Capitolo LXXIV
Mecenate mandò giù un altro sorso di sambuca. Sentì l'alcol bruciargli la gola e l'odore dell'anice risalire su per la faringe fino al naso. Si lasciò pervadere da quella piacevole sensazione di calore e si godette per un breve istante il sapore dolciastro sulla lingua.
Poi ricominciò a pensare, ricadendo nello stesso labirinto da cui cercava di evadere da settimane. Perché non riusciva ad essere veramente felice? Perché si ritrovava ad immaginarsi con Batillo se amava Orazio? Perché avrebbe voluto baciare Augusto in camera di Catullo?
Troppe domande a cui non sapeva rispondere. Bevve un altro goccio nella speranza che scendessero giù con il groppone che aveva in gola. Gettò la testa all'indietro e fissò un gruppetto di stelle, che si stagliavano timidamente sul cielo troppo chiaro e nuvoloso per svelarle meglio.
Nemmeno se lo ricordava quando era salito sul tetto del condominio, ma d'altronde poco importava: sarebbe stato da solo anche in camera sua, quindi perché non esserlo su quella landa desolata di cemento?
Gli capitava troppo spesso di sentirsi solo, a volte anche quando non lo era. Aveva come l'impressione di vivere in una bolla, alcune volte; in altre si credeva semplicemente fuori posto, come se non fosse quello il suo mondo.
Le uniche volte in cui la solitudine lo abbandonava era quando stava da solo con Orazio e Virgilio, ma soprattutto con Orazio. Con lui si sentiva protetto e al sicuro, talvolta persino invincibile, come se avesse avuto il potere di fare qualsiasi cosa, purché ci fosse stato lui al suo fianco.
Eppure non era stato così la sera prima: aveva pianto come una mammoletta e poi lo aveva snobbato brutalmente. Il senso di colpa lo perseguitava da tutto il giorno, ma non aveva avuto altra scelta: si era vergognato troppo.
Il suo ragazzo l'aveva visto vulnerabile innumerevoli volte nel corso degli anni, ma mai come in quella: Augusto era riuscito a tirare fuori il peggio di lui, quell'ombra oscura che tanto si ostinava a voler nascondere dietro a sorrisi falsi e modi gentili.
Perché sapeva che c'era qualcosa che non andava in lui, qualcosa di rotto, qualcosa di profondamente sbagliato. Altrimenti perché si sentiva così? Altrimenti perché tutta quella sofferenza, quell'angoscia, quel voler annegare in se stesso e non fare più ritorno?
Mecenate si alzò in piedi e si appoggiò al muro per non cadere. Gli girava un po' la testa e faceva fatica a muoversi. Sembrava che qualcuno gli avesse legato dei macigni agli arti, tanto erano pesanti. Perfino la bottiglia quasi vuota pareva pesare più di un quintale, ma non aveva la minima intenzione di posarla a terra: aveva ancora bisogno di lei.
Faceva fresco sul tetto e spirava un venticello da ovest, tuttavia lui aveva caldo, molto caldo. Forse era per quello che era andato sul tetto? Forse anche in camera sua faceva un caldo asfissiante, che gli impediva di respirare? Forse sì, forse no: come avrebbe potuto ricordarselo, ubriaco com'era?
Però le altre cose le ricordava eccome: ricordava tutto quello che avrebbe voluto dimenticare.
Ricordava il bacio di Batillo e il modo in cui si era strusciato addosso a lui mentre ballavano insieme. Ricordava il dolore e la rabbia con cui lo aveva affrontato di ritorno dalle vacanze di Pasqua. Ricordava la luce rassegnata e disgustata nei suoi occhi mentre gli diceva che gli faceva pena.
Ricordava i pomeriggi passati con Augusto e il modo in cui rideva alle sue battute idiote. Ricordava quando lo aveva consolato alla festa di Ovidio e lui lo aveva guardato dritto negli occhi, illudendolo che ci fosse qualcosa. Ricordava come lo aveva messo con le spalle al muro e il suo respiro caldo sulla pelle, mentre guardava quelle labbra che aveva desiderato così a lungo.
Ricordava il terrore negli occhi di Orazio la sera prima e il modo in cui lo aveva abbracciato forte. Ricordava gli sguardi preoccupati e la dolcezza forzata che gli aveva riservato, aumentando il suo senso di colpa.
Non aveva voluto far soffrire nessuno di loro, ma lo aveva fatto: aveva illuso Batillo, aveva rifiutato Augusto, aveva ferito Orazio. Perché sapeva di averlo ferito, sapeva che la sua freddezza era stata una pugnalata al cuore.
Ma d'altronde quello sapeva fare: feriva tutti quelli che amava. Li faceva preoccupare per nulla, quando sicuramente avevano problemi più grandi. Sapeva di essere un peso: lo era per i suoi genitori, presto lo sarebbe stato anche per il suo ragazzo e il suo migliore amico.
