Capitolo VIII
Orazio e Antonio se ne stavano appoggiati alla vecchia ringhiera arrugginita del balcone, spalla a spalla, in silenzio. Di tanto in tanto si passavano la canna, aspiravano a pieni polmoni e buttavano fuori nuvolette di fumo azzurrastro. Il cielo era nero e senza stelle, ma ci si vedeva come se fosse giorno: tutte le luci erano ancora accese nelle case, le strade erano gremite di gente e si respirava nell'aria l'odore dei fritti e dei sughi che cuocevano da quella mattina. Erano loro due soli, fuggiti dal chiasso di cuginetti troppo rumorosi e vecchi parenti che, non vedendoli da mesi, li riempivano di domande a cui non sapevano dare risposte. O almeno non le risposte che quelli volevano sentire.
"Te sei segnato ar militare poi?" ruppe il silenzio Orazio continuando a fissare il vuoto.
"No. Alla fine vado a Firenze con Giacomo" gli rispose Antonio prima di fare un altro tiro.
"A fa' che?".
"Che cazzo ne so! Ma io al militare non ci vado".
Tutti quanti in quella famiglia avevano intrapreso la carriera in divisa: guardie di finanza, carabinieri, poliziotti, perfino qualche guardia carceraria si contava tra i loro ranghi e, ora che era giunto il loro turno, tutti quanti si aspettavano che quei due seguissero la strada solcata da intere generazioni. Orazio, dal canto suo, non disdegnava più di tanto l'idea: avrebbe messo la testa a posto, avrebbe imparato un po' di disciplina e, se proprio gli fosse andata male, sarebbe finito in qualche ufficio a non fare niente tutto il giorno. Ma Antonio non si voleva rassegnare: lui voleva vivere la sua vita e, se questo significava perdere ogni cosa, perfino il rispetto dei suoi cari, avrebbe ricominciato tutto da zero. E poi non sarebbe mai stato veramente solo: Giacomo era sempre con lui.
"A donne come stai messo?" continuò Orazio.
"Che cazzo, cugi': ho l'abbiocco post cena, non stiamo ancora a mezza canna e te vuoi già sfoderare l'artiglieria pesante!" commentò l'altro ridendo a denti stretti.
"Me serve 'n consiglio, Anto'. Se l'unico che ragiona come me" gli spiegò il romano improvvisamente malinconico.
"E che t'è successo mo?" domandò il napoletano ridacchiando.
"Come fai te co' le ragazze? Nun te senti 'n colpa a mollalle così?".
"Ma che t'è salito il vino di zi' Fernando? Che sono mo 'sti discorsi?".
"So' serio, Anto'".
I due si guardarono in faccia e Antonio, capendo che il cugino faceva sul serio, si rimise dritto per potergli parlare vis-à-vis.
"Sarà che cerco solo avventure, ma non me preoccupo più di tanto. Poi anche loro sanno che è una cosa spiccia, quindi amen".
"Ma come fai a sape' che loro c'ho sanno?".
"Niente numeri, niente contatti, qualche volta nemmeno i nomi".
"Ma allora perché nun vai a puttane, scusa?".
"Ah cugi', che cazzo t'è preso?" gli chiese scocciato Antonio.
"Ma che ne so! Sarà colpa de Virgilio", cominciò a spiegarsi meglio, "L'altro giorno, m'ha detto che vedo le ragazze solo come buchi da scopa'. All'inizio pensavo fosse 'na battuta der cazzo delle sue, però c'ha ragione. Seguime 'n po'. Puntualmente ce provo co' una e manco ce penso più de tanto se è piccola, se è grossa, se è mezza fidanzata o che ne so. Stamo 'nsieme du' settimane, ce scopo 'n paio de volte, poi me sale l'ansia e la mollo. Scappo proprio come 'n fottuto coniglio. Che cazzo de problemi c'ho?".
"C'hai che vuoi esse' uno spirito libero. Vuoi essere indipendente, non dover rendere conto a nessuno. Vivere alla giornata, Carpe diem! e tutto il resto. Non ti vuoi impegna'".
"Quinni so' 'na merda 'n pratica".
"Non sei una merda, su! Sei un bravo guaglione, però non sei il tipo da relazione chiusa: tutto qui".
Orazio sospirò e cominciò a giocare nervosamente con un filo del maglione. Non era sicuro che suo cugino avesse completamente ragione: tutte le persone buone che conosceva erano da tipi da relazione stabile e seria. Lui non era così, lui voleva divertirsi, lui non voleva impegnarsi, almeno non ancora. Da una parte, però, sperava di trovare qualcuna e di mettersi in riga, diventare il ragazzo che suo padre voleva che fosse: diligente, serio, affidabile. E invece continuava a deluderlo e la sua vita sentimentale stava cominciando a risentire della fama da don Giovanni che si era guadagnato negli ultimi anni. Scosse la testa come per scrollarsi quei pensieri dalla mente.
"Te co' er gobbo c'hai parlato?" gli chiese per cambiare discorso.
"Non chiamarlo così, poraccio. E comunque no, non ancora almeno" gli rispose il napoletano.
"Devi chiari' le cose però, su! So' du' anni che va avanti 'sta storia".
"Non venirmi a fare le prediche te, eh. E poi lui adesso va dietro a questa Fanny, quindi il problema non si pone".
"Ma se te se scopa co' gli occhi tutte 'e volte che te guarda!" esclamò esasperato Orazio, che non ne poteva più di assistere a quello spettacolo pietoso.
"Non mi risulta".
"Allora vai da 'n oculista bravo, perché se vede da 'n chilometro che gli piaci. E pure lui te piace in fondo".
