Capitolo VI
Mecenate uscì dalla metropolitana salendo gli stretti gradini tre alla volta: era in ritardo, ma sapeva che Augusto lo era probabilmente molto di più, quindi non se ne preoccupava affatto. Quando il ragazzo lo aveva chiamato quella mattina e gli aveva chiesto di andare a fare colazione insieme, all'inizio aveva esitato a rispondergli: ormai si era rassegnato alla friendzone, ma la ferita era ancora aperta e non voleva di certo infilare il dito nella piaga. Tuttavia, l'alternativa era passare tutta la giornata rinchiuso in casa a vedere le repliche di Doctor House alla televisione da solo, quindi aveva finito per accettare. Quasi sicuramente si stava comportando come un perfetto masochista da manuale e sentiva nella sua testa la voce beffarda di Orazio che gli dava del sottone: magari lo era, ma considerò che era decisamente meglio essere sottone che sguazzare nell'autocommiserazione e restare tutto il giorno in pigiama.
Il bar che gli aveva detto Augusto era nascosto in uno dei vicoletti dietro il Colosseo e l'odore dei cornetti caldi inondava la strada stretta e illuminata dal freddo sole invernale. Un gruppetto di ragazzi stava chiacchierando davanti alla porta e, in mezzo a quel mare di cappotti beige e grigi, spiccava il piumino rosso di una ragazzetta con una lunga coda di cavallo bionda.
Mecenate aveva creduto che ci sarebbero stati solo lui e Augusto e si rimproverò per essere stato così ingenuo e sciocco a pensarlo: era stato solo invitato ad una delle famose uscite che organizzavano gli studenti di scienze politiche alla fine delle lezioni, prima che la sessione invernale li costringesse a rinchiudersi in casa a studiare. Credendo di non essere stato visto, si voltò di corsa: non aveva la minima intenzione di passare la mattinata con quelle persone, cercando disperatamente di non sembrare troppo preso da Augusto, un rischio che, lo sapeva bene, correva ancora nonostante tutto quello che era successo.
"Mecena', stamo ecco!" lo chiamò una voce nota alle sue spalle.
"E che cazzo!" imprecò sottovoce Mecenate: si andava in scena.
"Ciao Augu'!" lo salutò mettendo su uno dei suoi sorrisi forzati.
"Raga, conoscete tutti Mecenate, no?", cominciò Augusto stringendogli con una certa forza le spalle con una delle sue braccione da rugbista, "Sta' a rinnova' er giornalino scolastico che è 'na meraviglia: questo è l'uomo che ce serve!".
La biondina si schiarì platealmente la voce e li guardò con occhi terrificanti.
"Ah, giusto: perdonami, lupacchiotta", continuò, "Mecenate, lei è la mia ragazza, Livia Drusilla".
"Chiamami Dru" disse lei allungandogli una mano.
Mecenate la strinse con delicatezza, intimorito dagli artigli rossi fiammanti della sua rivale in amore, non che lui avesse ormai qualche minima possibilità. Forse qualcuno avrebbe potuto trovarla una vera bellezza, con quei capelli lunghi e i lineamenti delicati, ma nei suoi occhi si leggeva una ferocia che faceva gelare il sangue.
"Sentite, io direi de magnasse 'na cosa prima de passa' a li affari", propose un membro della banda con un cespuglio di capelli corvini, "Tanto offri te, no?".
"Ce sarà mai 'n giorno che nun me scroccherai pure l'anima?" commentò sarcastico Augusto, ma la frecciatina era andata ugualmente a segno.
"Se aspetti che Varo te renda qualcosa, fatte er segno della croce!" esclamò Livia Drusilla ridacchiando.
Il gruppetto entrò finalmente nel bar e si sedette ad un lungo tavolo di vetro vicino al finestrone che dava sulla strada. Mecenate si ritrovò schiacciato tra quel Varo e un tipo dall'aria insignificante che si presentò come Lepido.
Non appena ebbero fatto fuori la loro colazione a base di maritozzi con la panna e cappuccini fumanti, il discorso divenne improvvisamente serio e il ragazzo, che non aveva osato aprire bocca se non per mangiare, credette di essersi immischiato in qualcosa di veramente importante.
"Oggi, amici miei, siamo qui pe' fonda' er Partito dei Popolari", esordì Augusto con tono solenne dopo essersi alzato in piedi, "In quanto fondatore der partito, sarò pure er presidente".
I suoi compagni cominciarono ad applaudire e Lepido fece un fischio d'approvazione.
Un partito, veramente? Erano usciti da pochi mesi dal liceo e già volevano buttarsi in politica, in quel mondo degli adulti che spaventava Mecenate?
"Noi volemo riporta' i vecchi valori der popolo nostro: 'a serietà, 'a parsimonia, 'a virtù, 'a sobrietà!" esclamò Augusto scandendo con enfasi ogni parola.
Qualcuno emise dei versi di disapprovazione al sentir parlare di sobrietà, ma tutto si risolse in qualche commentino su quanto fosse bello bere fino allo sfinimento. Mecenate non aveva la minima idea di che cosa ci facesse lì, né tantomeno riusciva a capire il senso di tutto quel discorso. O meglio, preferiva fingere di non comprenderlo, perché la verità era surreale e troppo dolorosa per affrontarla di petto. Per un istante si chiese se non fosse tutto quanto un gioco, uno di quegli stupidi scherzi che il suo amico amava organizzare, ma gli bastò notare con quanta serietà e partecipazione gli altri lo stessero ascoltando, con gli occhi che brillavano per l'entusiasmo e le bocche semiaperte, pronte a lasciarsi andare a manifestazione d'approvazione.
