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Epilogo

Due mesi dopo.

Le foglie si erano già dipinte d'arancione sugli alberi e volavano leggere nell'aria, trasportate dal vento. Per le strade si poteva scorgere qualcuno con la felpa e le giornate si erano accorciate ormai da un pezzo. L'estate stava svanendo come ogni settembre e, con essa, era finito anche un capitolo delle loro vite.

Le lezioni di Lettere Moderne sarebbero cominciate solo a fine mese, ma Saffo aveva iniziato a prendere familiarità con la facoltà di Pedagogia da una decina di giorni e per Orazio era giunto il tempo di partire alla volta di Modena, lasciando finalmente il nido.

"Sicuro di non aver dimenticato niente?" gli domandò sua madre, sistemandogli il colletto della camicia sotto alla tracolla del borsone.

Il binario era piuttosto caotico per essere le nove di mattina, con il rumore delle ruote dei trolley trascinati sulla banchina e quel vociare indistinto. Tutte le persone a cui voleva bene erano lì per salutarlo, riempiendogli il cuore di una felicità un po' nostalgica.

"Ah ma', ho ricontrollato 'a borsa ducento volte!" le rispose alzando gli occhi al cielo, ma senza essere davvero infastidito.

"Mandami un messaggio non appena arrivi. E chiamami ogni tanto, almeno so che sei vivo e stai bene".

Il ragazzone la rassicurò anche su quel punto almeno un paio di volte e la abbracciò stretta, chinandosi leggermente in avanti per farsi stringere meglio. Claudia gli prese il volto tra le mani e gli posò un bacio sulla fronte, come ad imprimergli un sigillo che lo avrebbe protetto da ogni male.

"Fai il bravo. Ti voglio bene, ricordatelo" gli sussurrò prima di lasciargli salutare i suoi amici.

"Uno alla volta! Nun spignete che ve abbraccio tutti!" ci scherzò su Orazio per smorzare la tristezza della partenza.

Saffo gli saltò letteralmente al collo, permettendogli per la prima e unica volta di abbracciarla come si deve, sollevandola da terra di qualche centimetro.

"Nun fatte mette' 'ncinta" la prese in giro con una certa malizia.

"Sei proprio 'n cojone" borbottò l'altra divertita.

Gli sarebbero mancate le sue occhiatacce mentre gli correggeva i compiti di greco, o le conversazioni sulle ragazze tenute da ubriachi, facendo a gara a chi avesse rimorchiato la più bella o la più inaccessibile in apparenza.

Sperava di incontrare qualcuno come Catullo, che lo travolse con una presa brusca e affettuosa come quella dei cowboy nei film western. Tra le centinaia di ragazzi che avrebbe incrociato, magari ne avrebbe trovato uno con cui insultarsi bonariamente e prendere in giro chiunque.

"Beh, buon viaggio" gli fece Dante con aria imbarazzata, allungandogli una mano con fare incerto.

Orazio restò a fissarlo con espressione confusa per qualche istante. Non gli era stato simpatico la prima volta che l'aveva incontrato, con quell'atteggiamento da ragazzino un po' viziato e i berretti rossi anche al chiuso. Ma aveva capito che, in fondo, era solo timido e insicuro e aveva imparato a volergli bene, anche dopo tutto quello che aveva fatto per Virgilio negli ultimi tempi.

"Ma vie' qua, cose'!" esclamò abbracciando anche lui.

Il fiorentino rimase piuttosto sorpreso da quell'affettuosità inattesa, ma non si oppose e ricambiò la stretta molto volentieri, anche se si sentiva mancare il respiro.

"Controlla che magni e nun reprima l'emozioni sue 'n'altra volta. 'ntesi?" gli mormorò non nascondendo la sua preoccupazione.

"Neanche c'era bisogno di chiedermelo" annuì Dante sottovoce.

