Capitolo LXXIII
Quando si era svegliato quella mattina, Mecenate aveva avuto la sensazione che avrebbe stata una giornata di merda. La testa sembrava sul punto di esplodergli e i raggi del sole, filtrando attraverso le persiane socchiuse, gli avevano ferito gli occhi, costringendolo a procedere a tentoni nella penombra di camera sua.
Gli faceva male lo stomaco e, non appena era stato in grado di formulare un pensiero preciso, la consapevolezza del disastro che era successo la sera precedente lo aveva investito in pieno petto, facendolo sentire in colpa per come si era comportato con Orazio.
Era stato soltanto in un secondo momento che aveva notato che qualcuno aveva ripiegato i vestiti, che prima erano buttati alla peggio sul pavimento. Così come non aveva percepito subito il profumo di torta al cioccolato che impregnava camera sua.
Non ci aveva messo molto a capire che cosa stesse succedendo: i suoi genitori erano ritornati prima del previsto e senza alcun preavviso. Avrebbe dovuto giocare alla brava famiglia felice cristiana: si sarebbe seduto a tavola, avrebbe aspettato che i suoi rendessero grazie e avrebbe fatto finta di non odiarli.
E ci stava riuscendo anche bene, meglio di quanto avesse immaginato. Tra la sbornia e il caos che aveva in testa, aveva pensato che sarebbe stato più difficile del solito mandare giù le loro battute omofobe e la loro completa mancanza d'interesse nei suoi confronti, ma forse li aveva sopravvalutati: in fondo non lo vedevano da settimane, magari un po' era mancato loro.
"Come va a scuola, tesoro?", chiese Cilnia finendo di tagliare la torta, "Vi stanno massacrando con la scusa della maturità?".
"A scuola va bene", gli rispose suo figlio sforzandosi di sembrare tranquillo, "Il professor Omero ha finito il programma di greco questa settimana e ha detto che d'ora in avanti ripasseremo e basta. Per il resto, ci stanno sommergendo di verifiche, ma non mi preoccupano più di tanto".
"E con i ragazzi? Tutto okay?" domandò suo padre lasciando trapelare una certa freddezza.
Sua moglie lo fulminò con lo sguardo, ma poi i suoi occhi si tranquillizzarono, ritornando a brillare nelle loro iridi verdi. Con una mano giocava con la piccola croce argentata che portava sempre al collo, con l'altra aveva afferrato nervosamente il cucchiaino, facendo impallidire le nocche.
Fu solo allora che Mecenate si accorse che si trovava nell'ennesimo teatrino dei suoi genitori: avevano studiato bene il copione, stavano recitando la loro parte, ma i loro corpi tradivano involontariamente il loro nervosismo.
Questo spiegava molte cose: spiegava il fatto che fossero tornati prima, spiegava la torta al cioccolato, spiegava le premure - ovviamente pianificate - che gli avevano riservato quel giorno. C'era qualcosa sotto e, qualunque fosse stata, quella era solo la quiete prima della tempesta. E di certo non si sarebbe fatto travolgere.
"Virgilio è preoccupato per Marzia, ma sapete com'è fatto: non ne parla, non lo dà a vedere e cerca di essere ottimista", incominciò recitando, per il momento, il suo ruolo di figlio modello, "Orazio ha un po' d'ansia perché ha preso tre all'ultimo compito di matematica, ma non credo che Pitagora voglia lasciarlo con una materia sotto".
"Passi molto tempo con Orazio negli ultimi tempi" commentò suo padre con fare ostile.
Il biondino si irrigidì sulla sedia e guardò con la coda dell'occhio la reazione di sua madre: sembrava imperturbabile, ma stringeva con troppa forza le dita attorno al cucchiaino, come a voler sfogare silenziosamente il suo disagio.
"Beh, siamo cresciuti insieme e siamo molto amici" mentì spudoratamente, cosa che era abituato a fare durante quei pranzi in famiglia.
"La satira di Giovenale lascia intendere diversamente".
"Lucio!" lo rimproverò sussurrando Cilnia, fulminandolo di nuovo con lo sguardo.
Mecenate sbatté le palpebre un paio di volte, ma non era poi così sorpreso: chiunque sembrava aver letto quel pezzo, quindi perché non anche i suoi genitori? O magari Orazio ne aveva parlato con i suoi e Claudia, da brava amica e mamma preoccupata, ne aveva parlato con sua madre. O forse, anche se meno probabilmente, qualche genitore che frequentava la parrocchia le aveva chiesto di quella checca senz'ossa di suo figlio.
"In effetti è vero: io e Orazio stiamo insieme" ammise alla fine, tanto era impossibile negare l'evidenza.
"Ed è anche vero che ti sei divertito a traviare ragazzini?" insistette Lucio, stavolta senza celare il suo disgusto.
"No, questo no" fece lui alzando leggermente la voce per la foga.
"Questo Giovenale però afferma il contrario", constatò sua madre con tono di rimprovero, "E, conoscendo le tue abitudini, non mi sorprenderebbe se fosse vero".
