Capitolo LXXXV
La porta era socchiusa come da regola e la finestra era spalancata, lasciando che i raggi lunari illuminassero il suo volto. Eppure non si respirava in quella stanza: anche se era notte fonda, l'afa si appiccicava alla pelle e seccava la gola, facendo rimpiangere l'autunno.
Orazio se ne stava appoggiato con i gomiti al davanzale della finestra, fissando un punto imprecisato tra i palazzi e le luci fioche dei lampioni. Non riusciva a dormire e si era rigirato un numero infinito di volte tra le lenzuola, tanto che alla fine, per non svegliare il suo ragazzo, aveva deciso di alzarsi.
Avrebbe dovuto sforzarsi e dormire almeno qualche ora, visto che il giorno dopo avrebbe avuto la prima prova, ma tra il caldo e i pensieri sembrava impossibile.
Era inquieto, ma non per l'esame: aveva studiato e se l'era sempre cavata molto bene con i temi, quindi non era preoccupato per quali tracce sarebbero potute uscire.
Quello che pungolava la sua mente, istigandolo a intraprendere ragionamenti e riflessioni al limite del paranoico, era ciò che la maturità comportava: era la fine di un'era.
La consapevolezza che tutto sarebbe cambiato si era abbattuta su di lui quasi all'improvviso, cogliendolo alla sprovvista tra le uniche braccia che avrebbero potuto confortarlo. Avvertiva su di sé tutto il peso del futuro, di tutte le speranze che aveva, di tutti i timori che aveva.
Ancora due mesi e si sarebbe trasferito all'Accademia, a Modena, lontano dalla sua famiglia e dalle persone che amava e conosceva da una vita. La cosa lo elettrizzava - nuovi amici, nuovi posti, nuove possibilità - ma lo terrorizzava profondamente.
Non era mai stato così a lungo lontano da casa, soprattutto senza Mecenate e Virgilio: dopo diciotto anni trascorsi sempre insieme, si sarebbe ritrovato per la prima volta completamente da solo, senza il suo migliore amico a placarlo e il suo amato a reggergli il gioco.
Mecenate: come avrebbe fatto a stare senza di lui? Senza la sua presa salda sulla mano, senza la sua risata, senza le sue carezze. Senza i suoi occhi, senza i suoi baci. Senza il suo corpo addosso. Sarebbero diventati come Dante e Virgilio, con la considerevole eccezione che Modena era ben più lontana di Firenze e non si sarebbero potuti vedere tutti i weekend.
E lui era bisessuale, ora c'era anche questo a preoccuparlo. E se qualcuno gli avesse fatto outing di nuovo? Se avesse incontrato gente ben più meschina di quella che c'era a Roma? Se non lo avessero accettato? Avrebbe dovuto passare i prossimi anni a combattere con gli omofobi? O, ancora peggio, dentro l'armadio? Avrebbe dovuto nascondersi, fingere di essere etero? Certo, le ragazze gli piacevano, ma sarebbe riuscito a trattenersi dal commentare? Si sarebbe tradito da solo? Avrebbe dovuto dire che aveva una fidanzata che lo aspettava a Roma?
Ma lui voleva andare in Accademia, aspettava quel momento da quando era piccolo. Non vedeva l'ora di entrare nell'Arma e servire lo Stato, così come aveva fatto quasi ogni membro della sua famiglia da generazioni.
Quasi, perché, anche se tutti i Flacco speravano che figli e nipoti intraprendessero la carriera in divisa, nessuno era mai stato costretto, tanto che la decisione di Antonio di trasferirsi con Leopardi a Firenze era stata accolta con un discreto entusiasmo.
Da ragazzino, però, non capiva che cosa implicasse lasciare tutto per vivere in Accademia o i sacrifici e i rischi che avrebbe dovuto affrontare e quel suo ardente desiderio infantile si era velato di un'ombra di paura e inquietudine.
Avrebbe tanto voluto farsi una canna, così da rilassarsi e mettere in pausa quel fiume di dubbi e incertezze, ma aveva smesso di fumare e aveva finito la sua scorta di erba da usare in casi d'emergenza.
