Capitolo LXVIII
La mezzanotte era ormai vicina e l'aria si era finalmente rinfrescata. In circostanze normali, Virgilio avrebbe lasciato la festa e sarebbe andato a passeggiare mano nella mano con il suo ragazzo, mostrandogli la solitaria bellezza della Roma di notte.
Ma quella non era una serata come le altre: con ogni probabilità, quella sarebbe stata l'ultima festa prima della fine della scuola e Properzio era talmente ubriaco che lasciarlo a se stesso sarebbe stato un rischio troppo grande da correre.
Anche Dante avrebbe preferito andarsene e nascondersi da qualche parte per limonare in santa pace con il suo amato, eppure non si lamentava perché sapeva che, ben presto, sarebbero stati nudi sotto alle coperte. Pertanto sopportava di buon cuore le premure del maggiore per il suo amico - premure che, tra l'altro, lo rendevano ancora più attraente ai suoi occhi.
"Daje Prope': 'namo a casa", provò a convincerlo il romano per l'ennesima volta, "Tanto Cinzia nun ce viene, l'hai detto pure te!".
"Ma sta a arriva' altra gente: te che ne sai che nun vie' mo pure lei?", obiettò Properzio agitando una mano per aria in modo buffo, "Guarda, so' venuti pure quei du' cojoni!".
Orazio e Mecenate apparvero all'ingresso, mano nella mano, con l'espressione di chi si fosse rassegnato all'idea di andare al macello. Si osservavano in giro, dicendosi qualcosa che la musica impediva agli altri di sentire.
Virgilio si sbracciò per attirare la loro attenzione e fece cenno di raggiungerli, ma rimasero fermi come due stoccafissi a fissare la gente che affollava lo stanzone.
"Demente Uno e Demente Due: stemo ecco!" urlò improvvisamente Properzio, facendo spaventare un gruppo di ragazze accanto a lui.
"Ma era proprio necessario?" chiese il fiorentino fortemente a disagio.
"Se stamo a aspetta' che vedano i segnali de fumo dell'amore tuo, famo prima a diplomacce!".
"Ma vaffanculo, Prope'!", imprecò bonariamente il suo amico prima di rivolgersi ai nuovi arrivati, "Alla bonora, eh!".
"C'avevamo da fa'", rispose Mecenate fingendo una certa innocenza, "Se proprio te la devi pijia' co' qualcuno, pijiatela co' Fidia!".
"Seh, certo", commentò maliziosamente Properzio, "Proprio er coso de arte dovevate fa'. De venerdì sera, poi".
"Almeno noi scopamo" gli disse Orazio facendogli il verso.
Il loro amico sfoderò due amorevoli diti medi e fece per aggiungere qualcosa, ma tutta la sua attenzione fu catturata da un'esile figura che aveva appena varcato la soglia.
"Cucciolotta!" urlò mentre sgomitava per raggiungerla.
La ragazza si voltò di scatto verso di lui e un sorriso le illuminò il volto. Non fece in tempo a salutarlo che si ritrovò stretta tra le sue braccia e muta per i baci che il suo ragazzo continuava a stamparle sulle labbra.
"Quella è la famosa Cinzia?", domandò Dante stupido, "Cioè, è davvero lei?".
"Sì, perché?" gli fece il biondino.
Il toscano sollevò le spalle e rimase in silenzio. La verità era che aveva così tanto sentito parlare di lei e delle sue avventure che si era immaginato una Cinzia sensuale, magari anche un po' volgarotta, una specie di femme fatale. Non avrebbe potuto sbagliare di più in vita sua.
Davanti a sé vedeva una creatura di una bellezza sconcertante e pura, per certi versi. Le fossette sulle guance, le trecce che le ricadevano sulla schiena, il modo in cui sembrava fluttuare in quell'abbraccio che l'aveva sollevata da terra: ogni cosa in lei la faceva assomigliare ad una bambina piuttosto che ad una futura madre.
"Nun te cruccia': c'eravamo immaginati tutti Cleopatra prima de conoscella", gli sussurrò all'orecchio il maggiore intuendo i suoi pensieri, "Ma d'altronde è 'na ragazza sessualmente libera in un monno maschilista e ipocrita: 'e malelingue ce mettono du' seconni e mezzo a fattela pensa' 'na mezza puttana".
"Certo che so' proprio carucci 'nsieme", si ritrovò a considerare Orazio con un sorriso compiaciuto, "Però ancora nun ce li vedo a combatte' co' pannolini e pappette".
"C'è ancora tempo pe' 'ste cose", gli spiegò Mecenate avvicinandosi a lui, "Cinzia 'n teoria sta ar seconno mese: avoja a te i cazzi a cui devono pensa' prima de preoccupasse de 'ste cose!".
"Sarà". Il ragazzone gli circondò la vita con un braccio e posò le labbra sul suo orecchio. "L'unico cazzo a cui riesco a pensa' è er tuo".
Mecenate trattenne un sorrisetto soddisfatto e lo baciò velocemente sulle labbra. Avrebbe voluto dargliene altri mille e accanirsi su quella bocca, che ormai poteva disegnare ad occhi chiusi. Avrebbe voluto, ma non ne ebbe la possibilità.
"Come fai a sapere tutte queste cose sulle gravidanze e i bambini?", gli chiese meravigliato Dante, "Io ho due fratelli e non ci capisco un cazzo di queste cose, Maremma maiala!".
"Ho tanti cugini e le mie zie hanno sempre parlato tranquillamente di queste cose, anche davanti a noi" gli rispose il biondino cercando di non sembrare infastidito dall'interruzione.
"Tanti quanti?" insistette l'altro incuriosito.
"Beh, tanti", incominciò il biondino, "C'è Scipione Emiliano, poi i gemelli, Patrizia, Fabio - anche se tecnicamente non è mio cugino - e adesso forse anche zia Minnie è incinta, quindi...".
"Mecenate, te posso parla'?" lo chiamò qualcuno alle sue spalle.
Il ragazzo si voltò e incontrò due occhi fieri e sicuri, fermi come solo quelli di un animo risoluto possono essere. La linea delle spalle era sempre la stessa, ma le sue braccia da rugbista si erano ingrossate a forza di allenarsi. Si era fatto crescere i capelli e ora li teneva legati sulla nuca con una certa grazia, che cozzava un po' con quell'aria da duro.
Il tono della sua voce era rimasto quello di chi è abituato a dare ordini e vedere soddisfatti tutti i suoi desideri, ma suonava più gentile e pacata alle sue orecchie. Eppure non c'era nulla di pacato e gentile nel modo in cui lo aveva chiesto, interrompendolo come se non stesse parlando con i suoi amici.
Mecenate avvertì una morsa stritolargli lo stomaco e la gola, impedendogli quasi di respirare. Il suo primo pensiero fu che voleva scappare via e sottrarsi a quello sguardo, che lo aveva stregato per così tanto tempo e lo aveva ferito nel profondo, lasciandogli una cicatrice sul cuore.
Anzi, forse sarebbe stato meglio se fosse svenuto o morto in quel preciso istante. Magari qualche Nume benevolo avrebbe potuto aprire una voragine sotto ai suoi piedi e farlo sparire, salvandolo da se stesso, da lui e da quello che sarebbe potuto accadere.
Perché, nel momento esatto in cui i loro occhi si erano incontrati e aveva percepito il suo tocco leggero e saldo sulla spalla, una crudele verità lo aveva investito come un fiume in piena: nonostante tutto quello che era successo, nonostante il pianto e la sofferenza, provava ancora qualcosa per Ottaviano Augusto. E per questo si faceva pena da solo.
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