I loro sguardi si posarono sul protagonista di quel breve discorso, facendogli intuire che cosa si fossero detti. Era cambiato molto in quei due mesi, il Virgilio che conoscevano sembrava perduto per sempre.

Si era tagliato i capelli a spazzola, affrontando di sua volontà le forbici del barbiere. Aveva perso parecchio peso, visto che aveva avuto qualche difficoltà a mangiare per un po', ma ora aveva rimesso su qualche chilo e non aveva più un aspetto così deprimente. Aveva ricominciato a ridere e a scherzare solo da poco, ma non era ancora in grado di parlare di sua nonna senza scoppiare a piangere. Eppure, per chissà quale motivo, la sofferenza, che aveva segnato quella che sarebbe dovuta essere l'estate della sua vita, lo aveva spinto a spiccare definitivamente il volo.

Orazio abbracciò la sua apetta, assestandogli qualche sonora pacca sulla schiena. Non sapeva ancora come avrebbe fatto senza che lui tenesse a freno la sua impulsività. Gli sarebbero mancati i suoi ragionamenti perfettamente logici o sentirlo parlare di Babe con quella faccia da pesce lesso, ripetendo per l'ennesima volta quanto fosse assolutamente adorabile e perfetto sotto ogni aspetto. Era anche preoccupato per lui e per quello che stava passando, ma era abbastanza sicuro che se la sarebbe cavata, anche se a fatica.

"Tienice d'occhio Mece", si raccomandò mentre lo stringeva ancora sé, "E nun fa' finta che sia tutto okay. Se te devi sfoga', sfogate, Cristo santo! E telefoname, così te smonto li film mentali 'n du' seconni e mezzo".

"Nun te preoccupa' pe' me", gli disse Virgilio allentando la presa, "Te, piuttosto, nun te caccia' nei guai, mortacci tua! Appiccialli 'sti du' neuroni che c'hai prima de agi', va be'?".

Si guardarono in viso e si sorrisero come due bambini per qualche secondo, tenendosi ancora per le spalle, prima di separarsi definitivamente.

Il ragazzone sospirò amaramente, sapendo perfettamente che cosa lo aspettasse. Mecenate non aveva proferito parola per l'intera mattinata, assorto in una smorfia di tristezza malcelata. Non che ci fosse un modo giusto o sbagliato di reagire a quello che avrebbero affrontato: dopo diciotto anni trascorsi insieme ogni singolo giorno della loro vita, sarebbero stati lontani per settimane.

"Properzio sta a arriva'", ruppe il suo mutismo il biondino facendosi avanti, "L'ecografo è arrivato tardi, mortacci sua!".

Orazio annuì con la testa e gli prese entrambe le mani, osservandole con particolare attenzione. Il suo migliore amico gli sarebbe mancato da morire, ma non sapeva ancora come sarebbe sopravvissuto senza il suo amato. Non era ancora partito, ma già soffriva per la distanza.

Appoggiò la fronte sulla sua e chiuse gli occhi, assaporando quel momento che avrebbe voluto congelare nel tempo. Avrebbe avuto un milione di cose da dirgli, ma non sapeva quale scegliere o da dove iniziare.

Dirgli che avrebbe patito la sua lontananza come se gli avessero tolto l'ossigeno. Dirgli che lo avrebbe incontrato ogni notte nei suoi sogni. Dirgli che lo avrebbe chiamato e tartassato di messaggi, solo per alleviare un po' il tormento della sua assenza.

"Te amo" sospirò all'improvviso Mecenate.

Il ragazzone alzò subito il capo, incontrando quelle iridi scure che amava tanto. Non era sicuro di aver capito bene - d'altronde c'era molto rumore e non aveva mai pronunciato quelle parole in sua presenza.

"Che cosa?" chiese schiudendo le labbra.

Il suo fidanzato gli prese il volto tra le mani e lo tenne vicino al suo, facendo fondere i loro respiri in quei pochi millimetri che li separavano. Le loro pupille erano incastrate in uno sguardo d'amore quasi commovente, talmente potente da isolare i piccioncini dal caos che li circondava, rendendoli immemori di qualsiasi cosa che non fosse loro due.

