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Capitolo LXIX

Mecenate non avrebbe dovuto dargli retta. Aveva letto la preoccupazione e lo sdegno nello sguardo del suo fidanzato, aveva percepito il disprezzo di Virgilio, perfino Dante l'aveva guardato con aria interrogativa, come a dire Ma che cazzo fai, Maremma maiala!.

Eppure aveva seguito Augusto in mezzo alla folla e non aveva neppure sussultato quando si erano chiusi alle spalle la porta della camera di Catullo.

Te voglio solo parla', roba de du' minuti, perché mai avrebbe dovuto agitarsi?

Ma stava solo mentendo a se stesso: aveva tutti i motivi possibili per non voler restare da solo con lui.

Era per colpa sua che aveva perso il giornalino scolastico: se non si fosse diffusa la voce del loro divorzio, quei leccapiedi non avrebbero smesso di mandargli i loro articoli e Ovidio non avrebbe preso il comando della redazione. Magari non ci sarebbe nemmeno stata nessuna satira di Giovenale e Orazio non avrebbe mai subito outing.

Era per colpa sua anche che Varo lo aveva quasi ammazzato e gli aveva devastato la mente: se non fosse stato un omofobo egocentrico del cazzo, non avrebbe frequentato certa gentaglia e il biondino non avrebbe mai incontrato il protagonista dei suoi peggiori incubi.

Ma il motivo principale per cui non sarebbe dovuto essere lì era che amava il suo fidanzato e non si sarebbe dovuto appartare con qualcuno che, per quanto odiasse con tutto il cuore, non gli era ancora del tutto indifferente.

"Come stai?" esordì Augusto appoggiandosi con una spalla alla libreria.

"Perché, te 'nteressa?" gli domandò a sua volta Mecenate, incrociando le braccia sul petto.

Erano lontani l'uno dall'altro e si studiavano a vicenda con aria guardinga, cercando di prevedere dove sarebbe stato sferrato il prossimo colpo.

"Certo che me 'nteressa, Mecena'!", rispose con aria ferita, "Semo amici dopo tutto, no?".

Il biondino trattenne l'impulso di sputare a terra.

"Amici? Sur serio?", obiettò disgustato, "Nun so' 'n finocchio de merda?".

Augusto abbassò lo sguardo con fare colpevole e strinse le labbra.

"T'ho sentito quer giorno ar bar, sai?", continuò con una veemenza che non accennava a scemare, "Tutto a fa' er figo, tutto a famme li complimenti! Questo è l'omo che ce porterà 'n Parlamento! 'n sacco de fregnacce!".

"Penso sur serio che potresti portacce 'n Parlamento, Mecena'!", lo interruppe l'altro con occhi da supplice, "C'hai le palle, porca puttana! Er Censore t'ha fatto fori pe' quer cojone de Nasone e te hai fatto er Circolo  pe' teneglie botta! Cazzo, ne parlano pure 'n facoltà!".

Mecenate fu pervaso da un improvviso moto d'orgoglio e di soddisfazione: il fatto che parlassero del suo fanzine anche all'università era una piacevole novità e non poteva sentirsi fiero di se stesso.

Ma la felicità ebbe vita breve: ricordava fin troppo bene come quel ragazzo l'avesse abbindolato in passato con le sue parole di miele e non era di certo disposto a cadere di nuovo in quell'insidia. 

"Però so' 'n finocchio de merda: t'è bastato che te dicessi de no e - puff - tutta 'a stima è annata a fasse fotte'!".

"Senti, me dispiace, okay?", si scusò il maggiore esasperato, "Sinceramente, so' stato 'n vero cojone, lo ammetto. E me dispiace sur serio de...".

"Che cosa vuoi da me?" chiese freddamente il minore con occhi assassini.

"Stai sur serio co' Flacco?" gli domandò a bruciapelo.

Certo, la satira di Giovenale: quale altro motivo avrebbe potuto spingerlo a farsi vivo? Quel primino aveva insinuato che la loro non fosse una semplice amicizia, aveva ferito la sua virilità mettendo in dubbio la sua eterosessualità: doveva assicurarsi di persona che non circolassero strane voci o avrebbe perso la sua beneamata popolarità!

Ma perché, tra tutte le domande che avrebbe potuto porgli per iniziare il discorso, aveva scelto proprio quella?

"Sur serio? Questo te 'nteressa sape'?", lo pungolò con un sorriso di scherno, "Perché nun vai dritto ar punto e 'a famo finita co' 'sta pupazzata?".

Augusto si rimise dritto e fece qualche passo verso di lui. Mecenate indietreggiò istintivamente, ma non poté andare lontano: si ritrovò con la schiena al muro e il volto del ragazzo a pochi centimetri dal suo.

"C'hai du' occhi bellissimi" gli sussurrò spostandogli dietro alle orecchie una cioccia di capelli, sfiorandogli con le dita la guancia morbida.

Poteva percepire il suo respiro caldo sulla pelle e nel suo sguardo leggeva un desiderio segreto, che aspettava solo di essere esaudito. Le loro labbra si facevano sempre più vicine e i loro nasi si toccarono con dolcezza.

