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5. RITORNO A CASA

Thomas parcheggiò la jeep sul ciglio della strada. La palazzina non aveva garage, era troppo vecchia. Infilò la chiave nella porta d'ingresso e aprì. Una massa d'aria e di polvere gli venne addosso nella sua fuga verso l'esterno.

L'atrio era silenzioso e soffocante come se vi si fosse accumulata della bambagia invisibile. Thomas chiuse la porta e il sole del pomeriggio tornò a scaldare rettangoli di pavimento attraversandone i vetri. Andò alla cassetta delle lettere anche se pagava le bollette online e non aveva amici che gli avrebbero scritto, nemmeno un biglietto di circostanza o un telegramma. Trovò la pubblicità del Save Mart Supermarket ficcata dentro e stropicciata. Si mise sottobraccio il volantino. Già sulle scale udì lo scatto della serratura dell'ingresso e guardò su.

Le due bambine della famiglia del primo piano correvano sugli scalini, ma s'arrestarono quando lo videro, e si appiattirono contro la parete, la più grande dietro e la piccola davanti.

Thomas sorrise e le salutò; ricambiarono. Quando furono fuori portata di vista, lui udì che la minore – Julia – diceva alla sorella, con una risatina: «Puzza!».

«Di sudore.»

«Sì, sì! Bleah!»

«Magari ha inseguito un ladro! Te lo immagini? Come nei film!»

La porta sbattuta tagliò il resto delle risate. I bambini erano perfidi nella loro innocenza, anche Josiah Thompson lo era stato quando aveva detto a David Slade che la sua fidanzata lo tradiva. Josiah Thompson aveva la leggerezza degli sciocchi, e da adulto non era cambiato granché, pensò Thomas e scosse la testa.

Aveva saputo da Ethan, il fratello maggiore delle bambine, che la signora Slade si era trasferita. Salì al terzo piano, posò i bagagli davanti alla porta e proseguì al quarto. La porta degli Slade sbarrava il mondo vuoto che c'era al di là.

Carole Slade aveva chiamato una ditta di traslochi che aveva concluso il lavoro in una giornata infrasettimanale. Thomas, una domenica, guardando dalla finestra della cucina in attesa che il pranzo cuocesse, l'aveva vista uscire trascinando un trolley. La donna indossava il cappotto elegante allacciato e i capelli erano serrati in una coda bassa. Si era avviata all'auto, l'aveva aperta con il telecomando ed era salita senza guardare indietro. Thomas aveva atteso che si voltasse, senza muoversi.

Era stato lui a mettere in funzione la grande macchina giuridica che le aveva distrutto la vita.

Lui e Mae.

C'erano volte in cui avrebbe voluto chiedere alla signora Slade di perdonarlo. La pietà gli si agitava dentro e non si placava con nessuna blandizia, era della stessa forma della misericordia che si riserva alle vittime ignare. Ciò nonostante, la condannava. Credeva che lei dovesse aver sospettato del marito più di una volta, ma era rimasta chiusa nella comodità dell'apparenza e della sicurezza fino allo sciagurato giorno in cui, davanti a un registratore, le era uscita la verità.

L'aveva odiata, l'odiava ancora in parte, e per qualche tempo gli era parso giusto che lei fosse costretta a passare attraverso la sporcizia che era seguita al processo. Ricordava la testimonianza, identica nelle parole alla registrazione, la sua aria distinta e inattaccabile d'insegnante. Dopo la sentenza l'aveva udita per giorni salire e scendere le scale, com'era abituata, ma non si erano più parlati. L'aveva anche ascoltata conversare con la signora White.

Davanti alla porta chiusa, disse: «Finché non è emerso tutto, a nessuno importava». Stillò fino in fondo la particolare sensazione della partenza, simile alla perdita. Contrappose la gioiosa eccitazione di certi traslochi – com'era stato il suo – con la malinconia di chi restava a osservare, pietrificato dall'abitudine. E pensò a chi non poteva andarsene, ostacolato da forze che avevano a che fare con il denaro, la famiglia, la sfortuna. Adesso comprendeva le insistenze dei suoi ex-coinquilini, che avevano provato di tutto per convincerlo a restare, arrivando a fargli promesse che non avrebbero mantenuto. Chi rimaneva, invidioso di una vita di cambiamenti, si domandava quale fosse l'origine della maledizione che costringeva all'immobilità. Era simile alla sofferenza degli spettri.

Thomas avrebbe voluto, se il mondo fosse stato diverso dalla discarica che era, sedere accanto a Carole Slade e dirle che aveva compiuto un gran gesto, che la sincerità la rendeva un essere umano migliore. Voleva parlare con lei di Amily, evocare il passato. Ma supponeva che Carole lo detestasse per aver scavato in una storia sepolta, per aver rivoltato la terra ed esumato un male inarrestabile. E lei, forse, detestava anche Amily, perché ne era stata gelosa, certa che il marito – al pari di Scott Bowman – nutrisse un interesse tutt'altro che casto per lei.

Riuscì infine a scostarsi dalla risacca dei pensieri e tornare all'appartamento. Riprese i bagagli. Quando entrò, la stanza divenne fredda. Rabbrividì: era una sensazione che conosceva, il modo del corpo di avvertirlo che c'era qualcun altro. Aveva il fiato corto, la tachicardia, e il terrore tornò da dentro il suo essere e si sparse nelle ossa e nelle viscere. Poi d'un tratto, la paura venne schiacciata da un'allegria che innescò un tremore nel sangue.

«Amy?»

Eddy trotterellò dalla camera da letto nella sua snellezza grigia. S'arrestò mentre si stiracchiava e voltò il muso verso la parete di destra, spoglia di quadri, imitato dal padrone. Thomas si avvicinò e toccò un muro tiepido.

«Sei tornata?»

La voce si sollevò ed esplose, una bolla di sapone. Thomas vagò per le stanze alla ricerca del punto in cui il corpo avrebbe reagito, ma trovò soltanto la squallida quiete di pochi mobili. Quando tornò nel salotto per disfare i bagagli scorse un fumo nero che saliva verso il soffitto, una voluta sottile, e spariva.

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