Capitolo LXXIX
Le persiane socchiuse lasciavano entrare una tenue luce nella stanza, illuminandola quanto bastasse per poterci vedere. Il ronzio della vecchia lavastoviglie era coperto dal rumore della televisione, ma era ben distinguibile nei momenti di silenzio.
Dante e Virgilio si erano accoccolati sul divano, stretti in un morbido abbraccio che volevano durasse in eterno. Nessuno dei due era veramente interessato al film che stavano guardando, troppo presi l'uno dall'altro e da quella sensazione d'intimità e di casa.
Il fiorentino si stava per addormentare, cullato da quelle mani che gli pettinavano delicatamente i capelli, e si sforzava di tenere gli occhi ben aperti.
Non si sarebbero visti per un mese dopo quel weekend e non aveva la minima intenzione di perdere tempo a dormire, sebbene quelle braccia fossero tranquillizzanti e avvolgenti come una coperta calda in pieno inverno.
Il romano gli rifilò un bacio sulla fronte e, senza dire una parola, prese ad accarezzargli le guance con i pollici.
Era esausto: per potersi permettere quella fuga a Firenze aveva dovuto studiare tutta la notte, altrimenti avrebbe rischiato di rovinarsi la media con l'ultima interrogazione di storia. Ma ne era valsa la pena: avrebbe ucciso un Natzgul a mani nude pur di stare un po' di più con il suo amato.
All'improvviso un lamento ruppe quella parentesi idilliaca, facendo risuonare il pianerottolo di un pianto malcelato.
"Ma che è?" chiese il maggiore senza particolare interesse.
"Boh" rispose l'altro con voce sonnecchiante.
Ci fu un momento di silenzio, interrotto solo dai dialoghi del film, e tutto sembrò tornare come prima. Ma un istante dopo la porta di casa si aprì con uno scatto veloce e gracchiante, cogliendo completamente alla sprovvista i due piccioncini.
"Tana, Maremma maiala!" esclamò il minore schizzando in piedi non appena vide sua sorella.
Virgilio si mise subito seduto in maniera composta e lasciò malvolentieri la presa sul suo Dante, che stava correndo dalla ragazzina con l'ansia dipinta in volto. All'inizio non capì il perché di tutta quell'apprensione, visto che molto probabilmente quella peste, piccoletta com'era, non aveva notato nulla di strano sul divano, ma gli bastò darle un'occhiata per allarmarsi tanto quanto il suo fidanzato.
Tana se ne stava ferma sull'uscio, appoggiata alla maniglia con un'espressione sofferente e gli occhi pieni di lacrime. Le ginocchia erano completamente sbucciate e macchiate di un rosso vivo, con dei rivoletti di sangue che le arrivavano fino ai polpacci.
"Maremma bucaiola! Ma che cazzo è successo?" le domandò suo fratello quasi urlando.
"I Donati", singhiozzò lei stropicciandosi gli occhi con le mani sporche, "Brucia tanto".
Il toscano tremava leggermente ed era diventato pallido come un fantasma. Non faceva altro che gridarle domande a cui non riusciva a rispondere, mandando entrambi nel panico più totale. Il romano li raggiunse e si chinò di fronte alla ragazzina, facendo sì che i loro sguardi fossero alla stessa altezza.
"Sei caduta sull'asfalto?" le chiese con una dolce serietà.
Tana lo fissò con aria stupita, accorgendosi solo allora della sua presenza. Restò muta per un attimo, studiando velocemente quel tizio semisconosciuto, e poi gli rispose polemica.
"Non sono caduta. Mi hanno spinto".
"Io li ammazzo quei due!", esclamò il fiorentino furioso, "Se li becco, Maremma santa, lo giuro, li faccio neri!".
Le urla di Dante, per quanto giustificate, non stavano però migliorando la situazione: sua sorella non la smetteva di piangere e lamentarsi e suo fratello non faceva altro che agitarla ancora di più.
"Dobbiamo portarla all'ospedale", farneticò dopo una breve pausa, "C'è troppo sangue e...".
"No! Non ci voglio andare, idiota!", protestò Tana scuotendo con forza il capo, "Gli infermieri sono inquietanti! E chiamerebbero nonno, quindi...".
"Oh cazzo! Maremma maiala! Come lo diciamo a nonno!" gridò il toscano andando nel pallone più di prima.