Per un istante il biondino ebbe l'impulso di cedere alla tentazione e colmare quella distanza, baciare quella bocca che aveva sognato per così tanto tempo.

Ma fu solo un momento, perché presto la rabbia si fece strada dentro di lui, correndo a briglie sciolte fino al suo cuore.

"Ma che cazzo fai!" gridò spingendolo via, lontano da sé.

"Tu me piaci, Gaio Mecenate", gli confessò il maggiore portandosi una mano sul petto, "Tu me piaci da 'mpazzi'! So' stato 'n vero cojone a nun capillo prima!".

"No, non è possibile, cazzo!" pensò Mecenate incominciando a perdere seriamente il controllo.

Il suo volto inorridì in una smorfia agghiacciante, i pugni si strinsero nelle tasche affondando le unghie nella carne, nella speranza che quel dolore reprimesse il pianto e gli permettesse di mantenere un briciolo di lucidità - se lo sarebbe fatto bastare.

"Quanno sei sparito me so' sentito perso!", continuò a raccontare con una voce disperata che non sembrava sua, "Pensavo de volette co' me solo perché c'hai le palle e sei 'na persona meravigliosa, ma me sbagliavo: tu m'hai rapito, mortacci tua! E c'ho messo 'na vita a capillo perché nun potevo credecce de esse' frocio pure io! Ma quanno Varo m'ha raccontato de quello che...".

"Tu lo sapevi?", gridò Mecenate furioso, "Tu lo sapevi e nun hai fatto 'n cazzo? Nun sei manco venuto a controlla' che stessi be'? 'nfatti se vede, quanto te piaccio! L'amico tuo m'ha quasi ammazzato de botte come 'n cane e te nun hai fatto un emerito cazzo!".

"Nun risponnevi ai messaggi e ignoravi le mie chiamate: come cazzo facevo?" si giustificò l'altro passandosi una mano tra i capelli per l'agitazione.

"Eppure stasera m'hai trovato. Perché te sai sempre dove e come trovamme: quinni nun spara' 'ste cazzate, che tanto nun ce crede nessuno" gli fece notare spalancando le braccia.

Il volto di Augusto si rigò di lacrime, il suo petto non faceva altro che alzarsi e abbassarsi.

In circostanze diverse, avrebbe avuto pietà di lui: era grande e grosso, faceva il figo e tutto il resto, ma era solo un bambinone che non riusciva a venire a patti con chi fosse davvero.

L'unico sentimento che provava era ribrezzo e la rabbia stava velocemente prendendo il controllo della sua lingua.

"Nun te piaccio io: te piace er modo 'n cui te faccio senti', er modo 'n cui te torno utile quanno te serve 'na mano!", aggiunse con perfidia, "Se davvero te piacessi e ce tenessi a me, saresti corso da me nun appena saputo de quell'encefalico dell'amico tuo, porca puttana! Se davvero me volessi be', te staresti stato zitto e avresti evitato tutta 'sta manfrina perché io c'ho er ragazzo!".

Si fermò per riprendere fiato e osservare con quale aria da miserabile il grande Ottaviano Augusto si fosse fatto piccolo ai suoi occhi, limitandosi a scuotere in silenzio il capo in segno di negazione.

""Sì, io sto co' Orazio Flacco, chiaro?", riprese con rinnovato veleno, "Finalmente sto co' qualcuno che me ama e che se farebbe ammazza' - letteralmente - pur de famme senti' felice e ar sicuro!".

"E tu? Lo ami?", domandò Augusto a bruciapelo, "Tu ami Flacco?".

"Sì" rispose l'altro con una sicurezza che nemmeno sapeva di avere.

I due rimasero muti per un tempo che a loro parve infinito, ma che fu al massimo qualche minuto. I loro sguardi evitavano di incrociarsi in quella stanza, che pareva soffocarli e costringerli a guardarsi almeno con la coda dell'occhio.

La tensione era così palpabile da poter essere tagliata con un paio di forbici smussate, ma Mecenate non aveva intenzione di fuggire come un codardo.

"Spero pe' te che sia vero", sospirò alla fine Augusto, "Veramente, lo spero de core".

Il ragazzo affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e fece per uscire dalla stanza, senza preoccuparsi se qualcuno avrebbe potuto vederlo in quello stato, rosso e bagnato di pianto. Stava giusto per chiudersi la porta alle spalle, quando esitò sulla soglia e si voltò a guardarlo.

"Ma nun credo che finge' te possa renne' veramente felice" aggiunse prima di scomparire in corridoio, lasciando nella camera di Catullo un biondino sull'orlo di una crisi.

Perché era vero: per quanto amasse Orazio, il fanzine stesse andando alla grande e i suoi amici gli volessero bene, aveva come la sensazione che un'ombra minacciosa incombesse sulla sua testa. Ed era più facile fingere che fosse tutto okay piuttosto che parlare delle voci subdole che lo infestavano.

Preferiva fingere di essere felice piuttosto che esserlo sul serio perché era troppo debole per affrontare l'abisso: per questo si faceva pena da solo.

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