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Capitolo II

Il Circolo aveva la più grande fortuna al mondo per un gruppo di adolescenti amanti delle feste: Marzia era sempre pronta a dare un passaggio a chiunque a qualsiasi ora del giorno e della notte. Virgilio spesso si sentiva leggermente in colpa a sfruttare sua nonna in quel modo, ma lei in ogni caso sarebbe rimasta seduta a sferruzzare sulla sua poltrona fino a quando il nipote non fosse rientrato: se proprio non voleva andare a letto, almeno poteva dargli una mano. Forse era un po' egoistico da parte sua metterla in questo modo, ma lei era d'accordo con lui, quindi non si poneva problemi etici più di tanto.

"Certo che tu' nonna è 'na santa" commentò Orazio non appena videro la vecchia FIAT nera allontanarsi.

"'nfatti mica c''o so come faceva a sta' co' quer cojone de mi nonno" gli disse Virgilio citofonando a casa di Ovidio.

"Nun se parla male dei morti" lo rimproverò Properzio.

"Tu nun te ricordi Catone Uticense", disse Mecenate sistemando per l'ennesima volta la giacca divenutagli troppo corta di maniche, "Fidate: era 'n cojone".

"Va be', sarà pure. Comunque, io c'ho da fa' co' Cinzia: se me venite a scassa' er cazzo, giuro che ve scrocio. Ce semo capiti?" li minacciò Properzio.

"Ma chi te vole?", esclamò ridendo Virgilio, che continuava a citofonare senza sosta, "Guarda te questi se nun ce aprono, eh".

Alla fine il portone si aprì e, una volta entrati nel condominio, capirono il perché di tanta attesa: se la musica si sentiva già dall'ingresso, figuriamoci che casino doveva esserci nell'appartamento al quarto piano. Si strinsero nel vecchio ascensore, uno di quelli aperti che andavano molto di moda negli anni 60, e arrivarono un po' stropicciati al pianerottolo di casa Nasone. Sulla porta, statuario e incredibilmente inquietante come al suo solito, trovarono Cicerone, che li aspettava sulla soglia con aria seccata. Non lo vedevano dallo scorso giugno, quando aveva mandato tutti a quel paese dopo aver preso finalmente il diploma di maturità, ma aveva la stessa faccia da schiaffi.

"Che c'è, Marcoli'?", domandò Orazio con tono canzonatorio.

"C'è che i cappotti li mollate appena entrate a destra, l'alcol sta 'n cucina e 'a camera de Ovidio è off limits" rispose scocciato il ragazzo.

"Che mo fai er buttafuori, Marcoli'? Nun dovevi fa l'avvocato e mettecelo a tutti 'n quer posto?" lo provocò divertito Properzio.

"Mortacci vostra, io devo campa' 'n qualche modo, disgraziati" imprecò a denti stretti mentre se li vedeva sfilare davanti per entrare nell'appartamento.

"Nun te la prende, Marcoli': potevi sempre fini' 'n cantiere con Catilina" scherzò Orazio.

Cicerone borbottò qualcosa, molto probabilmente mandandoli al diavolo, ma non riuscirono a sentirlo: la musica a palla distruggeva i timpani. Mecenate si chiese come facessero i vicini a sopportare una cosa del genere, ma, in fondo, Ovidio era un gran paraculo e ne sapeva sempre una più del diavolo.

"Ave atque vale. Io vado a scopa'" si congedò Properzio con un sorriso sornione non appena vide in mezzo a tutta quella gente la sua Cinzia, meravigliosa come sempre.

"Va be', noi che volemo fa'?" chiese urlando Mecenate, anche se sapeva che la sua era una domanda retorica: in men che non si dica, i tre si ritrovarono in cucina a farsi da barman a vicenda, fingendo di essere chissà quali sommelier di superalcolici.

"Carpe diem, stronzi!" esclamò Orazio prima di scolarsi i primi shottini di tequila della serata.

Virgilio si fece al volo un vodka lemon e si mise ad osservare chi c'era in giro, giusto per capire quanto sarebbe stato asociale quella serata: Catullo, naturalmente, stava limonando con Giovenzio su quello che doveva essere un divanetto, quindi era meglio lasciarlo stare; Tibullo ballava un po' con Delia e un po' con Nemesi e Virgilio si domandò se quel ragazzo sarebbe mai riuscito a non tenere più il piede in due scarpe; c'era perfino un timidissimo Leopardi, molto probabilmente trascinato lì con l'inganno, che sedeva immobile su una poltroncina. Ebbe pietà di lui: lo aveva conosciuto una volta per caso ad una festa di Ranieri, chiassoso e donnaiolo come suo cugino Orazio, e non faceva che chiedersi come potessero quei due essere così tanto amici nonostante i loro caratteri diametralmente opposti.

