XXVII - Questa pena ben conosco (2)
Roxanne non aveva mai preso parte ad un'iniziazione, era permesso solo ai membri ufficiali, tuttavia neanche assistervi mille volte avrebbe potuto prepararla all'orrore che provava mentre camminava verso il folto della foresta.
Era quasi il crepuscolo e il cielo cobalto cominciava a virare sempre di più verso il rosa del tramonto. Il vento le sferzava contro la leggera tunica di raso e pizzo che indossava, aprendo un varco al vento gelido dell'inverno. Il merletto trasparente le cingeva le braccia percorse da un intrico di cicatrici, ma non la schermava minimamente dal freddo. I rami e le foglie secche scricchiolavano sotto i suoi piedi nudi, già completamente sudici. Riusciva a sentire la consistenza del fango e dei detriti che calpestava. Strofinò le mani l'una contro l'altra, ma erano così congelate da aver assunto una cupa tonalità violacea. Le unghie sembravano pallide mezze lune in un cielo color lavanda.
Un rumore improvviso attirò la sua attenzione e sollevò di scatto lo sguardo verso destra. Scrutò tra gli alberi, tutti i sensi allertati. Da un grosso ramo di pino una civetta screziata la fissava con i suoi grandi occhi gialli. I loro sguardi si incrociarono per qualche secondo prima che Roxanne sussultasse: era un cattivo presagio incontrare un animale selvaggio durante la marcia nel bosco. Si morse forte il labbro e riprese a camminare, ancor più intimorita di prima: non era una persona superstiziosa, ma c'erano alcune sfumature di quel rituale che non potevano essere spiegate se non con la magia. Sapeva che sarebbe stata costretta a tacere quel particolare se non avesse voluto che i suoi genitori annullassero il rito e trasformassero quella cerimonia nella sua festa di fidanzamento. Peccato che la consapevolezza non poteva nulla contro l'incombenza dell'ignoto: non aveva idea di cosa sarebbe stata costretta a fare concretamente, ma era convinta che non sarebbe stato nulla di buono. Aveva ascoltato tante dicerie durante gli anni, colto sussurri nelle ombre, avvertimenti velati da ironia che l'avevano convinta a temere quel momento con tutta sé stessa. Molte persone non erano riuscite a sopportarlo ed erano state radiate dai loro territori, esiliati in aree malfamate della città. Roxanne non temeva l'esilio, anzi. Era il fallimento ad essere inconcepibile per una come lei, abituata a lottare per ciò che desiderava raggiungere.
Et ventis adversis. "Anche con venti contrari", recitava il motto scelto da Athena Moore per la sua lapide. Nonostante tutte le forze avverse schierate contro di loro, i Moore avrebbero continuato a combattere. Lo provavano i racconti sulle loro vite, sui grandi capi che avevano segnato il corso della storia di Detroit, che avevano lasciato un segno nel mondo. Roxanne li invidiava, tanto quanto detestava suo fratello per averle lasciato il peso della responsabilità. Lei era cresciuta libera e fiera, pronta ad una vita di guerre e sangue, non era mai stata preparata per intrighi, alleanze e politica. Le piaceva il peso del pugnale, non della corona. Ma già mentre pensava quelle cose, si sentì vile a lamentarsi della vita che Corey le aveva donato. Se fosse stata una persona buona, l'avrebbe accettata con gioia e si sarebbe rimessa al suo destino. Forse avrebbe dovuto sforzarsi di più, però era così difficile soggiogare alle catene, alle responsabilità del potere. Lei non voleva quel trono, non voleva quel rituale, non voleva nulla di tutto quello. Eppure continuò a camminare nel bosco, sola e infreddolita, animata solo dalla fiamma dell'orgoglio e della rabbia. La sua andatura accelerò seguendo l'escalation di emozioni dentro il suo cuore. Ben presto stava correndo nella boscaglia. Era con grande pena che si faceva spazio tra i rovi e i cumuli di rami caduti, ferendosi mani e ginocchia e piedi. Una scia di sangue fioriva al suo passaggio. Ma la confortava e gli dava forza l'ira dirompente che provava, tanto da annientare il dolore stesso.
