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Capitolo LXXVI

Virgilio se n'era andato da circa mezz'ora e la caffettiera borbottava tenacemente, riversando il profumo del caffè in tutto l'appartamento. Mecenate aveva già montato il latte caldo e aspettava con una certa impazienza il bip dell'ascensore: Orazio stava arrivando.

Aveva provato a darsi una sistemata - si era fatto la barba, si era pettinato i capelli - ma non c'era nulla che potesse fare contro quelle orribili occhiaie bluastre e il colorito pallido di chi aveva avuto giorni - e notti - migliori.

Gli aveva chiesto di passare a fare colazione da lui per parlare e sentiva l'ansia risalire su per la gola, mozzandogli il respiro. Sapeva che era una buona idea e che doveva aprirsi anche con lui, visto che il suo migliore amico poteva aiutarlo fino ad un certo punto, ma ancora si vergognava per come si era comportato alla festa.

E così, quando andò finalmente ad aprirgli la porta e lo vide con il sacchetto del bar in mano, le uniche cose che riuscì a fare furono dargli un leggero bacio a stampo e invitarlo ad entrare.

Non era mai capitato che stessero in silenzio così a lungo in diciannove anni: avevano fatto fuori i loro maritozzi, si erano ripuliti dai baffi di latte dei loro cappuccini ed erano rimasti muti, senza dire una parola.

Un senso di disagio pervadeva l'aria, opprimendoli come una coperta troppo calda, e si lanciavano occhiate discrete da una parte all'altra del tavolo, cercando di capire chi dovesse fare cosa.

"Hai detto che me dovevi parla'" esordì alla fine il ragazzone, non potendo più sopportare quella situazione di stallo.

"Sì", fece il biondino, "Me volevo scusa' pe' l'altra sera: so' stato 'n vero cojone".

"Sì, lo sei stato", commentò l'altro con aria offesa, "E vorrei tanto sape' er perché".

"Beh, è complicato".

"C'ho tutta 'a giornata libera" disse sbracandosi sulla sedia.

Mecenate deglutì nervosamente e strinse i pugni sopra al tavolo, lacerando con una mano il tovagliolo di carta.

"Ho perso er controllo l'altra sera", incominciò trovando a stento le parole giuste, "Augusto m'ha mandato proprio fori fase e me scocciava che me avessi visto 'n quelle condizioni. So che te sei preoccupato...".

"Nun lo so, pareva che te stessero a tortura'" lo interruppe il suo ragazzo, maledicendosi subito dopo per non aver tenuto chiusa la bocca.

"Te ho fatto proprio preoccupa'", riprese a fatica l'altro, "E nun riuscivo a regge' gli sguardi tua".

"Che sguardi?" domandò confuso Orazio.

"Me guardavi come se fossi 'n cucciolo ferito e hai cacciato fori er dolciume tutto 'nsieme", gli rispose il suo amato profondamente a disagio, "Se vedeva che lo facevi pe' pena o preoccupazione o quel che cazzo era e me so' vergognato de me stesso più de prima".

Seguì un breve silenzio, qualche minuto che servì al ragazzone per comprendere appieno il significato di quelle parole.

"Te sei vergognato a fatte vede' 'n quelle condizioni da me?" chiese conferma addolcendo i toni.

Mecenate abbassò lo sguardo e annuì con la testa, non trovando il coraggio di guardarlo in viso. Era una cosa assurda, se ci pensava bene: lo aveva visto con le macchie della varicella, ubriaco marcio, nudo, al limite dell'indecenza e perfino durante un attacco di panico. Eppure si era vergognato da morire, tanto da volerlo ignorare per non fare i conti con la realtà.

"Er fatto è che nun te voglio spaventa' o datte pensieri", spiegò con voce leggermente tremate, "Ultimamente nun sto proprio ar top e nun voglio buttate giù cor malumore mio: nun te voglio fa' soffri'".

Una lacrima solitaria corse sulla sua guancia, solcando una linea lucida sul suo viso. Avvertì il terribile presentimento di aver sbagliato a dirgli tutto ciò: si sarebbe allarmato più del dovuto e si sarebbe sentito in pena per lui. Lui gli avrebbe fatto pena.

Stava per lasciarsi andare ad un pianto sommesso e silenzioso, quando percepì le dita del suo fidanzato intrecciarsi con le sue e stringergli la mano con fare rassicurante. Osò alzare lo sguardo e incontrò quello sicuro e confortante di Orazio, che lo osservava con un'espressione seria.

"C''o so' che nun stai be' negli ultimi tempi e me preoccupa più nun sape' che c'hai e vedette tene' tutto dentro, piuttosto che se te sfoghi ogni tanto", iniziò a parlargli con la sua solita schiettezza, "E nun me fai soffri' se me dici quello che c'hai: qualsiasi cosa sia, te voglio aiuta' a risolverla perché sei er ragazzo mio e te voglio fa' felice".

