Capitolo LIII
Quell'anno maggio arrivò quasi all'improvviso e con esso il caldo: le giornate si erano allungate, le mattinate erano piacevolmente fresche e ogni scusa era buona per andarsi a prendere una grattachecca sul Tevere. Se solo ne avessero avuto il tempo: la maturità era sempre più vicina e i professori erano sempre più affamati di voti, quindi l'unica cosa a cui potevano pensare era lo studio.
O almeno così sarebbe dovuto essere: tra Virgilio che viveva da rifugiato dai Flacco, Orazio che voleva solamente stare con il suo ragazzo e Mecenate che viveva l'ennesima crisi esistenziale, il trio passava più ore a cazzeggiare e arrovellarsi sui propri crucci che a mettersi sotto sul serio.
"Ma chi cazzo me lo fa' fa'?", sbottò sottovoce il biondino strappando un'altra pagina di quaderno, "Ma io vado ar classico: cazzo me ne frega degli integrali?".
Erano due ore che era fermo sullo stesso esercizio e non ne poteva più. Era sempre stato bravo in matematica e i numeri sapeva gestirli piuttosto bene, ma gli integrali no: quelli non li capiva proprio. Che poi la teoria non era neanche così difficile, ma la sua testa era altrove e gli era impossibile concentrarsi.
Il trillo del citofono risuonò per l'appartamento e lo distolse dai suoi studi matti e disperatissimi. Si alzò svogliatamente e, senza curarsi di mettersi le ciabatte, andò a vedere chi potesse essere a quell'ora.
"Chi è?" chiese parlando nell'interfono.
"A bella copia tea!" rispose suo cugino ridacchiando.
"Oh, Emilia'! Sali!".
Mecenate amava tutti i suoi cugini sabini: l'avevano sempre fatto sentire a casa e ben accetto, anche se di fatto non li vedeva quasi mai. Erano stati molto comprensivi e accoglienti quando aveva fatto coming out - in realtà l'avevano capito già da un pezzo che il loro romano preferito fosse gay - e avevano letto ogni singolo numero del giornalino scolastico quando ne era stato direttore.
Ma con Emiliano era diverso: lui lo ammirava, sin da quando erano piccoli. Avevano lo stesso fisico smilzo e gli stessi modi affabili, ma Emiliano era sempre stato di più: era sempre il primo quando si parlava di difendere i suoi fratelli, aiutava suo padre in azienda, riusciva a mantenere la media del trenta a Storia e se ne andava in giro a vivere strane avventure con il suo migliore amico, Polibio. Era, insomma, tutto quello che il minore avrebbe voluto essere e per questo teneva la sua opinione in grande considerazione.
I due si abbracciarono un po' goffamente sulla porta di casa, cercando di non schiacciare la sporta che il ragazzo portava in spalla.
"Com'è da 'ste parti?" gli domandò entusiasta Mecenate facendolo entrare in casa.
"Ti ho portato le fave dell'orto: alcune sono un po' brutte, per carità, ma sono buone", spiegò Emiliano posandole sul tavolo della cucina, "E poi volevo assicurarmi che stessi bene".
"Ma nun te preoccupa' pe' me: so' abituato a 'sta da solo, mica me moro de fame!", disse l'altro con un sorriso dolceamaro, "Comunque grazie pe' 'e fave, quelle vostre so' molto meglio de quelle chimiche der supermercato".
Suo cugino gli fece cenno di non preoccuparsi del disturbo e tornò subito alla carica. Lo conosceva troppo bene per non riconoscere i suoi tentativi di sviare il discorso: in tanti anni non erano mai cambiati e lui, ormai, sapeva come fronteggiarli.
"Lo so che te la cavi perfettamente da solo e che sei indipendente da questo punto di vista, ma a Pasqua non eri in gran forma: pareva che stessi morendo dentro. Nonna Emilia dice che ti sei sciupato troppo - non posso darle torto - e hai la faccia di chi dorme a fatica. Che c'hai?".
Il biondino distolse lo sguardo istintivamente, sentendosi colpito nel profondo. Lo odiava quando era così diretto e gli sbatteva in faccia l'evidenza: quando lo faceva Virgilio lo sopportava malvolentieri, ma il suo amico lo faceva con chiunque; quando era la volta di Orazio, beh, aveva imparato a convivere con la sua brutalità. Ma con Emiliano no, non poteva proprio farcela: teneva troppo a fare una buona impressione con lui per accettare che lo leggesse in quel modo.
