| Capitolo 11 - Parte 1 - Disordini Pubblici |
Zoe
Quando Zoe aveva un problema, di solito passeggiava senza una vera e propria meta. Era fatta così, non ci poteva fare nulla: c'era chi placava i nervi raggrinzendosi i polmoni con tabacco e camomille e chi faceva di conto, lei camminava. Negli anni scolastici era diventata una grandissima camminatrice, con dei polpacci così scolpiti da fare invidia a tutti i maratoneti di Uma. Ma, se da una parte, già in adolescenza Zoe era già un'atleta completa, l'incredibile numero di fughe durante le ore di algebra, quasi le costarono l'anno scolastico.
Sgambettava su e giù per il Viale degli artisti, sotto lo sguardo truce dei piccioni, appollaiati sulle grondaie o sulle teste dei demoni di pietra. Rimuginava sul da farsi, rimestando i pensieri come bollito nel calderone. Ogni negatività saliva a galla come schiuma e non doveva far altro che raccoglierle con un colino e gettarle da qualche parte. Era passato un giorno dalla visita alla sede della Mercenaries e ancora non riusciva a digerire quell'incontro con il Signorotto Oscuro. Non era un essere sgradevole, ma si accompagnava sempre a pessime notizie, come un brutto profumo che ti si appiccica alla pelle. Sospirò, confluendo a passo svelto nel Viale delle Bestie, lo stesso che conduceva alle statue delle aquilame e alla sede cittadina della Mercenaries. Non badò agli ululati dei cani randagi, né alle risate lontane, tipiche più di una malvagità radicata che di una buona barzelletta.
In un vicolo stretto, i ratti squittivano. Difendevano un cumulo d'ali di pollo fritte da una banda di procioni affamati. Si irrigidirono quando si accorsero che Zoe li stava osservando. Qualcuno si finse morto, qualcun altro digrignò i denti verso la ragazza che, di tutta risposta, alzò le spalle. Aveva affrontato orde ben più nutrite di roditori per farsi impensierire da quattro sacchetti d'ossa: mostrò loro la schiena e, con essa, i tatuaggi. Pulsavano d'un bagliore arancio, come tizzoni dopo una notte focosa. Chi non si era ancora finto morto, trovò saggio farlo; tutti gli altri (ratti e procioni) si dileguarono nell'oscurità, lasciando incustodite le cosce di pollo.
Quanto ancora avrebbe resistito prima di raccontare tutto a Thelon? Il suo grugno da cucciolo bastonato riusciva a scioglierle la lingua meglio di una pinta di grappa tauros. Era solo questione di tempo: presto o tardi gli avrebbe spiegato ogni cosa. Immaginò la scena: l'avrebbe preso per mano e portato ai giardini pubblici. All'ombra di un grande albero avrebbero diviso un fiasco di buon vinello. Avrebbero parlato delle cose importanti e sparlato di quelle ovvie finché lei non l'avrebbe guardato negli occhi; gli avrebbe preso le mani, scaldandole tra le sue e poi gli avrebbe dato una testata. Poteva essere una buona soluzione, ma momentanea e lei non poteva passare la vita a provocare emicranie al suo compagno. Thelon meritava di sapere perché non poteva accompagnarlo a Uma. Poteva sempre scrivergli una lettera, e lasciarla sotto al cuscino. Poteva, ma non era giusto per Thelon. Alzò gli occhi al cielo, inclinando il capo verso due piccioni, appollaiati sull'insegna di un fruttivendolo, loro fecero altrettanto. Sospirò, pensando a come affrontare la questione, senza rovinare tutto come al suo solito. Odiava far rumore, nella caccia e nel quotidiano e mal digeriva gli eccessi di ogni tipo. Avrebbe introdotto la questione per gradi, cosicché Thelon potesse abituarsi alla notizia.
Affrettò il passo, fermandosi e spalmandosi contro al muro al passaggio dell'ennesimo drappello di guardie; tante, troppe anche per una città dedita al turismo. Stava accadendo qualcosa di anomalo, l'ardere dei tatuaggi non mentiva.
Le guardie sostarono davanti a una fucina. L'uscio aperto allungava le loro ombre fino all'altro lato della strada, inforcando Zoe e occultandola agli sguardi meno attenti. Interrogavano un uomo, smilzo come il manico del martello che portava sulla schiena.
«Furto» bofonchiò la guardia più grossa, lasciando che il collega segnasse tutto su una foglia. «Scriva appuntato, appunti scriba: non ci sono segni di scasso evidenti. I manigoldi hanno scardinato le statue dai piedistalli, senza lasciare tracce. Può descrivermele brevemente?»
«Procioni...» rispose, indurendo la mascella e guardando cupe lingue di fumo salire dai quartieri bassi. Il capitano non gli staccava gli occhi di dosso.
«La mia famiglia protegge la fucina da tre generazioni, da quando mio bisnonno la scambiò con un sacco di fermaporte, prima proteggevano quelle» e scoppiò in lacrime, sposandosi sullo stipite della porta per mettersi a piangere lontano dalle guardie. Cigolando, la porta si chiuse.
