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Capitolo LXXXI

"Co' che t'ha ricattato stavolta?" chiese Orazio indicando sua cugina.

"Mi ha ritt ca' ha letto alcune cose ca' teng scritto pe' Leo", rispose Antonio seccato, "Meglio ca' nun 'e dica in giro".

"Tu' sorella è sveglia, mica ha ripreso da te" lo prese in giro bonariamente l'altro.

"'fanculo, cugi'" borbottò il napoletano.

Paolina si era impossessata della scrivania e aveva sparso i pennarelli ovunque, rendendole difficile trovare qualsiasi colore. Si era appollaiata sulla sedia girevole, schiacciando il vestito da Biancaneve contro lo schienale, ed era particolarmente concentrata a disegnare quello che doveva essere un drago, ma che assomigliava di più ad una lucertola con le ali.

I due ragazzi, invece, stavano seduti alla turca sul letto, l'uno di fronte all'altro, chiacchierando e controllando di tanto in tanto che la pupetta non facesse danni.

"Aoh, eh daje! Ma che te sei fatto permaloso?", fece sarcastico il romano dandogli un buffetto affettuoso sulla spalla, "Co' Giacomino come va?".

"Alla grande, cugi'", disse Antonio con un sorrisone che gli occupava metà faccia, "Abbiamo trovato pure nu' alloggio a Firenze, quindi tiemp dujie mis e ci trasferiamo lì".

"Ma che c'hai er pepe ar culo? Che è tutta 'sta fretta?", commentò Orazio, "Tanto pe' scopa', scopate! L'università ve inizia ad ottobre: cazzo ve trasferite du' mesi prima?".

"Leo sta male e o' dottore ha ritt ca' e' farebbe bene cambiare clima" spiegò il ragazzone con volto accigliato.

"Sta male 'n che senso?".

"Nel senso ca' ha sempre na' brutta tosse e ultimamente è cchiù fiacco ro' solito".

Seguì un triste silenzio, interrotto solo dal rumore dei pennarelli che stridevano sul foglio. Che Giacomo Leopardi fosse cagionevole di salute era cosa nota: tra la gobba, la facilità con cui si prendeva un febbrone e la quantità di antistaminici che assumeva, tutti sapevano che quel passero era fragile oltre che solitario.

Ma negli ultimi tempi le cose andavano peggiorando: aveva avuto una bruttissima congiuntivite sotto Pasqua, tanto che non era riuscito né a leggere né a scrivere per due settimane, e aveva sempre il colorito terreo di chi vorrebbe vomitare.

Ranieri cercava di farlo stare meglio, per quanto gli fosse possibile, eppure nelle foto che postava insieme a lui la verità urlava inesorabile: quel ragazzo non avrebbe avuto una vita facile e, purtroppo, nemmeno lunga.

"Te, piuttosto, aie parlato a Riccioli d'oro?" domandò il napoletano cambiando argomento.

"Sì, c'ho parlato" disse Orazio.

Non aveva ancora detto nulla a suo cugino. In realtà non sapeva neppure il perché: Antonio era Antonio, era bisessuale come lui, ragionavano allo stesso modo ed erano così simili che qualcuno li aveva persino scambiati per fratelli una volta.

Ma non se l'era sentita di rivelargli una cosa del genere al telefono. Che cosa avrebbe dovuto fare? Mandargli un messaggio? Cugi', ho scoperto che me piace pure er cazzo e mo esco co' Mece? No, non avrebbe mai potuto farlo: non era nel suo stile.

"Cioè, tecnicamente nun c'ho parlato" si corresse per tenerlo sulle spine per un po', godendosi la sua espressione da pesce palla.

Antonio arricciò il naso e corrugò le sopracciglia, spalancando teatralmente le braccia con fare esterrefatto.

"E ca' minchia significa?" gli chiese confuso.

"Significa che l'ho baciato, Anto'".

Il romano ebbe giusto il tempo di finire la frase che si ritrovò a doversi tappare le orecchie: suo cugino lo aveva placcato con fare entusiasta e lo stava pungolando, gridando come se il Napoli avesse appena vinto lo scudetto.

"Sia lodato San Gennaro!", urlò non sapendo contenere la sua gioia, "'o sapevo io, 'o sapevo che quel uaglione te piace! E ca' è successo dopo?".

