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|Capitolo 9 - Parte 1/2 - La Capanna |


«Sulle gradinate del Tribunale vidi Miriam per l'ultima volta. Una location dotata di personalità e di un suo carattere storico. Voto, ahimè, 7» disse Alfred Bourgeaux, scivolando sempre più nella nostalgia.
Alzò gli occhi al cielo, fingendo distacco emotivo e li incollò sulle statue che reggevano il frontone del tribunale, sette muse, vestite di filamenti d'oro e d'argento.

Era sera e le strade di Scultoria si svuotavano di ogni entità minimamente sobria. Gli stessi spazzini, che ripulivano le vie dei quartieri bassi dai residui di talco e fiori, barcollavano come bambini che muovevano i primi passi per il mondo. E, proprio come loro, non avevano coscienza di dove si trovassero e di cosa stessero facendo.

Era sera di festa a Scultoria, o così raccontavano i botti e le urla lontane. Alfred li ascoltò con una smorfia di sdegno: si era sempre chiesto per quale motivo il popolino amasse così tanto le esplosioni. Attratti dai botti quasi quanto le inaugurazioni con buffet gratuito, i bifolchi avevano sempre qualcosa che lo deludeva e al contempo lo invogliava a istruirli.

Lui, individuo di cultura, preferiva piuttosto il silenzio, che si sposava così bene alla lettura o alla contemplazione delle cose. Guardò il cielo, poi Thelon e Zoe, abbracciati a osservare la Costellallegra. La loro era, a livello coreografico, un'effusione pubblica mediocre, ma decise di non dirlo. Schiarì la gola, anche se non ne aveva bisogno «Si dice che i primi coloni evitassero questo luogo come un porco il sapone, non perché sorgeva sul Cimitero d'Argilla, ma perché in cima a quei cumuli d'ossa e polvere rossa si ergeva la Capanna» puntò gli zoccoli a terra, fermandosi davanti all'imponente struttura. La guardava con lo stesso sguardo critico e appassionato che un anziano riserva solo a un bel cantiere. Davanti a lui il frontone decorato di un edificio ottagonale, rosso e arancio.

«Una capanna?» Chiese Zoe.
«Non una, la Capanna.»
«Cos'aveva di tanto importante?» domandò ancora Zoe, seguendo con lo sguardo un gruppetto di guardie che, di corsa, risaliva il Viale degli Artisti.
«Apparentemente nulla, era una casupola in mattoni e paglia come le tante dimore del volgo rurale. Simile a quei monolocali dove le nonnine preparano le crostate e tirano su famiglie di almeno trenta persone».

Thelon ricordò la sua prima casa: veniva dalla campagna lui, e proprio tra le terre di confine aveva passato i primi quattro anni di vita. Di quel luogo stringeva poche, care e frammentarie, immagini. Teneva per sé sensazioni, affreschi di un passato fatto d'odori, colori e suoni.

Zoe invece aveva tutta un'altra idea di quegli ambienti rurali dove ingobbiti, sdentati e pustolosi contadini si affannavano a mantenere la prole. Erano piccoli edifici umidi, che puzzavano d'ascella e piedi di pollo, di cavolfiore e sterco di topo.

«Il camino fumava d'inverno e d'estate scendeva a valle un profumo intenso di macedonia; in primavera e d'autunno il viale era sempre pulito, libero da foglie ingiallite» disse Alfred.
«Non capisco dove sia il punto» Thelon si grattò il capo.
«Il punto è che non ci abitava nessuno. Anni fa, quando ero un vitellino di talento, mi capitarono tra le mani dei manoscritti da recensire: testi ambiziosi, ma privi di una loro anima. Eppure, in mezzo a tutto a quel periodare vuoto c'era qualcosa di interessante, c'era la storia della Capanna. La narrazione era entrata da secoli nel folklore cittadino, ma questo racconto colmava i buchi di trama meglio di una colata di metallo rovente» disse stringendosi le spalle.

«Quando i primi ispettori dell'ordine pubblico giunsero per consegnare l'avviso di sfratto, la porta si aprì prima che potessero bussare. La Capanna li aveva accolti con una tavola imbandita, ricca di ogni leccornia. Ad accompagnare il loro desinare, le piacevoli note di un violino. Gli ispettori se ne andarono via con le pance piene e la mente priva di preoccupazioni. Non trovando nessuno, affissero alla porta gli avvisi cosicché i padroni avessero tutto il tempo per organizzarsi col trasloco.

Quando, allo scadere dei trenta giorni d'ultimatum, tornarono insieme alla squadra di pubblica pulizia, vennero aggrediti da uno sciame di zanzapi: una nuvola nera protesse la capanna finché tutti quelli che avevano provato a torcerle un infisso non si diedero alla fuga o non stramazzarono a terra, in preda alle convulsioni. Dato bizzarro è che nessuno dei caduti presentava ustioni o segni di punture.»

Thelon ebbe la sensazione di poterle sentire quelle urla, quel ronzante e spasmodico battere d'ali che s'avventava sulle truppe comunali. Avevano faticato per scacciarne una manciata a Picco Gallo, uno sciame intero equivaleva a morte certa.
«Tornarono una settimana dopo, vestiti d'abiti pesanti e incensieri per mettere in fuga le zanzapi, ma nella coltre di fumo dolciastro videro i loro defunti cari e qualche altro personaggio pubblico del passato che gli intimava la resa.»

