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Capitolo XXXVIII

"Hai l'aria esausta: sicuro di stare bene?" chiese Dante alzando leggermente lo sguardo per poterlo vedere meglio.

I due piccioncini se ne stavano sdraiati sul vecchio divano un po' sonnecchianti, guardando un film in bianco e nero che davano alla televisione. Il fiorentino era sdraiato sul maggiore, con le gambe intrecciate alle sue e il capo posato sul suo petto, stretto tra quelle braccia forti.

L'aveva sentito sospirare stremato una volta o due e non aveva potuto non notare come gli occhi parevano chiudersi da soli, cerchiati da quelle occhiaie violacee a dir poco allarmanti. Virgilio aveva un disperato bisogno di dormire, cosa che non riusciva a fare decentemente da settimane: tra le faccende di casa, il fanzine, le visite a sua nonna, i troppi compiti in vista della maturità e quell'inutile essere che doveva chiamare padre, era stato un miracolo ritagliarsi quel pomeriggio per stare con il suo amore e ormai lui e l'insonnia erano diventati buoni amici.

"Nun te preoccupa': sto bene" mentì il romano per non farlo preoccupare.

Il ragazzino, però, non si fece abbindolare da quel sorrisetto dannatamente bello: ormai lo conosceva abbastanza bene da sapere che gli stava rifilando una balla per nascondergli la sua sofferenza. Dante si tirò su sui gomiti e poggiò la propria fronte sulla sua, lasciando che i loro nasi si sfiorassero.

"Come sta Marzietta?" domandò dolcemente fissando il suo sguardo in quegli occhi glaciali e rassicuranti.

"Bene, credo. So' ito ieri e stava be'. S'è 'n po' ingrassata, però è meglio, armeno nun pare più 'no scheletro. Ha fatto amicizia co' tre vecchiette dei Castelli e sta sempre a straccialle a briscola, però conoscendola barerà come 'na delinquente", cominciò a raccontare il maggiore accarezzandogli teneramente i capelli corvini sotto all'immancabile berretto rosso, "Sta de buon umore, scherza come ar solito e m'ha pure cazziato perché me vede sciupato! Te renni conto?".

"In effetti sei un po' deperito, amore", lo interruppe il minore con tono di rimprovero, "Ma mangi?".

"E daje però pure te!", esclamò l'altro sorridendo un po' infastidito, "Nun c'ho er tempo pe' preparamme tutto er cibo che me rifilava mi' nonna: pe' forza me so' 'n po' sciupato! Però mica so' 'no sciassì!".

"No, infatti sei sempre bellissimo" commentò il fiorentino prima di baciarlo sulle labbra.

"Da che pulpito!" rise Virgilio stringendolo a sé.

Un baciò tirò l'altro, le mani del romano scorsero lungo la schiena del suo amato fino al sedere, il suo respiro diventò sempre più ansimante e dei brividi d'eccitazione attraversarono ogni fibra del suo corpo. Dante strinse le ginocchia attorno ai suoi fianchi mettendosi seduto, portando l'altro a raddrizzare la schiena per non permettere che le loro labbra si staccassero. Le mani di Virgilio si posarono sulle sue cosce, quelle del fiorentino avevano afferrato quel volto leggermente ispido per la barba, allontanando di tanto in tanto un ricciolo biondo che aveva osato coprirlo.

"Te amo, babe" mormorò sottovoce il maggiore prima di scendere con la bocca sul suo collo.

"Ti amo pure io" riuscì a dire l'altro tra piccoli ansimi di piacere.

Virgilio sentì l'arcano bisogno di averlo ancora più vicino a sé, di sentire la sua pelle calda e morbida sulla propria. Fece scorrere le mani sotto alla felpa, accarezzando quasi freneticamente la carne accaldata e trepidante. Voleva sentirlo addosso, voleva baciare ogni centimetro del suo corpo, voleva soddisfare quel desiderio che gli stava smuovendo non solo l'anima. Si sentiva pronto a quel livello d'intimità e anche Dante lo era: lo leggeva nel modo in cui si stava aggrappando a lui, nel flebile sussurro con cui gli aveva detto che lo amava, nella veemenza con cui aveva cominciato a strusciarsi su di lui senza alcun ritegno.

La serratura della porta scattò due volte, rompendo quella pace con il suo stridio metallico. I due ragazzi si staccarono immediatamente a malincuore l'uno dall'altro, spaventati da quell'imprevisto.

"Cazzo, doveva proprio torna' prima stasera!" si lamentò sottovoce il romano aggiustandosi i capelli.

"Ma chi è?" chiese il ragazzino.

"Publio, vienimi ad aiutare che la porta del cazzo non si apre!" urlò sbiascicando qualcuno dal pianerottolo.

"Quell'ubriacone de' mi' padre" rispose l'altro facendosi scuro in volto.

Il maggiore si alzò e andò ad aprire imprecando a denti stretti. Dante sbarrò gli occhi non appena lo vide: era straordinariamente simile al suo amato nella corporatura, con quelle spalle squadrate e le gambe affusolate, ma i suoi occhi neri come la pece, così come i capelli, sembravano appartenere ad una creatura infernale, effetto amplificato dal rossore del volto ebbro.

"Non dovevi andare a Rieti oggi?" domandò Virgilio mentre si sistemava al suo fianco per farlo camminare meglio, visto che barcollava pericolosamente.