Orazio sorrise e, mentre provava a toglierselo di dosso, gli raccontò sinteticamente tutta la storia: di come avesse capito di essere attratto da lui, della sua gelosia per Batillo, della festa dei gemelli - quando lo aveva baciato in quel bagno fatiscente e non era stato rigettato - e di come, pian piano, il loro rapporto si era evoluto da un'amicizia fraterna a quell'amore così fisico e travolgente. 

"La ship è canon, signori e signore!", esclamò il napoletano ancora più gasato di prima, "Ci avit mis 'na vita, ma almeno è canon!".

"No! Non è giusto!".

Paolina si trascinò giù dalla sedia con le guance tutte rosse, tenendo su la gonna del vestito per non cadere.

"Non è giusto! Non è giusto!" ripeté battendo i piedini a terra con forza.

"Che cosa nun è giusto?" chiese suo cugino, cercando invano una risposta negli occhi di Antonio.

"Mecenate è il mio principe azzurro, non il tuo!" protestò incrociando le braccia sul petto e iniziando a piangere per la rabbia.

"Paoli', smettila", le fece suo fratello infastidito, "Questa è roba ra grandi. E po' Mecenate è gay e vecchio pe' te: è meglio si si o' prende Orazio".

"Che dovrebbe prenne' Orazio?" domandò una voce dolce sull'uscio.

Gli sguardi dei tre cugini si posarono sulla figura alta alta e secca secca che sostava sulla porta, appoggiata allo stipite cona nonchalance irresistibile.

Il romano dovette trattenersi dal corrergli incontro e baciarlo, vista la situazione: per quanto il suo Mecenate fosse assolutamente incantevole con quello chignon ordinato e una delle canotte che gli aveva rubato, non era proprio il caso di darsi alle effusioni con Paolina indiavolata e offesa.

La bambina, invece, non si fece molti scrupoli e lo assaltò, cominciando a tirargli pugni sulle gambe.

"Sei un traditore!", gli urlò, "Tu sei il mio principe azzurro! Me lo hai detto tu! E adesso stai con Orazio! Non è giusto! Non è giusto!".

Gli occhi del biondino si illuminarono di una felicità sincera e si fissarono su quei due ragazzoni, che osservavano la scena piuttosto divertiti.

"Gliel'ho detto" spiegò il romano, anche se l'altro lo aveva già capito da sé.

"Meglio tardi ca' mai, giusto?" commentò il napoletano con un sorrisetto malizioso.

Mecenate annuì distrattamente e si inginocchiò, così che lui e la sua ammiratrice potessero essere alla stessa altezza. Le prese delicatamente le manine e le asciugò le lacrime, inventandosi sul momento la balla più brillante del secolo.

"Splendore, nun te devi danna' così", la confortò abbassando la voce, "Posso esse' er principe azzurro tuo pure se sto co' Orazio".

"Sul serio?" chiese ancora piagnucolando Paolina.

"Certo, principe': sta scritto sur Codice dei Principi Azzurri", mentì per calmarla, "Se c'è 'na donzella 'n difficoltà o 'na principessa nun accompagnata, er principe azzurro può momentaneamente mette' da parte er principe suo e dedicasse alla fanciulla".

"Sì sì, è vero" gli resse il filo Orazio, stupendosi dell'immaginazione del suo fidanzato.

"Okay allora", disse la bambina tirando su con il naso, "Però, se scopro che mi state dicendo una bugia, giuro su San Gennaro che mi arrabbio".

"Minchia, sorelli'", commentò suo fratello, "Non rompergli 'e scatole, povero uaglione!".

Ma nessuno sembrò dare particolare attenzione alle sue parole. Mecenate abbracciò stretta quello scricciolo e, rimettendosi dritto, la prese in braccio con la sua solita delicatezza.

"Semo proprio belle, co' 'sto vestito da Biancaneve, eh!", la fece sorridere sistemandole una manica, "Tu' fratello ne sarà entusiasta, eh!".

"'fanculo, Riccoli d'oro" lo mandò a quel paese Antonio mezzo stranito.

Orazio fece per rispondergli qualcosa con il suo solito sarcasmo, ma venne interrotto da Claudia, che fece capolino da dietro il biondino per chiedere che cosa volessero mangiare per cena.

"Io me magno quello gnocco der principe mio" pensò suo figlio ammirando con quanta dolcezza il suo ragazzo riuscisse a gestire Paolina.

E, nel preciso istante in cui le sue pupille incontrarono quelle del biondino, ebbe la certezza che anche lui aveva avuto la stessa brillante idea.

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