"Ora', te amo" ripeté sorridendogli.

Orazio sfoderò un sorriso così grande che gli fece male alle guance e lo costrinse a socchiudere gli occhi, tanto si sentiva danzare il cuore nel petto per la gioia.

"Te amo pure io".

Le loro bocche si reclamarono a vicenda, dandosi un bacio diverso da tutti quelli che si erano dati prima di allora. Più dolce e più lungo, ma anche più malinconico e disperato. Il biondino lo attirò a sé un po' di più afferrandolo per i fianchi e si lasciò cingere il collo dalle sue braccia. Rimasero così, facendo combaciare i loro corpi, fino a quando non si udì in lontananza il rumore del treno.

"Stasera te telefono" gli promise il ragazzone un attimo prima di salire sul vagone con suo padre, le loro mani erano state lente a sciogliere la presa.

"Sarà meglio pe' te!" urlò il suo amato per sovrastare il baccano.

"Amo', te amo!".

"Te amo pure io!".

Orazio era quasi sparito in mezzo alla calca, quando una voce lo trattenne davanti al portellone ancora aperto, impedendogli di seguire Marco tra i sedili.

"Orazio! Orazio!" aveva infatti udito gridare da qualcuno non troppo lontano.

Il gruppetto si voltò verso la scalinata metallica del sovrapassaggio e intravide la figura tracagnotta di Properzio, che correva verso di loro facendosi strada tra persone e bagagli.

"Allora? Che n'è?" domandò frettolosamente al suo amico, sperando che il treno non ripartisse subito.

"Femmina! Raga, è femmina!, annunciò l'altro con un entusiasmo travolgente, "Nun fa' cazzate te, me raccomanno!".

"Stai 'n 'na botte de ferro! Auguri e figlie femmine!".

Il ragazzone fece giusto in tempo a finire la frase che il portellone si richiuse, sottraendolo alla vista dei suoi. In men che non si dica, la banchina si svuotò e il treno riprese la sua corsa, scomparendo allo sguardo dei ragazzi nel giro di un minuto.

Virgilio si strinse un po' di più al suo Dante, cercando di scacciare quella sensazione di assenza con cui stava imparando a convivere. Il fiorentino sembrò leggergli nel pensiero e si sollevò sulle punte, così da potergli rifilare un bacio sulle labbra.

"A qualcuno serve un passaggio?" chiese Claudia rompendo il silenzio che era calato tra di loro.

Il biondino si ridestò dai suoi pensieri e scosse il capo in segno di diniego.

"Me faccio du' passi. E devo passa' 'n cartoleria, quinni no, grazie" si giustificò con voce piatta.

"Noi ce 'mbucamo, se se può", le rispose Saffo con un sorrisetto paraculo, "Qualcuno s'è fatto sfonna' er motorino".

"Nun è che me so' fatto sfonna' er motorino, deficie'!", si difese Catullo indispettito, "Me so' venuti addosso: è diversa 'a cosa!".

"Virgilio? Dante? Voi?" fece la donna alla coppietta, tentando invano di nascondere una certa apprensione nei loro confronti.

"Stamo apposto, grazie", disse il maggiore accennando un sorriso, "Mo 'namo da Ikea a pijia' alcune cose p''a casa nova, che oggi pomeriggio mi' padre vie' a dacce 'na mano a monta' 'n po' de mobili".

"E quanno c''a fai vede' 'sta topaia?" lo pungolò Catullo.

"Quanno nun pare più 'na topaia, me pare ovvio!" esclamò l'altro ridacchiando.

Ce ne sarebbe voluto di lavoro per rendere quello stanzone almeno decente, ma non si faceva abbattere dai problemi con la ditta telefonica o con il riscaldamento che non funzionava benissimo: aveva finalmente un posto che poteva dire solamente suo.