"Anche io voglio che te sia felice: pe' questo cerco de damme 'n contegno", si giustificò il biondino abbozzando un timido sorriso, "E nun voglio rovina' tutto perché c'ho 'n casino 'n testa. Nun te voglio fa' pati', capisci?".

"Nun me fai pati' se me parli dei problemi che c'hai, Amo'", ripeté il ragazzone forse un po' troppo bruscamente, "Me fai pati' de più quanno fai gli occhioni ad Augusto, dopo tutta 'a merda che t'ha fatto passa'".

Mecenate si irrigidì sulla sedia e serrò la mascella: non si aspettava che tirasse fuori quell'argomento, o almeno non in maniera così diretta. Ma d'altro canto era Orazio: era noto per la sua schiettezza un po' brutale.

"Ho visto come 'o guardi", aggiunse senza mascherare una certa sofferenza nella voce, "E ho visto pure come te cambiano occhi quanno se parla de Batillo. So che te piacciono ancora - mica so' scemo - e questo me fa' rode er culo".

Il ragazzone si fermò a riprendere fiato e osservò il suo amato impallidire lentamente. In altre circostanze avrebbe chiuso lì il discorso: starsene a inveire contro di lui in quello stato era una tortura per entrambi. Ma aveva riflettuto molto dopo la chiacchierata con sua madre e aveva deciso di affrontare la questione una volta per tutte.

"Capisco che c'hai 'na cotta pe' Augusto dalle medie, quinni nun me ce danno poi più de tanto: tanto quello è etero", proseguì, "Ma pe' Batillo 'a storia è diversa: te c'hai avuto er dubbio sin da subito. Hai baciato lui e t'ho baciato io, te sei preso der tempo pe' capi' che cazzo dovevi fa'. E er fatto che nun te sia passata dopo quella satira der cazzo me fa pensa' che, forse, hai ancora dubbi a riguardo. E a me 'sta cosa nun me va giù: io nun posso pensa' che stai co' me e ami lui".

"Io nun lo amo: è vero, provo 'ca cosa pe' lui, ma nun lo amo!", affermò Mecenate con una decisione che non ammetteva repliche, "Stessa cosa pe' Augusto: loro me piacciono in un certo senso, ma nun li amo! Assolutamente no!".

Fu allora che Orazio capì di averlo ferito a sua volta e che Claudia aveva ragione: quello spilungone lo amava. Glielo leggeva in faccia mentre si difendeva, come se fosse stata una questione di vita o di morte, con una disperazione ardente negli occhi.

"Nun riesco a ditte quello che provo: c'ho 'n blocco, me sale er panico e nun riesco a dittello!", riprese il biondino con una foga atroce, "Ma so' certo de quello che provo pe' te! Solo co' te me dimentico dei cazzi miei e so' felice! Solo co' te me sembra de respira' sur serio! Solo co' te me sento libero e invincibile e capito! Cristo santo, vorrei passa' co' te ogni istante d''a vita mia e avette sempre ar mio fianco! Me 'nfesti i pensieri, me 'nfiammi er core e ogni cazzo de fibra der corpo mio me supplica de avette accanto! E me tormenta 'sta cosa che nun riesco a dittelo 'n termini semplici e...".

"Te amo pure io", sospirò l'altro con le lacrime agli occhi, "E nun me 'nteressa se nun me lo dici 'n termini semplici: quanno te la sentirai, quanno vorrai, me lo dirai".

Si abbracciarono stretti, stringendosi come se non si vedessero da una vita. Orazio annegò dolcemente nel profumo di quella chioma dorata e si sollevò sulle punte per poterlo cingere meglio tra le sue braccia.

"Me dispiace" si scusò di nuovo Mecenate.

"Dispiace pure a me", gli fece eco il suo amato senza mai mollare la presa, "Dovemo parla' de più però, altrimenti nun reggemo. Okay?".

"Okay" concordò l'altro con un sussurro.

Il ragazzone gli prese il volto tra le mani e lo baciò con una dolcezza e una lentezza per loro insolita, ma che in quel frangente si rivelò incredibilmente piacevole. Gli accarezzò le guance lisce con i pollici e si lasciò prendere per i fianchi, così da poter stare ancora più vicini.

"Me sei mancato ieri" mormorò il biondino.

"Anche tu me sei mancato, scemo" sorrise il suo amato prima di metterlo con le spalle contro il muro.

Ora che l'armonia era finalmente ritornata tra loro, c'era solo una cosa da fare: recuperare la giornata di amoreggiamenti andata perduta. E, di certo, non si sarebbero fatti pregare.

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