"Sì, ma hanno annullato tutto e...". Lo sguardo di Figulo si posò sul fiorentino, che se ne stava immobile come una statua in mezzo al salone. "E lui chi è?".

"Un mio amico, pa'", mentì per sviare il discorso, "Adesso ti porto di là, così ti stendi un po'".

Si trovava fortemente a disagio: si vergognava di lui, di suo padre, di quell'uomo che non riusciva a restare sobrio per un'intera giornata. Da quando Marzia era stata ricoverata, aveva dovuto imparare da solo a gestirlo, spesso provandone le conseguenze sulla propria pelle. Si vergognava di fronte agli occhi dell'amore della sua vita, che lo fissavano come se volessero salvarlo, ma temessero di peggiorare solo la situazione.

"Non è un tuo amico: io conosco tutti i tuoi amici del cazzo e lui non l'ho mai visto" lo smentì Figulo allungando tutte le i.

"Ho detto che è un mio amico, pa': eh fidate!" insistette il figlio, terrorizzato dall'idea si fare coming out con suo padre in quelle condizioni.

"Tu non me la racconti giusta, disgraziato!", continuò imperterrito l'altro alzando la voce, "Non sei uno di quei froci del cazzo, no?".

"No pa', perché?" chiese sforzandosi di mantenere i nervi saldi.

"Perché quel tipo laggiù ha proprio l'aria di essere una checca e ha un succhiotto bello fresco sul collo".

Dante impallidì e si portò istintivamente le mani dove il suo ragazzo l'aveva baciato qualche minuto prima: quel semplice gesto mandò in fumo qualsiasi tentativo del romano di nascondere la verità.

"Quindi sei finocchio. Ma finocchio finocchio", dedusse Figulo, "Mio figlio è un finocchio! Non smetti mai di deludermi, Publio. Non voglio che tu veda questa checca mai più, intesi?".

"Cor cazzo" rispose deciso Virgilio cominciando a scaldarsi.

"Come scusa?" domandò quasi ringhiando suo padre.

"Ho detto cor cazzo!".

Il ragazzo capì di aver ricevuto un ceffone in pieno viso solamente quando sentì una guancia in fiamme e si ritrovò a guardare le nappine del tappeto. Con la coda dell'occhio intravide il suo fiorentino, che osservava la scena terrificato, senza osar parlare o agire.

"Tu non lo vedrai mai più, ci siamo capiti?" lo minacciò Figulo arrabbiandosi.

"Cor cazzo, pa'!".

Suo padre gli afferrò una ciocca di capelli dietro alla nuca e la tirò talmente forte che Virgilio dovette piegare il collo all'indietro per non soffrire più di quanto potesse sopportare.

"Tu farai come ti dico io, perché io sono tuo padre!" gli intimò avvicinando il proprio volto al suo.

"Vaffanculo" mormorò l'altro prima di tirargli un calcio alla tibia.

Figulo scattò all'indietro mollando la presa e si piegò per massaggiarsi la gamba dolorante. Virgilio ne approfittò per allontanarsi da lui e si parò di fronte a Dante con fare protettivo.

"Noi ce ne annamo. Nun me rompe er cazzo e nun me vomita' sur tappeto, che poi a pulillo è un casino" disse con sguardo fiero scandendo bene ogni singola parola.

Poi afferrò la mano del suo ragazzo e lo condusse lontano da quell'uomo che aveva ribrezzo a chiamare padre. Prese al volo la giacca e le chiavi della macchina prima di uscire dall'appartamento.

"Stai bene?" chiese preoccupato il minore un po' balbettando.

"No, ma nun me 'nteressa", ammise il maggiore non avendo né la voglia né le forze di mentirgli, "'namo ar Mc".

Dante lo trattenne sulle scale e lo abbracciò forte. Salì qualche scalino per permettere che la testa bionda potesse affondare nell'incavo del suo collo. Lo percepì irrigidirsi tra le sue braccia, restio a quella forma di conforto che lo faceva apparire debole.

"Non devi fingere con me, amore", gli sussurrò accarezzandogli i riccioli, "Non devi proteggermi dai tuoi problemi, né tantomeno devi vergognartene: qualsiasi merda tu debba affrontare, io sarò sempre con te perché io ti amo e non voglio che tu soffra. Okay?".

E in quel momento Virgilio crollò: tutti i sacrifici, tutte le ore di sonno perse, tutti gli schiaffi, tutti gli insulti, tutti i sorrisi falsi, tutte le volte che si era costretto a fingere che avesse tutto sotto controllo gli precipitarono addosso, facendo finalmente uscir fuori tutte le lacrime che aveva trattenuto nelle ultime settimane. Aveva dovuto fingersi forte per così tanto tempo che mostrarsi così debole gli fece uno strano effetto, come se avesse disimparato a confrontarsi con le sue emozioni negative. Il fiorentino lo strinse ancora di più a sé e gli baciò teneramente i capelli.

"Va tutto bene", gli mormorò con fare rassicurante, "Va tutto bene. Andrà tutto bene. Si sistemerà tutto, vedrai".

E in quel momento, confortato dalla persona che amava di più in assoluto, il romano ci credette davvero: magari ci sarebbe voluto del tempo, ma tutto si sarebbe aggiustato.

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