Si avvicinò al bordo del tetto. C'era un muretto piuttosto basso tra lui e il vuoto, ma perfino un bambino sarebbe riuscito a scavalcarlo.
Forse sarebbe stato meglio se non fosse mai esistito: avrebbe evitato un sacco di sofferenze a tutti quanti. Sua madre non avrebbe dovuto crescere un figlio che non aveva mai voluto. Suo padre non avrebbe dovuto sopportare di avere un figlio frocio con l'isteria da ciclo. Orazio avrebbe avuto un ragazzo che non aveva il panico a dirgli che lo amava. Virgilio non avrebbe avuto un'altra persona di cui preoccuparsi.
Si sporse leggermente in avanti e accarezzò pigramente il vento, lasciandogli asciugare la pelle madida di sudore. Guardò oltre il parapetto e osservò il marciapiede: sembrava tutto così piccolo e insignificante visto da lassù.
E in mezzo c'era il vuoto, tra lui e l'abisso. Era elettrizzante sentirsi così lontano da terra. Saranno stati quanti, trenta metri? Se si fosse buttato, non avrebbe avvertito dolore schiantandosi a terra. O forse sì? Magari avrebbe sentito le ossa rompersi e il cervello spappolarsi sull'asfalto.
Un solo passo e sarebbe finito tutto: niente più voci, niente più dolore, niente più angoscia. Niente più notti insonni o tormentate da incubi - la valeriana ormai non gli faceva più alcun effetto. Non avrebbe più fatto soffrire nessuno, non sarebbe più stato d'intralcio a nessuno. E lui avrebbe finalmente avuto un po' di pace.
Ma lui non aveva la minima intenzione di morire così, a diciannove anni: lui voleva vivere.
Lui voleva andare all'università, fondare un giornale tutto suo e passare i fine settimana al lago con i suoi amici. Voleva vedere il mondo, comprarsi un posto che fosse solo suo e prendersi un cane.
E voleva stare con Orazio e mettere in imbarazzo Virgilio il giorno del suo matrimonio, raccontando a tutti le innumerevoli figure di merda della sua esistenza.
Si ritrasse spaventato dal muretto e rimise tutti gli arti all'interno, facendo un respiro più profondo dei precedenti.
Avrebbe trovato un modo per mettere a posto le cose: lo avrebbe cercato con tutte le forze, fosse stata l'ultima cosa che avrebbe fatto. Voleva davvero trovare una soluzione, ma non ci riusciva e si ritrovava puntualmente a riaffogare in se stesso.
Le lacrime rigavano le sue guance già da mezz'ora e non sembravano finire mai. Non ne poteva più di quell'angoscia e di quel profondo senso d'inadeguatezza: ne sarebbe uscito, ne voleva uscire.
Una figura solitaria apparve in fondo alla via, percorrendo a passo spedito il marciapiede. Teneva le spalle ferme e rigide, muovendosi come se stesse marciando, e si spostava di tanto in tanto i riccioli biondi da davanti il viso.
"Virgilio!", lo chiamò Mecenate con un entusiasmo tanto improvviso quanto ingiustificato, "Apetta! Qui su! Qui su, aoh!".
Il suo amico non lo sentì e continuò a camminare come se nulla fosse. Il biondino urlò il suo nome ancora un paio di volte, ma invano, così decise di telefonargli. Le note di Neverending Story giunsero lontane alle sue orecchie, mentre il cellulare squillava una trentina di metri più giù.
"Pronto", fece Virgilio dall'altra parte della linea, "Ho appena accompagnato Dante 'n stazione: che cazzo...".
"Ehi, apetta!", lo interruppe il suo migliore amico, "Guarda qui su!".
La sagoma a terra sollevò la testa e sobbalzò, appoggiandosi al lampione per non cadere.
"Che cazzo ce fai lassù?" lo sentì urlare, tanto che dovette allontanare il cellulare dall'orecchio.
"Rifletto sulla merda d''a mia esistenza. Affogo er male de vive n''a sambuca", gli rispose con una nonchalance agghiacciante, "Te che...".
"Resta fermo là, mortacci tua!", gli ordinò Virgilio precipitandosi al portone, "Sto a sali'. Te statte lontano dar bordo e... Sto a sali', okay?".
Solo in quel momento Mecenate realizzò che cosa avesse appena fatto: si era lasciato prendere dall'alcol e aveva allarmato il suo migliore amico senza motivo. Lo sentiva ansimare al telefono, mentre correva su per le scale dell'androne e imprecava perché l'ascensore tardava ad arrivare.
"Ecco, sto ad arriva': te nun fa' cazzate" lo udì ripetere come un disco rotto almeno una decina di volte.
Lo aveva proprio mandato nel panico. E per questo si faceva pena da solo.
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