Capitolo XLV
Stava correndo a perdifiato. La luce gialla dei lampioni illuminava a malapena la strada. La suola di gomma delle sue scarpe produceva un suono sordo ogni volta che toccava l'asfalto. Qualche risata divertita e diabolica alle sue spalle. I loro passi erano sempre più vicini. Sapeva che presto lo avrebbero raggiunto.
"Aiuto! Aiuto!".
La gola bruciava per quelle grida disperate.
"Aiutateme! Aiuto!".
Non osava voltarsi indietro. D'altronde sarebbe stato inutile: le lacrime velavano i suoi occhi e riusciva a distinguere a fatica le macchine dai cassonetti.
"Ve prego, aiutateme!".
Le sue urla erano quelle di una bestia al macello, lancinanti e inascoltate.
"Aiuto!".
Lo afferrarono per i capelli e si ritrovò a terra. Due mani si strinsero feroci attorno al suo collo. Respirava a fatica, boccheggiando come un pesce fuori dall'acqua.
"Voi froci 'sta fine dovete fa'" sghignazzò Varo divertito.
Si contorceva sotto al suo corpo, forzandosi invano di liberarsi di quel peso, di quella morsa che impediva all'ossigeno di entrare nei suoi polmoni. Si dimenava come un ossesso, agitandosi come un'anguilla.
Le forze cominciarono a venirgli meno ed ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse iniettato della morfina sotto alla pelle chiara. I muscoli si rilassarono, gli arti rimasero inerti a terra.
"Mori, checca bastarda" sibilò il ragazzo accadendosi ancora di più su di lui.
Mecenate si svegliò di soprassalto mettendosi a sedere. Ci mise qualche istante per ricordare dove si trovasse: era in Sabina, era a casa sua, era al sicuro.
"Solo 'n altro incubo del cazzo" pensò sollevato.
Il suo petto si alzava e si abbassava forsennatamente in preda al fiatone e il sudore freddo gli aveva incollato la maglietta alla pelle. Si passò le mani sul volto per levarsi da davanti gli occhi quello che era, ormai, il suo tormento onirico personale.
"Oh, Mecena', tutto okay?" gli chiese Orazio allarmato.
Il biondino si era completamente dimenticato della sua presenza. Avevano sempre dormito nello stesso letto durante le loro vacanze agresti, visto che Virgilio preferiva dormire da solo e non avevano voglia di dover pulire una stanza in più. Aveva pensato che sarebbe stato strano quella volta, dal momento che era nato qualcosa tra loro due, eppure era stato come tutte le altre: ognuno nella propria metà del letto, qualche battuta squallida prima di addormentarsi schiena contro schiena.
"Tutto be', nun te preoccupa': solo 'n brutto sogno der cazzo" gli rispose ancora col respiro affannato.
"Me sa che ultimamente ne fai 'n po' troppi, ve?". Mecenate lo guardò con aria interrogativa. "C'hai du' occhiaie che pari 'no zombie".
"De solito me pijo 'a valeriana, però me la so' scordata a casa" spiegò l'altro prima di sdraiarsi di nuovo.
Rimasero al buio in silenzio, fianco a fianco, osservando pigramente le ventole che vorticavano sopra alle loro teste.
"Me ne vuoi parla'?" domandò Orazio con un tatto e una timidezza per lui insoliti.
"Nun servirebbe a 'n cazzo: nun è che ne parlo e magicamente sparisce tutto".
"Però te sfoghi 'n attimo, che nun fa mai male".
I loro occhi si incontrarono e, anche se nelle tenebre, Mecenate vi scorse una luce rassicurante e amorevole.
Rassicurante e amorevole. Era strano associare quei due aggettivi alla persona più brusca e facile all'ira che avesse mai conosciuto, ma in quel momento si sentì come sotto ad una campana di vetro, dove poteva aprirsi senza alcun timore.
"Ma è sempre 'a stessa merda", raccontò facendo un po' fatica a trovare le parole giuste, "Io che corro 'n mezzo alla strada, qualcuno che me tira i capelli, Varo che me schiaccia e me soffoca". La voce si incrinò nel pronunciare quell'ultima parola. "Sento proprio l'aria che nun m'entra nei polmoni e 'a vista che se ne va. Vorrei urla', ma nun ce riesco. Vorrei arzamme, ma nun ce la faccio. E poi me sento mori' e...".
Il biondino si fermò e scoppiò a piangere sommessamente, rannicchiandosi istintivamente addosso all'altro. Orazio non sapeva bene che cosa avrebbe dovuto fare, né tantomeno che cosa dire in una situazione del genere: sapeva solo che odiava vederlo in quello stato e odiava ancora di più chi ce l'aveva ridotto. Lo abbracciò forte, stringendolo a sé, e prese ad accarezzargli la testa bionda.