Mecenate rimase letteralmente a bocca aperta: davvero i suoi genitori lo ritenevano capace di ciò, di andare in giro a spezzare cuori per puro divertimento? Davvero preferivano credere ad un ragazzino che nemmeno conoscevano piuttosto che a loro figlio? Strinse forte i pugni nelle tasche dei pantaloni e si preparò alla guerra.
"E quali sarebbero le mie abitudini?", domandò esterrefatto, "Ho diciannove anni e siamo in un Paese libero: mi piacciono i maschi, quindi esco con i maschi e mi scopo i maschi. Sono queste le mie abitudini?".
"Molte persone hanno avuto una fase gay, tesoro", iniziò Cilnia con una fastidiosa aria benevola, "Prima o poi incontrerai una ragazza che ti farà impazzire e ritornerai sulla giusta strada. La natura a volte gioca brutti scherzi e gli ormoni...".
"Mamma, io sono gay!", urlò il biondino, "Non è una fase: mi piacciono i ragazzi, punto e basta! Non sono gli ormoni, non è la natura che gioca brutti scherzi, no: io sono gay, mi piace il cazzo! Sono otto anni, porca puttana, che ve lo ripeto!".
"Allora come si spiega Orazio?", intervenne Lucio con una certa saccenza, "Lui ha avuto molte ragazze, poi improvvisamente gli interessi tu".
"Orazio è bisessuale, non è gay" lo corresse.
"In ogni caso, passerà e ti troverai finalmente una ragazzetta che ti piaccia" tagliò il discorso sua madre.
"Sempre che non attiri una lesbica", disse suo padre con un ghigno beffardo, "A volte dimentico che io ho un figlio, con 'sti capelli lunghi e l'isteria da ciclo".
Mecenate finse di rimanere impassibile a quei commenti, ma dentro si sentì pugnalare al cuore. Eppure non erano una novità: avrebbe dovuto essere abituato a quelle battute sulla sua androginia.
"In effetti papà ha ragione, tesoro", rincarò la dose Cilnia con nonchalance, "Nessuna ragazza ti vorrebbe mai, smorto come sei. Devi darti da fare e...".
"Ma io non voglio una ragazza!", gridò con una luce disperata negli occhi, "Io mi sono innamorato di Orazio e voglio stare con Orazio: che cosa c'è di difficile da capire?".
"Oh, tesoro", sospirò sua madre accarezzandogli dolcemente la guancia, "Come puoi dire di essere innamorato di Orazio? Non sai ancora che cosa sia l'amore. Non hai mai avuto una ragazza e di certo non lo hai imparato da noi: non sai amare perché nessuno ti ha mai amato. Perciò smettila con questa storia e finisci la torta".
Il biondino impietrì e per un istante credette - sperò - di essersi immaginato tutto. Il volto di quella donna era troppo sereno per aver appena pronunciato le parole più crudeli che una madre potesse dire a suo figlio: lei non lo amava, loro non lo amavano.
Non che fosse una grande scoperta: sapeva di essere capitato, sapeva di essere vivo solo perché lei era troppo religiosa per abortire, sapeva di non essere quello che loro volevano che fosse - anche perché, in realtà, lui neanche sarebbe dovuto esistere.
Ma sentirselo dire, chiaro e tondo, come se nulla fosse, fu un colpo troppo duro anche per lui. Aveva le unghie affondate nella carne, ma quel dolore non bastava a dargli io controllo. Sentiva gli occhi riempirsi di lacrime e la sola idea di mandare giù qualcosa gli diede la nausea.
"Non ho più fame", riuscì a dire a stento, "Posso andare in camera mia? Ho molti compiti da fare e...".
"Ma certo, tesoro" concesse Cilnia con un sorriso falso.
Mecenate si alzò di scatto, facendo stridere la sedia sul pavimento, e si avviò verso il corridoio a passo svelto. Le lacrime cominciarono a rigargli le guance e il solito peso riapparve sul suo petto, facendolo sprofondare in se stesso.
Con la coda dell'occhio vide il vecchio mobiletto di mogano del salone: cozzava con l'arredamento moderno della sala, ma era stato un regalo di nozze e i suoi non se l'erano sentita di mandarlo indietro.
Controllò rapidamente che nessuno lo stesse guardando e aprì lo sportello più in alto, dove erano "nascosti" gli alcolici. Ammirò le bottiglie di vetro, perfettamente allineante come se fossero state esposte in un bar, e fece scorrere lo sguardo sulle etichette colorate. Non appena ebbe trovato quello che cercava, se la svignò nella sua stanza con la sambuca e chiuse la porta a chiave.
"Du' giorni su due fa schifo", pensò prima di bere il primo goccio, "Ma so' troppo stanco pe' esse' sobrio. Me lo merito 'n po' de riposo da 'sta merda, no?".
Ma quello che il ragazzo sembrava aver dimenticato, sebbene ci avesse provato anche la sera prima, era che l'alcol non poteva essere la sua soluzione e ubriacarsi lo avrebbe fatto sentire solamente peggio.
Perché, una volta che lo hai trovato, per quanto tu possa fuggire, l'abisso troverà sempre un modo per raggiungerti.
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