"No, niente" provò a mentire quasi balbettando, le mani affondate nei pantaloni della tuta.
"Non sparare cazzate che hai cambiato faccia così", lo smascherò subito schioccando le dita, "C'è qualcuno che ti dà fastidio? Hai problemi a scuola? Zia Cilnia è più stronza del solito? C'è qualche stronzo che ti sta facendo penare?".
"Ma no", provò a rassicurarlo, "Proprio male male che va, lo stronzo potrei essere io".
Emiliano tentò di dissimulare la sua preoccupazione, ma fu tradito dall'irrigidirsi dei muscoli del collo e delle spalle. "Nah, non credo". Esitò un momento per scegliere con cura quali parole usare per non essere troppo brusco e rischiare di farlo chiudere a riccio. "Sarai pure Corvonero, ma hai il cuore di un Tassorosso!".
Ma Mecenate non rise allo scherzo, anzi si fece improvvisamente silenzioso. Più che cuore di Tassorosso, il suo era quello di un Serpeverde: bramava troppe cose e non era disposto a lasciarne andar via nemmeno una. Voleva Orazio e ora era il suo ragazzo. Voleva un giornalino tutto suo e aveva creato il fanzine. Voleva Batillo e ancora non si era rassegnato all'idea di averlo perso. Voleva, voleva, voleva: eppure non sapeva bene che cosa volesse sul serio. E questo lo faceva sentire un miserabile: si faceva pena da solo.
"Oh, cugi'", lo richiamò alla realtà l'altro, "Che c'hai? Sul serio, che c'hai?".
"Me so' fidanzato co' Orazio" rispose con voce rotta.
Dopo un primo secondo di sbigottimento, sul viso del maggiore si dipinse un sorriso a trentadue denti e i suoi occhi si illuminarono di gioia. Lo abbracciò più stretto che mai ridacchiando con soddisfazione e gli scompigliò con una delle sue manone i capelli arruffati.
"Sono felice per te, cugi'!", esclamò sprizzando gioia da tutti i pori, "Orazio è un bravo ragazzo! Sarà contenta nonna, che vi shippa da una vita!".
Ma il suo entusiasmo non era contagioso. Il biondino, infatti, se ne stava immobile, rigido, e attendeva pazientemente che l'altro gli si staccasse di dosso. Perché si comportava così? Perché non riusciva a provare la sua stessa allegria? Lui era innamorato di Orazio, no? Avrebbe dovuto essere così gasato da essere incontenibile! E invece no, non lo era: sebbene fosse felice di poterlo baciare liberamente e dirlo suo, c'era sempre quell'angoscia malinconica di sottofondo, alimentata di tanto in tanto dalle parole di un certo ragazzino che non riusciva a togliersi dalla testa.
"Sto' co' Orazio, ma me piace pure un altro" aggiunse sforzandosi di non piangere.
"In che senso?" gli chiese perplesso suo cugino guardandolo dritto in faccia.
Il minore non seppe cosa rispondere, né tantomeno se dovesse o volesse sul serio rispondere. Come poteva spiegare quello che gli passava per la testa? Tutta la confusione, tutta l'ansia, tutta l'autocommiserazione che si succedevano ancora e ancora, come un disco rotto? Come poteva ammettere davanti alla persona che aveva sempre ammirato di essere un tale casino? Scoppiò improvvisamente a piangere e posò la testa sulla sua spalla, tremando per i singhiozzi che si sforzava di trattenere.
"Mecenate, che cosa ti sta succedendo?", gli domandò Emiliano con dolcezza, "Che cosa ti è accaduto? Qualsiasi cosa sia, ti prego, parlamene: non c'è nulla che non si possa risolvere".
"'sta roba nun se può sistema'!" gli disse quasi gridando, senza preoccuparsi per una volta se sembrava una drama queen.
"Che roba?" lo incalzò l'altro.
E Mecenate alla fine fece ciò che avrebbe voluto tanto fare con qualcuno in quelle folli settimane: gli raccontò nei dettagli ogni cosa, rivelandogli il contorto labirinto dei suoi sentimenti. Perché, in fondo, era Emiliano: se non si fosse confidato con lui, avrebbe finito per reprimere ogni cosa. Di nuovo.
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