"E questo qui, signori miei", riprese dopo una pausa ad effetto indicando proprio Mecenate, "Questo è l'uomo che ce porterà 'n Parlamento!".
"Scusa, cosa?" chiese il diretto interessato sbarrando gli occhi per la sorpresa.
"Te sarai er manager ufficiale d''a propaganda der partito", si spiegò meglio l'altro costringendolo ad alzarsi in piedi, "Stai a gesti' bene er giornalino scolastico, sei pratico co' le cose grafiche e c'hai 'no strano modo de fomenta' li animi: ce porterai dritti dritti alle elezioni e...".
"Nun c'avete l'età pe' esse' eletti" obiettò Mecenate stordito da tutte quelle informazioni.
"Arriverà l'età, arriverà: 'ntanto faremo proseliti e 'n giorno saliremo ar governo!" concluse il suo amico tra le grida esaltate di giubilo dei suoi compagni.
Mecenate si guardò attorno esterrefatto: la situazione era davvero al limite del surreale e si sentiva sopraffatto da quelle urla. Gli stavano chiedendo qualcosa di molto più grande di lui: fare pubblicità ad Augusto sul giornalino scolastico era un gioco da ragazzi, ma fare propaganda politica per il suo partito era tutto un altro paio di maniche. Non si sentiva all'altezza delle aspettative che quegli sguardi sembravano riporre in lui: in fondo era solo un adolescente che cercava di aiutare gli altri a far sentire la propria voce giocando a fare il direttore di un giornale che, lo sapeva bene, la gente leggeva solo per la rubrica sull'amore di Ovidio. Ma il punto che lo disturbava davvero era un altro: Augusto sapeva benissimo che loro due avevano idee politiche completamente opposte, eppure aveva avanzato lo stesso la sua folle proposta con una sicurezza sfacciata, come se avesse dato per scontato che avrebbe accettato.
"Ma io nun so' 'n grado" riuscì a dire timidamente in mezzo a quel casino.
"Mo nun fa' er modesto: sarai pure 'nu sciassi', però te sai 'mpone", intervenne Varo euforico, "Guarda te ch'hai fatto: ner giro de quanto, tre giorni?, Augusto è passato da fregnone che piagne perché quella bona donna de Scribonia l'ha mollato a magnafemmone che fonda 'n partito! Ed è tutto merito tuo, eh!".
Probabilmente il corvino voleva lusingarlo, ma Mecenate, invece, si sentì offeso nel profondo, sia per se stesso sia per Augusto. Non gli piaceva che la gente sottolineasse quanto fosse orribilmente esile il suo aspetto, con quelle gambe lunghe lunghe e secche secche da tisico, così come sapeva che il suo amico odiava sentirsi dare del donnaiolo. Ma quest'ultimo non sembrò farci caso, troppo impegnato a sbaciucchiarsi con Livia Drusilla, e la cosa gli diede ancora più fastidio.
"Ce devo pensa', ma fate conto che è no" disse Mecenate prima di darsi alla fuga.
Si mise velocemente il cappotto e, senza nemmeno chiuderlo per bene, si diresse a passo svelto verso l'uscita tra le facce stupite e confuse degli altri.
"Te l'avevo detto io che 'e checche nun c'hanno le palle pe' fa' 'ste cose" sghignazzò trionfante Varo.
"Sarà pure 'n finocchio de merda, ma fidate che c'ha le palle" lo mise a tacere Augusto.
Mecenate fece finta di non sentire e si chiuse la porta alle spalle. Ormai aveva sviluppato una sorta di corazza per quegli insulti e si era anche abituato alla scritta "Mecenate frocio succhiacazzi" nei bagni dei maschi della palestra, sbucata fuori dal nulla la settimana dopo il suo coming out. Se aveva creduto che la friendzone gli avesse spezzato il cuore, in quel momento ebbe la certezza che ad averlo ucciso era stato quel "finocchio di merda" sulle labbra della persona che, nonostante non volesse ammetterlo, continuava ad amare così intensamente. Aveva una disperata voglia di piangere. Provò a chiamare Properzio un paio di volte, nella speranza che si potessero vedere per sfogarsi con qualcuno.
"Sto pe' famme Cinzia, che vuoi?" gli rispose l'amico dall'altra parte della cornetta.
Mecenate attaccò subito: non voleva che i suoi sentimenti fossero d'intralcio a qualcuno. Continuò a vagare senza una meta ben precisa con le mani affondate nelle tasche, nella speranza che gli venisse in mente qualcosa di meglio da fare che tornarsene a casa e deprimersi nella sua solitudine.
"Mecenate?" lo chiamò qualcuno alle sue spalle.
Si voltò asciugandosi una lacrima che gli era sfuggita e rimise su il suo solito sorriso falso. Davanti a sé vide una vecchietta con una sciarpa di lana grossa avvolta tre o quattro volte attorno al collo e il carrellino della spesa pieno fino a scoppiare.
"Ciao Ma'. Come mai da 'ste parti?" chiese alla nonna del suo migliore amico.
"Compro la roba pe' er cenone della Caritas. Te come stai?" gli domandò a sua volta Marzia notando i suoi occhi lucidi.
"Bene" mentì spudoratamente.
La vecchietta lo guardò scuotendo la testa con disappunto: lo conosceva troppo bene per cadere in uno dei suoi trucchetti da attore.
"Che me dai 'na mano? 'sto carrello pesa più de un cristiano" commentò fingendo di essersela bevuta.
"Certo, che scherzi!" esclamò Mecenate togliendole dolcemente il carrellino dalle mani e offrendole un braccio per appoggiarsi.
Marzia accettò sorridendo quel gesto così premuroso e i due si avviarono abbastanza lentamente verso casa Marone.
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