Poi, proprio quando stava per sospirare per l'ennesima volta, avvertì una nota presenza alle sue spalle e due braccia pelle e ossa lo abbracciarono da dietro.
"Perché nun stai a letto?" chiese Mecenate con la voce ancora impastata di sonno.
Appoggiò il mento sulla spalla del suo amato e le loro guance si sfiorarono dolcemente.
"Che c'hai l'ansia pe' dima'?" aggiunse chiudendo gli occhi.
"No no, te pare?", gli rispose Orazio posando le mani sulle sue, come a volergli impedire di mollare la presa, "Che t'ho svegliato?".
"No, Amo', è 'sto caldo der cazzo", fece l'altro borbottando, "Te che c'hai?".
Il ragazzone si voltò e si appoggiò con la schiena al davanzale, così da poterlo vedere in viso. Aveva i capelli in subbuglio, impigliati attorno al mollettone, e aveva il segno del cuscino stampato su metà faccia.
"'n po' de pensieri" sospirò spostandogli un ciuffetto biondo dietro le orecchie.
"Ah, perché mo pensi pure!" commentò sarcastico.
"Vaffanculo, mortacci tua!", imprecò bonario prima di rifilargli un bacio, "Te te salvi solo perché te amo, testa de cazzo!".
"C''o so, c''o so", annuì il biondino sorridendo compiaciuto, "A che stavi a pensa'?".
"All'Accademia, ar fatto che cambierà tutto", incominciò Orazio, gettandogli le braccia attorno al collo e giocando con una ciocca fuori posto, "Dovrò ricomincia' da zero e starò da solo, completamente da solo. E so che 'sta cosa me farà be' e che nun so' costretto - è 'na scelta mia - ma magari nun ce la farò".
"Che so' mo 'sta cazzata?", lo rimproverò Mecenate con infinita dolcezza, "Sei 'a persona più agguerrita e testarda che conosco: se c'è qualcuno che ce la può fa', quello sei te!".
"Appunto perché so' testardo me preoccupo", obiettò l'altro, "Mica posso anna' contro i militari, Cristo santo! Oppure starò sur cazzo a quelli d''a camerata mia perché so' fatto così, co' 'sto caratteraccio der cazzo!".
"Amo', me sa che, a forza de sta' co' me, stai a diventa' paranoico", ci scherzò su il suo amato per confortarlo, "Te adoreranno tutti come te adoro io! Certo, dovrai tenette er ciucio 'n bocca e te tocca pure 'mparatte a statte carmo, ma è impossibile che starai sur cazzo a tutti, okay?".
Gli prese con delicatezza le mani e se le portò alle labbra per baciarle.
"E poi, oh, se so' così cojoni da nun apprezzatte, ce mettemo 'n attimo io e l'apetta nostra a sali' su e crocifiggelli tutti" aggiunse per farlo ridere.
"Me mancherai", se ne uscì all'improvviso il ragazzone, "Nun so come sopravvivrò senza de te".
"A me 'o dici? Mortacci tua, te riempirò de messaggi pe' quanto me mancherai!".
Le loro labbra si reclamarono a vicenda, scambiandosi dei dolci baci, assaporandosi con insolita lentezza. Si stringevano l'uno all'altro, ma senza cercare altro che quell'abbraccio rassicurante.
"Te amo" mormorò Orazio guardandolo dritto negli occhi.
Il biondino osservò con quale meraviglia i suoi capelli sembrassero quasi azzurri sotto alla luce della luna e con quanto ardore il suo sguardo brillasse nella penombra. Sospirò incantato e rimase in silenzio.
A piccoli passi. A modo tuo. Con i tuoi tempi. Rachele non faceva altro che ripeterglielo ad ogni nuova seduta, ma lui era impaziente di raggiungere il suo obiettivo personale. Gli rubò un altro bacio, dandosi il tempo per prepararsi a quelle due parole che, seppur non ancora quelle giuste, erano le più vicine a quelle che avrebbe tanto voluto dirgli, ma che non riusciva proprio a pronunciare.
"Anche io".
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