"Mecena', è finita: sei ar sicuro. Nessuno te toccherà mai più: te lo giuro", gli sussurrò dolcemente per rassicurarlo, "Se solo qualcuno ce prova, io...".
"Te cosa? Gli meni? L'hai visto come t'ha conciato Varo l'ultima volta" lo interruppe singhiozzando, lasciando trapelare una certa angoscia.
"M'ammazzasse pure, ma basta che nun te sfiora più!".
"Nun dimme così che me preoccupo: capace che pe' davvero te ammazza de botte co' li amici sua!".
"Ma nun te preoccupa': io me la cavo benissimo da solo".
"'nfatti s'è visto: manco er mocio trovavi ma' dima'!" ci scherzò su Mecenate.
"Aho, te giuro: io mica l'avevo visto!" protestò Orazio ridendo.
Il biondino sorrise divertito e il suo respiro si fece sempre più regolare, confortato da quelle braccia forti e da quell'odore familiare. "Meno male che ce tenemo Virgilio che ce fa' da madre isterica quanno serve".
"Gliel'hai detto a quer deficiente che t'hanno fatto?" chiese il ragazzone intrecciando le proprie gambe con le sue.
"C''o sa, c''o sa: so ito da lui subito dopo. M'ha fatto da 'nfermiere e m'ha chiamato tipo venti volte 'n du' giorni".
"Sei ito da lui e nun da me?" constatò offeso e deluso.
"Te stavi a Napoli da Ranieri", si spiegò, "E poi te, nun te offenne, te scalli troppo 'n 'ste situazioni".
"C'hai ragione, 'n effetti", ammise Orazio sospirando, "Poi lui è meglio de me come 'nfermiere, anche se nun ce lo vedo 'n mezzo ar sangue e cose der genere. Però, secondo me, pure Dante nun scherza: c'ha proprio l'aria de uno che sviene quanno glie fanno er prelievo".
"Ma poraccio, Ora'! Nun esse' così cattivo!" lo rimproverò bonariamente ridendo.
Il ragazzone sorrise, soddisfatto per averlo tirato un po' su, e riprese a far scorrere le dita tra i capelli dorati. Poi realizzò.
"Ma che te sei rapato a zero pe' quell'encefalico de Varo?" chiese con fare un po' brusco.
Mecenate non rispose, limitandosi a sospirare e avvicinarsi ancora un po' a lui.
"Io quello lo ammazzo", pensò furioso Orazio, "Io lo pijo, lo corco de botte, lo spello vivo, glie levo le 'nteriora e lo lascio appeso sull'Appia".
"Ti dà fastidio se dormimo così?" domandò il biondino un po' sonnecchiante.
"Perché dovrebbe?" fece l'altro, che aveva tanto sperato che si presentasse quell'occasione.
"Perché nun stamo 'nsieme e nun te vorrei illude".
"Nun me illudo, nun te proeccupa': sembrerò un sottone der cazzo, ma me basta che stai bene te" mormorò per rassicurarlo, anche se un po' si illudeva.
"Ma da quand'è che sai tira' fori er dorciume?".
"Me fai 'st'effetto, mortacci tua!".
Mecenate accennò un sorriso e alzò lo sguardo per vedere la sua espressione. Era sempre lo stesso, con quella piega beffarda delle labbra e gli occhi di fiamma, ma negli ultimi giorni vi aveva trovato qualcosa di nuovo: la fossetta sul mento, il modo in cui la pelle si tirava sugli zigomi quando rideva a crepapelle, il modo in cui le sue sopracciglia si aggrottavano quando era contrariato. Quella strana gentilezza che gli aveva sempre riservato. Quel suo ammorbidirsi all'improvviso, anche se un po' duro rimaneva sempre. Fu allora che lo capì: sebbene Batillo gli piacesse, quel sentimento non era nulla in confronto a quello che provava per il suo migliore amico.
"Credo de essemme 'nnamorato de te" gli confessò un po' sovrappensiero.
Orazio si irrigidì per la sorpresa, ma poi si rilassò subito dopo e non riuscì a trattenere un sorriso soddisfatto.
"Creo de essemme 'nnamorato de te, ma devo parla' co' Batillo: devo sistema' 'e cose".
"Pijate er tempo che te serve. Te l'ho già detto: io posso aspettatte pure du' secoli" mormorò il ragazzone socchiudendo gli occhi.
Il biondino lo baciò sulle labbra con dolcezza e si sistemò meglio tra le sue braccia per stare più comodo, addormentandosi di lì a poco. E, per la prima volta dopo mesi, Mecenate riuscì a dormire per più di sei ore senza fare incubi.
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