«Pubblici? Come Maledetto Crucis?» chiese Thelon.
«Sì» rispose Alfred, raffreddandosi.
«Sidro Montagnelli?»
«Padre Tholomeleon riferisce anche di lui, ma ci sarei potuto essere anch'io in quella coltre se fossi vissuto in quell'epoca!»
«Oh certo, non abbiamo dubbi» ridacchiò il mago.

«Per mesi i Grandi Artisti pianificarono lo sfratto e la demolizione della Capanna, ma nulla di ciò che facevano, per quanto si impegnassero, riusciva. Né i koala, né i topi, né i fuochi viola riuscirono nel loro scopo. Fu solo allora che si dispose la liberazione di Lucius la Tempesta, un lupo esperto in smantellamenti, che all'epoca scontava una condanna per atti osceni in luogo pubblico e scambio di persona. Tale Lucius affermò che avrebbe buttato giù quella casetta in un unica, grande, folata di vento. Ne era così certo da indire una rassegna stampa, scrivere un libro e tatuarsi sul polpaccio la caricatura di un cumulo di macerie fumanti. Il testo di padre Tholomeleon riferisce che, il giorno designato, davanti alla Capanna si era radunato un pubblico di curiosi; venivano da ogni angolo dell'Impero per tifare o scommettere in favore o contro l'impresa.

I mattoni della Capanna vennero messi a dura prova per almeno un'ora dal famoso alito del lupo. Lingue di vento al mentolo avvolsero la Capanna, facendo tremare ogni singolo mattone come i denti di un malato di piorrea. Lucius soffiò senza sosta finché, soddisfatto, non si concesse una meritata pausa sigaretta. Quando la nube che avvolgeva la Capanna si diradò, quella era ancora lì, intatta.

Il pubblico perse d'entusiasmo, diventando come il fan club dell'Orchesca Sinfonica, esiguo e inopportuno. Due giorni dopo, Lucius era ancora lì a soffiare e con lui la Capanna, ferma nella sua posizione di non voler essere demolita. Rimasero pochi seguaci, qualche buontempone e una manciata di tifosi. Allo scadere del terzo giorno, quando anche i più irriducibili iniziavano a sentire i sintomi del sonno e della disidratazione, uno stormo di corvi oscurò il cielo di Scultoria. Una macchia nera gracchiante fece piovere bozzetti di Lucius in abiti da nonna. Immagini tanto vere da essere reali, come se qualche pittore spione ne avesse catturato l'essenza.»

Prese fiato, assicurandosi che i due giovani lo stessero seguendo e si stupì del fatto che stessero pendendo dalla sue labbra. Anche Zoe, che di solito era sovrappensiero, lo ascoltava in silenzio. Rinvigorito dal trasporto di entrambi, proseguì.

«Come sapete, Scultoria è una città di rettili e per rettili, e la maggior parte di loro è di vedute molto strette. Tranne i camaleonti: loro possono guardare in tutte le direzioni. Comprendete che, in un mondo che si divide tra chi cova le uova e chi le mangia, non c'è spazio per un lupo in abiti da nonna. Qualcuno sibilò allo scandalo, qualcun altro giurò vendetta; contro cosa poi chissà. Giunse voce di ambigui ammiccamenti alle ragazzine nei boschi e di vandalismo sulle rive del Tempera. Le pietre presero presto il posto delle accuse, e da quelle non ci si poteva certo difendere a parole. Non è chiaro come finì la storia, se Lucius sopravvisse o meno.»

Spirò un venticello fresco, scuotendo le fronde di tutte le siepi che seguivano del Viale degli artisti. L'intensità del rosmarino raggiunse i giovani, che attendevano che il silenzio del critico cessasse; o forse che protraesse: non ci è dato saperlo.

«Volete sapere una cosa divertente?»
«No» disse Zoe a bassa voce, impensierita da un lontano barrito.
Thelon era abituato ai "no" di Zoe in perfetto tempo comico, in genere significavano l'esatto contrario.
«Siamo tutti orecchie Sommelier» disse.
«Tutti quei bozzetti, quelle cartoline avevano il medesimo indirizzo» e indicò il cartello alla sua sinistra.
«Dare precedenza a destra?»
«No, l'altro» il dito tozzo si dimenò in direzione del numero civico del Tribunale.
«Agghiacciante.»

Zoe, riaccendendosi la pipa, fece spallucce. Thelon si accorse che c'era qualcosa che non andava: che avesse mangiato cibo andato a male? D'altronde se un piatto era bello da vedere, non significava che fosse altrettanto buono.

Doveva esserci una ragione più profonda per giustificare quel cambio d'umore. Raccolse la mano della ragazza intrecciandola alla sua e lei ricambiò con una pacca sulla fronte.
Che si trattasse di Brillo? Nessuno di loro si era mai preoccupato per la spora, che si era guadagnata la sua indipendenza tornando sempre incolume dalle sue uscite in solitaria. Sembrava un cane, ma aveva il senso d'orientamento di un  gatto il buon Brillo. No, non si trattava di lui: Zoe era tesa per qualcos'altro,  attenta come quando lavorava.

Gli occhi nocciola della ragazza scivolarono sull'ennesimo drappello di guardie cittadine, che risaliva in tutta fretta il viale che portava al quartiere degli Dei. Schiarì la gola e salutò Thelon con un bacio.
«Scusate, vado a fare una passeggiata. Ci si vede in locanda Dubois» disse, tiepida come una lasagna sotto al sole d'autunno.
«A fra poco» rispose lui, inzuppando di delusione quelle parole. Gli aveva detto di aver chiuso con la Mercenaries, come poteva esserci ricaduta dopo Bosco Losco?

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