"Che stai a fa' lì, 'a vedetta?" gli gridò Mecenate in un orecchio per farsi sentire, smettendo per un istante di sorseggiare il suo drink.

"Ma vaffanculo, vah!", rispose sorridendo Virgilio dandogli una spintarella, "Comunque l'amore tuo sta lì giù. Prego, eh".

Il ragazzo indicò un punto indefinito in fondo al grande salone, dove Augusto chiacchierava con un certo Varo che andava all'università con lui. Vedendolo più triste del solito, appoggiato al muro con le braccia conserte e lo sguardo perso, Mecenate si senti malissimo per lui, ma non riusciva a smettere di guardarlo.

"Vai all'attacco o provi pietà pe' te stesso e pe' lui?" lo istigò Virgilio.

"Mo vado" prese tempo l'altro.

"Guarda che se c'hai paura è normale: capace che te sbologna subito, scazzato come sta".

"Sei de grande aiuto, come sempre" commentò stizzito Mecenate che, dopo aver scolato gli ultimi sorsi rimasti nel bicchiere, si sistemò di nuovo la giacca e di diresse verso di lui.

"Stendili, tigre!", lo incitò ridacchiando Orazio, "Quanto scommetti che fa cilecca?".

"Ma è l'alcol o sei stronzo de tuo?" gli rispose Virgilio, anche se era convinto che il loro amico avrebbe fallito miseramente.

"Un po' tutti e due, ma gli stronzi piacciono alle ragazze, quindi sticazzi. Comunque, io andrei a rimorchia' quella laggiù: c'hai 'nformazioni da damme?" chiese l'altro già piuttosto alticcio puntando il dito contro una ragazzina con un vestito verde.

"Se chiama Lidia, me sa. Dovrebbe fa' er secondo".

"E chi se l'è fatta".

"Ma che cazzo te frega? E poi che cazzo ne so io?", esclamò esasperato l'altro, "Mica so' Catullo!".

"Quello sa i cazzi de tutti. E mi sa che tra poco conoscerà pure quello de Giovenzio".

"Come sei volgare", commentò leggermente schifato Virgilio, anche se quei due si stavano letteralmente mangiando la faccia a vicenda.

"Amame pe' quello che so'", gli rispose con un grande inchino Orazio, "Comunque ce stanno un sacco de tipe da rimorchia'. Alcune so' pure de Firenze: 'na botta e via assicurata, zero impegno. Poi fa' come te pare, eh".

"Ce la farai 'n giorno a nun vede' le tizie solo come 'n buco da scopa'?".

"Carpe diem!" esclamò Orazio prima di afferrare un bicchiere abbandonato mezzo pieno e buttarsi nella calca.

Ritrovatosi da solo, Virgilio rimase un po' a contemplare lo spettacolo umano che aveva davanti. Le feste gli piacevano. L'alcol gli piaceva molto. Le persone un po' meno, ma aveva imparato a conviverci. Fece un bel sospirone, si fece coraggio e si gettò anche lui in pista: sebbene non gradisse particolarmente il contatto fisico con gente estranea e il suo udito fosse veramente a rischio, cominciò ad imitare tutti gli altri e a saltare e muovere le braccia in modo frenetico. Si sentiva incredibilmente leggero e l'unica cosa a cui voleva pensare in quel momento era il ritmo martellante delle canzoni che si susseguivano ancora e ancora agli altoparlanti.

Qualche ora più tardi, arrivò ad un punto che aveva perso il conto dei bicchieri che aveva bevuto, sentiva un caldo tremendo e la testa gli stava per esplodere: doveva prendere un po' d'aria e subito, altrimenti avrebbe vomitato l'anima davanti a tutti. Sgomitando come poteva, raggiunse finalmente la portafinestra che dava sul terrazzino: se la chiuse alle spalle e il freddo di dicembre si abbatté crudele sulle sue guance accaldate. Si lasciò cadere su una delle vecchie sedie sbilenche che c'erano e stese le gambe: si sentiva a pezzi, ma anche euforico e un po' gli rodeva che la nausea gli impedisse di rientrare a ballare. Si sentiva entusiasta, si sentiva dentro un dio che voleva fargli perdere il controllo, lui che cercava di mantenerlo sempre e comunque. Gettò la testa all'indietro e chiuse gli occhi, godendosi quella sensazione che, lo sapeva bene, non sarebbe durata a lungo.