"Nessuno va da nessuna parte", si intromise Virgilio con una calma che non ammetteva repliche, "'a ferita 'a posso puli' io, nun ce stanno problemi".
"Davvero?" fece Tana con una vocetta sorpresa.
"Davvero: nun è niente, basta disinfettalla e fascialla", le spiegò con fare rassicurante, "Ce l'avete er cicatrizzante?".
"No, non credo" rispose Dante.
"Allora famo così", disse il suo amato sfiorandogli la mano, "Te vai a comprallo 'n farmacia e 'ntanto io pulisco 'a ferita. Okay?".
Doveva allontanarlo da lì: non era del tutto corretto nei suoi confronti, ma doveva. Sapeva che non reggeva molto la vista del sangue e si stava agitando troppo. Se fosse andato a prendere un po' d'aria e si fosse tenuto impegnato, si sarebbe calmato e non sarebbe svenuto all'improvviso, aggiungendo un altro problema.
"Okay, vado".
Dante prese sua sorella per le spalle.
"Torno subito, promesso" la rassicurò prima di schizzare giù in strada.
Tana e Virgilio lo sentirono correre giù per le scale e sbattere il portone di sotto, poi si guardarono con l'aria di chi avrebbe preferito essere altrove: non erano mai andati molto d'accordo e di certo non erano mai stati da soli prima di allora.
"Ce la fai a cammina'?" le domandò il maggiore con un tono che suonò troppo freddo persino alle sue orecchie.
La ragazzina provò a fare qualche passo e una smorfia di dolore le deformò il volto. Stava facendo una grande fatica, cercando di attraversare il salone appoggiandosi il meno possibile a quel ragazzo che aveva visto appena due volte, ma il suo stoicismo orgoglioso e diffidente non le permetteva di arrendersi. Ma soffriva e si vedeva: arrancava con un cucciolo ferito, trascinando i piedi sul pavimento e mordendosi le labbra per non urlare di dolore.
"Te prenno 'n braccio?" le propose non senza un certo imbarazzo.
"No, ce la faccio benissimo da sola" gli rispose indispettita.
"Mo ce stanno le scale" le ricordò.
La bambina si fermò e lo fissò dritto in faccia con un'espressione tra il Ma sei serio? e il Ma che cazzo vuoi?. Poi si voltò e vide tutti i gradini che la attendevano, una lunga fila di rettangoli diseguali che pareva allungarsi all'infinito fino al piano di sopra.
"Giuro che, se mi fai cadere, io ti ammazzo" lo minacciò con fare incerto.
"No che nun te faccio casca': poi chi lo sente tu' fratello?" ci scherzò su per tranquillizzarla, ma invano.
Tana alzò le braccia e si fece sollevare da terra, non senza una buona dose di timore. Era terrorizzata dall'idea di rotolare giù per le scale e afferrava la maglietta del romano con una certa ansia ogni volta che, salendo uno scalino, aveva la sensazione di precipitare.
"Tranquilla che te tengo", la rassicurò Virgilio nascondendo lo sforzo, "Guarda che mica sei tutto 'sto peso".
"Tu spiacciati a salire, piuttosto!" gridò con fare ostile.
Il ragazzo si fermò in mezzo alle scale e fece scorrere le braccia un po' più giù sotto le sue gambe, in modo tale da poterla reggere meglio. Era piuttosto leggera, come suo fratello, e aveva come lui delle ginocchia spigolose, ma il sangue e il sudore rendevano scivolosa la sua pelle, costringendolo a dover sistemare più e più volte la presa.
Tana, però, questo non lo sapeva e interpretò quelle manovre un po' brusche come una specie di punizione. Cacciaguida, d'altronde, lo faceva molto spesso: quando era troppo insolente o troppo vivace, le faceva prendere un piccolo spavento per metterla in riga senza dover passare alle maniere forti.
"Per favore" aggiunse con due occhietti spaventati e abbassando i toni.
"Ce sto a prova', ma me scivoli e nun vedo be' gli scalini co' te 'n braccio: vado piano pe' nun cappottacce 'n due" si giustificò l'altro veramente dispiaciuto, notando come sussultasse tra le sue braccia al minimo movimento.
Tacquero entrambi e il romano si concentrò per raggiungere il piano di sopra senza sballottolarla o muoverle le gambe più del necessario. L'impresa fu più ardua del previsto, ma alla fine raggiunsero il vecchio bagno di maiolica e Viriglio si mise al lavoro.
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