«Non voglio che fumi vicino a me.» Thomas non disse perché, non all'uomo affianco che aveva il cancro. «E non deve fumare in casa mia o lo aspergo di acqua benedetta e fine.»
La punta della matita disegnò un arco, un'iride e una pupilla. «Occhi azzurri, molto chiari.» Il viso riprodotto aveva un'espressività smarrita. Il disegno fissava gli osservatori senza vederli.
Mae pensò, senza dirlo, che l'uomo ombra era un tipo attraente.
Sulla fronte di Mark si formò una ruga. «Dimmi il tuo nome.» Appoggiò la matita sul divano, che rotolò nella fessura fra due cuscini. «Cosa significa il sasso che hai in mano? Erba? Menta.» Restò in silenzio per un po'. Alla fine spostò gli occhi su Mae. «Non ce la faccio, ha assorbito troppa energia. Per favore, portami in bagno.»
La ragazza lo aiutò ad alzarsi.
«Thomas, ho lasciato il registratore sul tavolo. Prova a fare una sessione.»
Dopo essersi industriato a capire il funzionamento e premuto il tasto REC di un Panasonic RR-DR60, Thomas udì la risacca dei conati dietro la porta chiusa e spostò l'apparecchio di modo che la registrazione non venisse intaccata.
I due medium tornarono dal bagno dopo alcuni minuti, con Mark che metteva un piede avanti all'altro con estrema cura e annuiva verso Thomas, che lo ricordò atletico e robusto nell'atto di scendere le scale della palazzina dopo aver terminato il censimento, e mentre gli voltava la schiena per condurre una Mae stremata nel suo alloggio a Mission Street.
«Proverò a contattarlo di nuovo.»
«No, aspetta, lo farò io.»
Mark passò il disegno a Mae, che prese il foglio e lo diede a Thomas. Mae fece stendere Mark sul divano e lo coprì con una coperta patchwork di lana pesante. Il movimento sollevò un nugolo di peli chiari. Si accorse solo allora che mancava il cane. Non lo chiese.
«Provate con l'inchiostro.»
«Una soluzione inutile» disse Mae con disprezzo.
«Provateci comunque. Poi telefonami per dirmi com'è andata.» Quasi subito Mark si addormentò nel tepore della coperta.
Thomas lo scrutava e sudava nella camicia a scacchi leggera. Nel soggiorno aleggiava l'odore di sigaretta del fantasma mescolato alla marjuana, al fetore di uno spazio che non veniva areato da parecchio e all'olezzo di un malato. Si sentì meglio quando la signora Wilson tornò e lui e Mae poterono levarsi dal capezzale di Mark.
Fuori vennero investiti da un groppo di vento polveroso che aveva l'odore delle sequoie. Mae si asciugò la fronte con il dorso della mano; c'erano davvero molti spiriti che si ammassavano nel salotto dei Wilson, e dei molti alcuni erano parenti di Mark, li ricordava nelle fotografie in un tempo di confidenze notturne. Senza preavviso si mise a piangere in silenzio.
Thomas si accorse che la medium non camminava al suo fianco e si voltò. Mae stava sul ciglio del marciapiede. Non le disse parole di consolazione, sapeva che lei non avrebbe voluto. Era selvatica, Mae, un uccello cresciuto in un bosco. Ma le si accostò, le mise una mano sulla spalla e bisbigliò: «Almeno saliamo in macchina, così non ti vedranno».
Thomas si mise al posto di guida e chiese le chiavi. Chiusero le portiere quando metà della strada veniva tagliata dall'ombra e l'altra metà era rischiarata da un sole perlaceo. Caddero le prime gocce di pioggia, ticchettarono sul parabrezza, sassi. Mae continuò a tirar su col naso e a soffiarselo, e andò avanti per un'altra decina di minuti dopo che Thomas ebbe acceso il motore e percorso un tratto di strada.
Il piovigginìo mutò in un acquazzone che scese in un fronte compatto, un velo che nemmeno i tergicristalli potevano rompere. Thomas avvertiva un'oppressione al centro del petto e a volte emetteva un sospiro rumoroso per accertarsi che i polmoni funzionassero. Non aveva mai provato un terrore simile con Amily, sentire dentro di sé gli organi di pietra. «Cosa intendeva con la storia dell'inchiostro?», riuscì a sputare.
Mae si soffiò il naso e piegò in quattro il fazzoletto. Cercò nel cruscotto quelli di carta e, in un fruscio, estrasse un foglio stropicciato.
«Non hai mai letto di Kardec e della scrittura automatica?»
Thomas sfogliò nella mente il libro sullo spiritismo che aveva comperato due anni addietro.
«Sì, la scrittura in stato di trance. Si lascia il braccio inerte finché si muove da solo, ma mi pare non sia utilizzato, non è infallibile. C'entra la dissociazione, eventuali problemi mentali del soggetto.»
«Nell'Ottocento era un metodo per comunicare, i ciarlatani gli hanno tolto credibilità. Se si riesce a raggiungere uno stato fra il sonno e la veglia si possono ricevere messaggi da riscrivere.»
«Quello che hai fatto tu con la targa dell'auto noleggiata da David Slade.»
«Mark però intendeva un'altra cosa. Di sera si versa dell'inchiostro su un foglio e si va a dormire. Almeno così hanno insegnato a me. La mattina si controlla se l'entità ha manipolato l'inchiostro per disegnare un viso o scrivere delle parole.»
«E funziona?»
«A volte.»
Mae represse un singhiozzo. Non era tristezza, bensì proveniva dalle contrazioni involontarie del diaframma. Thomas si volse verso di lei premendo il piede sul freno. L'auto rallentò e si fermò sul bordo della strada per attendere che la furia del clima si placasse.
«Mi succede sempre, non spaventarti.»
Thomas si sfregò il viso e toccò il naso con l'anello che aveva all'anulare. Torturò l'anello col pollice, il braccio sinistro posato sul volante.
Mae si mise una mano sulla bocca. Gli spiriti amorevoli che circondavano Mark, e con la postura gli comunicavano una partecipazione nelle tribolazioni della malattia, erano diversi dalle figure umane allucinate nelle stanze dei malati. Avrebbe preferito fossero fatti in quel modo, gli spiriti che erano lì per aiutarlo a passare oltre. Sarebbero stati consoni all'idea che lei aveva tuttora del trapasso.
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