"Ma non in quel senso, cugi'. Io non lo amo, capisc?", sottolineò Antonio, "Diciamo che è un po' come te e Mecenate".
"Mo che cazzo c'entra Mecenate?" domandò il romano seccato.
"C'entra, c'entra. Ve volete be' e tutto er resto, però nun ve amate" si spiegò meglio.
"Mecenate nun me guarda come Giacomo guarda te, Anto'".
"Tu dici?", rincarò la dose il cugino, "Perché glie piace quell'egocentrico de Augusto? Anche a Leo piace un'altra persona, eppure tu dici che me guarda in quel modo".
Orazio fece per rispondere qualcosa, ma preferì tacere. Lui e Mecenate erano solo amici, niente di più: a lui piacevano le ragazze, all'altro piaceva Augusto. Il loro rapporto era complesso, questo sì, ma non implicava nessun risvolto romantico, al massimo vagamente platonico, come lo era per Virgilio.
"Ecco stavate, disgraziati!", urlò una delle loro tante zie affacciandosi alla finestra del balcone, "Rientrate che fa frid!".
"Arriviamo, zi' Conce'!" disse Orazio nascondendo rapidamente la canna dietro la schiena.
"'na cosa de giorno, eh!".
"Zi' Conce', due secondi e veniamo" ripeté Antonio sfoderando uno dei suoi sorrisi da ragazzino innocente.
La finestra si richiuse e zia Concetta ritornò a discutere con gli altri parenti in salotto.
"Nel dubbio, cugi', preghiamo San Gennaro" concluse il napoletano prima di rientrare dentro.
Seduto sul sedile passeggero, Virgilio osservava fuori dal finestrino, con una guancia appoggiata al vetro. Non che ci fosse molto da vedere: solo un alternarsi di prati verdastri, recinsioni di metallo e qualche Autogrill. Percorrendo l'autostrada per tornare a Roma, né lui né suo padre sembravano a proprio agio e l'ennesima hit risuonava nell'abitacolo della vecchia FIAT nera. Era soddisfatto, tutto sommato, di come era andato il Natale: certo, Stazio non lo aveva mollato un attimo, ma in fondo era stato bello rivedere zia Cornelia e gli altri dopo così tanto tempo.
All'improvviso, suo padre spense la radio e, senza distogliere lo sguardo dalla distesa d'asfalto che si estendeva per chilometri e chilometri davanti ai loro occhi, esordì con un secco: "Publio, dobbiamo parlare".
Publio, il nome che aveva scelto lui. Gli costava troppa fatica chiamarlo Virgilio, come si faceva chiamare, come lo chiamava sua madre.
"E de che?" rispose distrattamente.
"Parla italiano. Pago un sacco per mandarti al classico e parli come uno scaricatore di porto" lo rimproverò con tono severo.
"Di cosa dobbiamo parlare?" si corresse alzando gli occhi al cielo il ragazzo.
"Di certi discorsi che sono venuti fuori in questi giorni" gli rispose dandogli un'occhiata sprezzante.
"Nun certi discorsi. Uno solo" pensò Virgilio intuendo dove sarebbe andato a parare suo padre e preparandosi per una nuova discussione a riguardo.
"Da quando in quando non vuoi prendere giurisprudenza?".
"Non ho mai voluto prendere giurisprudenza".
"Non dire stupidaggini, Publio: diventerai un avvocato e lavorerai in studio da me, così come ho fatto io e tuo nonno prima di me".
"Ma io non voglio" si oppose Virgilio.
"Che significa che non vuoi?" sbottò arrabbiandosi suo padre.
"Significa che non voglio, pa'!".
"E che vorresti fare, dimmi?" chiese con voce ostile.
"Voglio diventare uno scrittore" gli rispose convinto il figlio.
"E morire di fame? Questo mai, Publio", gli disse accendendosi in viso, "No: tu farai l'avvocato, punto e basta!".
"Non puoi dirmi quello che devo fare!" gridò Virgilio perdendo la sua solita calma.
Lo odiava quando faceva così, lo odiava davvero: proprio non poteva accettare che qualcuno non obbedisse ciecamente al suo volere.
"Non alzare la voce con me!", urlò ancora più forte suo padre, "So io cosa è meglio per te e...".
"Tu non sai niente di me! Non sai assolutamente un cazzo di me! Non sai nemmeno come vado a scuola!".
"Modera il linguaggio, Publio! E so perfettamente come vai a scuola: mi interessa la tua istruzione".
"Solo quello ti interessa di me!", esclamò il ragazzo esasperato, "Ti interessa solo se prendo un bel voto a filosofia, così puoi vantarti che tuo figlio studia quando vai ad ubriacarti tutte le sere al bar! Ma per il resto non ti frega un cazzo di me! Non ti frega un cazzo di nessuno! Non ti fregava un cazzo nemmeno di mamma!".
Suo padre gli diede un sonoro ceffone in piena faccia. Il sangue affluì velocemente alle guance di Virgilio facendolo diventare rosso in volto, evidenziando l'impronta delle cinque dita perfettamente stampata su uno zigomo. Gli bruciava da morire e il suo primo istinto fu quello di piangere per il dolore, ma si sforzò con tutte le sue forze di trattenersi e fece respiri profondi per calmarsi.
"Io amavo tua madre, disgraziato, e lo sai bene! Non osare mai più parlarmi in questo modo, chiaro!" tuonò suo padre.
Virgilio rimase in silenzio e si voltò di nuovo verso il finestrino per non essere costretto a guardare in faccia quell'uomo che provava disgusto a chiamare padre.
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