Virgilio non poteva più stare dai Flacco, ormai. Non che loro non lo volessero, ma avvertiva la necessità di rendersi autonomo, di diventare completamente indipendente una volta per tutte. Marzia gli aveva lasciato in eredità una piccola fortuna e, anche grazie ad un contributo da parte di Figulo, aveva trovato un monolocale in affitto a poco prezzo e che sembrava progettato proprio per lui. Certo, era piuttosto piccolo e c'era qualche lavoretto da fare, ma era luminoso e c'era abbastanza spazio per un letto comodo e tutti i suoi libri.

Con suo padre le cose erano cambiate e in meglio. Fino a qualche mese prima non avrebbe mai immaginato di poter avere un rapporto quantomeno civile con quell'uomo. Era stato in comunità per qualche settimana e non toccava gli alcolici dal funerale di Marzia. Frequentava gli Alcolisti Anonimi e aveva eliminato da casa sua qualsiasi cibo o bevanda che contenesse anche la minima traccia di alcol.

E si stava sforzando sul serio per ricostruire un rapporto con suo figlio. All'inizio era stato strano cenare insieme e c'erano stati parecchi silenzi imbarazzanti tra loro due, ma avevano trovato un modo per avere un dialogo e costruire un briciolo di fiducia l'uno nei confronti dell'altro.

Questo non significava che Virgilio l'avesse perdonato: aveva ancora qualche riserva e si ritrovava a scattare indietro ogni volta che Figulo si muoveva un tantino troppo velocemente verso di lui. Ma, tutto sommato, dopo le pene che aveva sopportato in silenzio, nonostante il dolore lo accompagnasse costantemente, poteva dire di essere piuttosto soddisfatto della piega che la sua vita stava prendendo.

Così come Mecenate, del resto: anche la sua esistenza sembrava aver trovato la strada giusta per lui. Aveva finalmente detto al suo fidanzato che lo amava ed era fiero di sé per questo. Ovviamente sapeva che era solo un piccolo traguardo e che ne aveva ancora di ostacoli da superare prima di potersi considerare mentalmente stabile, ma non aveva più incubi e le paranoie lo assalivano sempre meno frequentemente. Le sue sedute con La Pizia lo stavano aiutando parecchio a conoscere se stesso e a capire di che cosa avesse davvero bisogno, tanto che, dopo una lunga e accesa discussione, aveva convinto i suoi genitori a pagargli le sedute.

Eppure non si sarebbe detto osservandolo in quel momento, con le pupille perse in direzione dei binari, fissando il punto in cui questi si fondevano con l'orizzonte. Il suo migliore amico gli si avvicinò e gli gettò un braccio attorno alle spalle, puntando gli occhi nella stessa direzione dei suoi.

"Se la caverà" sospirò Virgilio con una certa malinconia.

"Sì, se la caverà", ripeté Mecenate, "Già me manca, però".

"Tornerà da noi pe' Natale. E, credime", lo rassicurò gettando un'occhiata alla sua anima gemella, che chiacchierava allegramente con i gemelli, "Recupererete ogni minuto perso".

A parecchi chilometri di distanza, Orazio si era infilato le cuffie e aveva avviato la riproduzione casuale su Spotify. Lui non era sicuro che se la sarebbe cavata, né tantomeno se la vita in Accademia sarebbe stata adatta a lui. Avrebbe dovuto imparare a gestirsi da solo. Gli sarebbero mancati i suoi amici, i suoi genitori, il suo meraviglioso ragazzo che gli aveva detto che lo amava. 

Era sicuro che sarebbe cambiato, che sarebbe diventato finalmente un uomo. Magari avrebbe scoperto che la carriera in divisa non faceva per lui o che il Fato lo aveva destinato a glorie ancora maggiori. Eppure, in fondo, il futuro non lo preoccupava poi così tanto: aveva diciotto anni e tutto il tempo del mondo per trovare la sua strada.

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