"E quinni niente: m'ha mollato pe' quer cojone. Ma te rendi conto?" finì di raccontare Augusto prima di riattaccarsi come un disperato alla sua birra.

"Nun ce posso crede'" commentò falsamente Mecenate circondandogli le spalle con un braccio.

Era proprio a pezzi, più di quanto immaginasse: le cose con Scribonia non erano mai andate molto bene, ma era veramente distrutto che la sua ragazza lo avesse lasciato per Marco Antonio, che di buono non aveva un bel niente. Mecenate si sentiva un po' in colpa a voler approfittare di quella sua debolezza per rimorchiarlo, ma in amore e in guerra tutto era lecito e lui, lo sapeva bene, non aveva grandi armi da sfoggiare in nessuno dei due.

"Ma io gliela faccio paga' a quella zoccola", riprese Augusto dopo una breve pausa di riflessione, "Mo gliela faccio vede'! 'a faccio rosica'! Me trovo qualcun altro e glie sbatto 'n faccia che sto benissimo pure senza de lei!".

"Sicuro che sia la cosa giusta? 'nsomma, se lei è convinta de ama' Marco Antonio".

"Ma poi chi me se pija a me co' 'sto carattere der cazzo?" piagnucolò.

Quello era il momento di fare la sua mossa: l'aveva programmata nei minimi dettagli e se l'era ripetuta ancora e ancora nella sua mente per tutto il pomeriggio. Era giunta l'ora di dichiarargli il suo amore una volta per tutte, non doveva esitare ancora di più. Ma, leggendo negli occhi del suo amato una tristezza infinita e sentendosi improvvisamente una merda per volerci provare spudoratamente, non disse niente. Lui non era come Orazio: non avrebbe sfruttato quell'occasione a suo vantaggio e si sarebbe limitato a fargli da supporto. Ci sarebbero state altre volte più adatte ad aprirgli il cuore.

"Magari 'a persona giusta te 'sta davanti agli occhi" gli disse con tono vago.

Augusto alzò timidamente lo sguardo su di lui: era pieno di sofferenza e di lacrime che non voleva versare davanti a tutti.

"Sei 'na persona meravigliosa, lo sai, ve'? E c'hai du' occhi bellissimi".

Mecenate arrossì, ma non si notò tra il buio della stanza e il colorito rubicondo dato dall'alcol. Vide l'altro avvicinarsi sempre di più, i loro volti erano a pochi centimetri l'uno dall'altro. Non aveva dovuto fare niente, non si era dovuto abbassare così tanto per arrivare a quel momento che la sua immaginazione aveva creato e ricreato centinaia di volte. Aspettava con una bramosa impazienza che il suo amore dicesse qualcosa o che lo baciasse una volta per tutte, il suo cuore batteva fortissimo nel petto e sentiva i suoi battiti perfino nelle orecchie. 

Ma poi Augusto posò il mento sulla sua spalla e distrusse tutte le sue illusioni con solo quattro parole.

"Chi è quella gnocca?" gli domandò sbiascicando.

"Mica 'a vedo co' te così" riuscì a dire in qualche modo mentre si sentiva le lacrime agli occhi.

"Vestito rosso" gli disse prendendolo per i capelli e facendogli girare pericolosamente la testa.

Mecenate vide con la coda dell'occhio una ragazza con una lunga coda di cavallo bionda che sorrideva nella loro direzione.

"Nun la conosco" sospirò.

"C'hai proprio ragione, Mecena': sta proprio davanti agli occhi mia".

Con un gesto ancora più brusco del precedente, Augusto fece in modo che le loro fronti si toccassero e lo guardò dritto negli occhi.

"Sei l'amico migliore che potessi ave'! Grazie de esiste'!" esclamò prima di spingerlo via da sé e avviarsi improvvisamente gaio verso la ragazza.

"Prego" singhiozzò Mecenate cercando di darsi un contegno, ma aveva il cuore in mille pezzi e l'unica cosa che voleva fare era piangere.

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