Nessuno parve volerlo rincuorare, ma anzi tutti erano affaccendati a fingere di fare qualcosa. C'era chi smuoveva i sassi, chi inquinava la scena del crimine e chi si prendeva gioco di una tartarre che era andata a infilarsi in un vicolo buio.
«Ce la fai? Ti stai slacciando il guscio?»
«G-guardate che non fa ridere!» Tuonò una voce lontana, autoritaria quanto una bertuccia in una colonia di gorilla. Veniva timida dal vicolo, accompagnandosi ad acri ventate d'urina.
«Attento a non tirarlo fuori vicino all'alto forno, idiota d'una tartarre!» Disse qualcuno e tutti, appuntato e capitano compresi, risero. Alcuni per il gusto di affermare la loro superiorità, altri per fame di cattiveria. E anche chi era sazio rideva, per non essere mangiato quando gli altri si sarebbero stufati di deridere la tartarre. I loro stomaci si chiusero in una morsa di sgomento al primo barrito. Energico e provocatorio, il verso cavalcò lingue di vento caldo e fetido. I piccioni spiccarono il volo, infilandosi nella forgia.
Zoe rabbrividì, cercando una risposta nei cieli furibondi della città; vide un'ombra così imponente da oscurare le stelle, minacciosa come una nube nera di lutto. Le ali frustavano l'aria, facendo danzare ogni lanterna che illuminava il viale. La creatura girò attorno alla forgia finché non decise di posarsi sul tetto. Tiepide tegole si frantumarono al suolo.
"Smetti di aver paura, oppure dalla in pasto al nemico" pensò Zoe, mentre le guardie si preparavano a farsela addosso. L'aquilama allungò il collo verso di loro, annusandoli. Gli occhi, piccole fessure di vuoto, li osservavano. Digrignò i denti, rivestititi da una patina di tartaro puzzolente.
"Cosa dovrei fare?" Chiuse gli occhi, appiattendosi al muro come un geco amante delle arrampicate.
Una mano sfiorò l'elsa del coltello, l'altra afferrò uno zuccotto piccolo come una tazzina di caffè. Non poteva sperare di ucciderla, ma poteva indebolirla sì. Poi fuggire, prendere Thelon e bagagli e abbandonare la città al proprio destino.
Respirare non le era mai sembrato così difficile: accusò il peso dell'aria che le si gelava nel petto. Le dita affondavano nei quadricipiti. Le sembrò di toccare le ossa e poterle frantumare, così fragili da non farla più restare in piedi. Chiuse gli occhi e trattenne il fiato: se non respirava non esisteva. E se non esisteva non doveva preoccuparsi della paura che la ancorava a terra. Di quella bestia percepì gli echi, stridenti come metallo percosso e l'odore pungente degli aghi d'abete, come quelli di Bosco Losco. Si era unita ai popoli liberi come prodiga, pentendosi per reati mai commessi, abbracciando e sostenendo l'esistenza di complotti così strambi da sembrare veri. Aveva vissuto come loro e condiviso il loro cibo, aveva dormito sotto le loro stelle e reso grazie ai loro spiriti e santi. Ma, per quanto ci provasse a essere come loro, erano in pochi a considerarla tale. Non avrebbe mai fatto parte di quei popoli, liberi sì, ma di essere elitari.
L'aquilama spalancò la mascella, riversando sulle guardie di loro una colata di saliva acida. Una doccia troppo calda, che li sciolse prima che potessero tirare le somme delle loro esistenze.
La bestia volò via, ignorando Zoe che, impietrita tratteneva a stento le lacrime e i conati di vomito.
Una guardia si affacciò dal vicoletto, risistemandosi le braghe. Corse incontro ai compagni, le cui ossa galleggiavano in una brodaglia di interiora e residui d'armatura affumicata. Non emise suono, non versò lacrime per loro. Tirò su gli occhiali e si guardò attorno, tirando un calcio a uno dei mucchietti d'ossa. Raggiunse la ragazza, provando a rassicurarla con il fascino della divisa, slabbrata dal volume insolito del suo carapace. Zoe aveva un problema, ma nessuna voglia di mettersi a passeggiare.
Quando ancora entrambi elaboravano quanto era appena accaduto, sfilò davanti a loro un barboncino pezzato. Portava a spasso il guinzaglio, che sfregava sulla nuda pietra della strada. Passò oltre, tenendo dritto lo sguardo alto al cielo.
E il pensiero di Zoe corse d'istinto a Brillo.
//Spazio off.Chiedo infinitamente scudo per il ritardo colossale. Vengo da un periodo strano dove ho cambiato città, lavoro, casa e nello stesso tempo perso l'ispirazione e la voglia. Ero bloccato con l'editing di questo capitolo e ancora penso non sia perfettissimo. Ma non l'avrei mai pubblicato di questo passo. Pubblicherò oggi anche le altre parti per farmi perdonare o, se non doveste apprezzarne il risultato, farvi del male.Beh, sperando di tornare un po' più attivo,ci si legge in giro. Fatemi sapere come vi sembra ahah
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