Raggiunse la folla dopo quelle che sembrarono ore. Non aveva mai percorso tutta la foresta da sola e non aveva idea di dove fosse o di come fosse arrivata lì. Rallentò. Il cuore le martellava nel petto come cannoni da pirateria. Avrebbe voluto piegarsi, poggiare le mani sulle cosce e riprendere fiato, ma il folto gruppo che l'aspettava sembrava essere impaziente. Le figure, nascoste sotto ampi mantelli grigi che ne annientavano i tratti caratteristici, sembravano vibrare di smania. Due uomini - o almeno così credeva - la afferrarono per le braccia e la trascinarono al centro di una piccola radura. Le loro mani affondarono nei muscoli delle sue braccia come gelatina, tenendola in piedi con quello che sembrava il minimo della loro forza. Quando la lasciarono andare di colpo, per poco non cadde a terra. Nel frattempo, il resto degli adepti in grigio si dispose in cerchio intorno a lei, bloccandola all'interno della formazione. Roxanne era terrorizzata, le gambe le tremavano per lo sforzo di arrivare sin lì e per la paura di cosa sarebbe successo dopo, tuttavia sollevò il mento, come aveva visto fare tante volte sua madre, e assunse una posizione che sperava apparisse, almeno all'esterno, rilassata.
<<Be'? Cosa stiamo aspettando?>> chiese con il tono più petulante che poteva sfoderare in quella situazione.
Come animati da un segnale divino, i suoi compagni cominciarono ad intonare cupe note in crescendo. Lei fece un giro a trecentosessanta gradi per guardarli tutti, scrutando a fondo le ombre che nascondevano i loro volti. Non riuscì a riconoscere la sagoma di nessuno di loro. Poi, dal nulla, comparvero suo padre e sua madre. Si erano cambiati e anche loro indossavano delle tuniche grigie lunghe fino ai piedi, lasciandosi però scoperti i volti seri.
Dominic si fermò ad un passo dal cerchio. Era stante, le spalle dritte, la mascella serrata. I suoi occhi verdi la scrutavano spietatamente. Sembrava se la stesse godendo come non mai sapendo di averla sconfitta finalmente. <<Roxanne Athena Moore, stasera siamo tutti qui riuniti per celebrare il tuo ingresso nel Clan dei Moore.>> proferì, la voce austera come di un profano sacerdote <<A partire da oggi, nulla per te dovrà essere più importante del Clan: né gli amici, né la famiglia e né tanto meno l'amore. La tua banda sarà casa e religione, genitore e figlia. La dovrai anteporre ad ogni altra cosa. Sapendo ciò, sei davvero sicura di voler proseguire con il rito?>> Roxanne ricambiò con foga lo sguardo di Dominic. Avrebbe voluto gridare di no, smascherare il loro ricatto, ma sapeva di non avere abbastanza uomini, né soldi, né coraggio per mandare al rogo i suoi genitori.
<<Sì, lo sono.>>
<<Bene. E sei pronta ad affrontare le prove tradizionali dell'iniziazione, qualunque esse siano?>>
Deglutì a fatica. <<Lo sono.>>
Dominic le rivolse un sorriso crudele che la inquietò. <<Che il rito abbia inizio!>> ordì a gran voce alzando le braccia verso il cielo nuvoloso. Gli incappucciati cominciarono a stringersi, gravitando lentamente e confusamente intorno a lei. Uno dopo l'altro, iniziarono a spingerla, lanciandola verso le estremità dell'agglomerato e rendendole sempre più difficile stare in piedi. La collera tornò ad impossessarsi di lei. Spinse con forza il primo che le capitò sotto tiro, facendolo cadere goffamente a terra. A quanto pareva, nessuno di loro si aspettava che la vittima rispondesse.
Sua madre rise. <<Risparmiati tutta questa grinta per dopo. Devi conservare le forze per vincere!>>
Roxanne si voltò a guardarla con la fronte aggrottata. Nessuno aveva mai parlato di vittorie. Dischiuse le labbra per parlare, ma uno spintone più forte degli altri la fece crollare a terra. Le pietre bianche, fino a poco prima nascoste alla vista dalla foglie, le tagliarono le mani e le ginocchia. Un ringhio le risalì per la gola. Digrignò i denti e si mise in piedi, gettandosi dietro un lembo strappato della misera veste.
Una delle figure era ferma al centro del cerchio di persone che si stava man mano ampliando. Adesso c'era un discreto spazio intorno a loro. Improvvisamente, con un gesto da vero attore, il ragazzo si scostò il cappuccio e rivelò la sua faccia. Roxanne si trattenne dal sussultare. Sotto il cappuccio c'era un giovane, probabilmente della sua età, se non più piccolo di lei. Aveva un colorito pallido, le guance smunte, due occhiaie profonde, eppure i suoi occhi scuri fiammeggiavano d'orgoglio. Aveva una folta chioma di capelli corvini, svolazzante al vento, e profondi occhi a mandorla. Quando Roxanne gli rivolse un'occhiata confusa, lui sollevò un angolo della bocca divertito. Fu allora che fece scivolare dalla manica il pugnale. E Roxanne capì.
Quello non era un semplice cerchio. Era un'arena.
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