XXIV - Gentil cuore non cede (2)
Abbandonata la sala da pranzo, Roxanne corse disperata per i corridoi della sua enorme casa fino a trovare una finestra aperta. La spalancò così rudemente da far sbattere la maniglia contro il muro e far tremare il vetro. Le sue labbra si dischiusero nel disperato bisogno di ossigeno. Cercò un appiglio a cui tenersi e strinse il ferro battuto nella mano sino a rigarsi il palmo. Il dolore le restituì quel tanto di lucidità che le serviva per gli esercizi di respirazione. Chiuse le palpebre e cominciò a contare.
Uno, due, tre, respiro. Uno, due, tre, respiro.
I respiri cadenzati non sembravano essere abbastanza contro l'irruenza di quell'attacco di panico. Scivolò sulle ginocchia e si strinse le ginocchia al petto, dondolandosi avanti e indietro in un altalenante lotta contro i suoi polmoni. La sembrava di bruciare. Si tirò i capelli dietro la nuca fino a sentire dolore: a volte era l'unico modo che aveva per riprendere contatto con la realtà.
<<Calmati, ti prego.>> sussurrò al suo cuore, ogni parola singhiozzata tra un risucchio d'aria e il successivo. Sapeva che piangendo avrebbe liberato tutto il male che la stava uccidendo, ma non poteva, non lì fuori a portata di occhi indiscreti. La testa le sembrava essere sul punto di implodere, ma si ripetè che poteva farcela e si tirò in piedi a fatica con l'aiuto del parapetto. Le ginocchia le tremavano per il freddo e il terrore che le congelava le vene. Si strofinò gli occhi e alzò lo sguardo sulle stelle. Chissà se anche Isaac e Bellamy le stavano guardando.
Pensare di essere ancora sotto il loro stesso cielo la rassicurò. Significava che a tutto poteva essere posto rimedio.
Un rumore dietro di lei la fece voltare di scatto. Edward, con i suoi vestiti chiari e i capelli bianchi, si stagliava pallido come la luna contro il buio della notte. La guardò per un attimo, ma non emise nessun commento sull'orribile aspetto che era certa di avere. Tirò fuori un pacchetto di sigarette e gliene porse una senza fiatare.
<<Se può consolarti, neanche io ho la minima voglia di sposarti, principessa.>> brontolò dopo un po'.
L'appellativo le fece roteare gli occhi. <<E io che credevo fossi sul punto di inginocchiarti per giurarmi amore eterno...>>
<<Ho cercato di fargli cambiare idea, ma non sono molte le carte che ho in mano. Non ho nessun potere su tuo padre.>>
<<Nessuno ha potere su mio padre, Edward.>>
Lui ridacchiò. <<Ti facevo più intelligente.>>
Si girò a guardarlo indispettita. I suoi occhi ambrati la scrutavano famelici. <<A quanto pare ti avranno dato informazioni sbagliate sul mio conto.>>
<<In questa città tutti parlano solo di due cose: della crudeltà di Bellamy Blake e della prodigiosa mente di Roxanne Moore.>> continuò lui <<Non mi sarei aspettato che una con la tua fama non riuscisse a riconoscere quanto potere possiede.>> Lei sollevò un sopracciglio. <<Dai, Roxanne, tuo padre ti adora. In un modo o nell'altro te la da sempre vinta.>>
La risata che le sfuggì risuonò cristallina nel silenzio del giardino. <<Non avevo mai sentito stronzata più grande! E tu sei uno che normalmente ne spara parecchie, eh!>>
Edward rispose all'offesa con una smorfia. <<Dio, quanto sei stolta.>>
<<Ah, io? Tu non hai la minima idea di cosa abbia perso per colpa dei miei genitori.>>
Lui scosse la testa divertito. <<È pietoso il modo in cui voi ricchi cerchiate sempre di far ricadere la colpa sugli altri. Non pensi mai che, magari, la colpa è tua? Che tu hai mandato a monte tutte le relazioni che avevi, che per colpa della tua imprudenza sei stata rapita, che per un tuo capriccio adesso ci ritroviamo in questa situazione e io sarò costretto a sposarti? Ti rendi almeno conto di quante persone hai rovinato? Isaac, me e chissà quanti altri...>>
Roxanne si immobilizzò. Una dolce calma le fece formicolare la pelle. La sua faccia perse ogni tipo di espressione e la mano destra corse subito all'impugnatura del coltello. Un attimo dopo la lama lucente era premuta contro la gola di Edward. Lui non si mosse di un millimetro, ma Roxanne notò il momento in cui si pentì di ciò che aveva detto. <<Se ti azzardi di nuovo a parlarmi così, eviterò il matrimonio tagliandoti la giugulare.>>
Lui strinse la mascella, i suoi occhi fiammeggiavano di rabbia. Alzò il mento e si lasciò pungere dal filo del pugnale. Una goccia di sangue colò lentamente sull'acciaio lucidato. Lei non si ritrasse: non aveva paura di far del male a qualcuno. <<Allora lascia che il mio sangue bagni la tua lama. Qualunque cosa pur di non legarmi a te.>> sussurrò.
Roxanne sollevò un angolo della bocca asciutta. Fissò gli occhi nei suoi. <<Non sfidarmi, Edward. È un lieto passatempo tormentare gli animi altrui per la gente come me.>>
Lui si fece più vicino, chinandosi verso di lei. <<E allora ti conviene sfoderare le tue armi migliori. Non farò come tutti, non ti lascerò vincere solo perché sei la figlia del capo.>>
Roxanne dilatò le narici. Doveva concedergli che sapeva come provocarla a dovere, tanto da farla smaniare per la voglia di pugnalarlo al cuore. <<Vedremo.>> sibilò abbassando il braccio.
Il piccolo taglio sulla gola di Edward aveva già smesso di sanguinare quando si voltò per andar via. Lui non si portò nemmeno una mano al collo per controllarlo. Si fermò un attimo al centro della terrazza, giusto il tempo necessario per dire: <<Metti a posto le cose, principessa. Dimostra di essere degna del cognome che porti.>>
***
Per quanto stremata dalla meschinità di quella giornata, Roxanne aveva ancora un'ultima cosa da fare.
Cercò James e si fece consegnare, dopo varie prediche, il mazzo di chiavi che gli aveva chiesto di nascondere da lei e da chiunque altro.
Impiegò i residui delle sue forze per trascinarsi fino al corridoio di camera sua. Stringendo tra le dita il portachiavi a forma di elmo di gladiatore, guardò la sua porta bianca. Reduce delle parole di Debby e Edward, che ancora le scottavano la pelle come carboni ardenti, si rese ignobilmente conto di quanto fosse stata vanesia ed egocentrica a chiedere di cambiare il colore della porta per un semplice capriccio. Sospirò. La frase che suo nonno le ripeteva sempre da bambina le risuonò in testa come un ammonimento.
Soltanto tre cose a questo mondo non possono essere cambiate: la morte, il sangue e il passato.
Si volse dall'altro lato del disimpegno e infilò la chiave nella serratura. La maniglia d'oro si abbassò con uno scricchiolio di protesta. Si prese un attimo per respirare l'odore dell'ambiente prima di accendere le luce. Malgrado sapesse di chiuso, poteva ancora distinguere un certo tono di chiodi di garofano e arance. Cliccò sull'interruttore e il lampadario bianco di alto design prese vita.
La camera di Isaac era uguale a come l'aveva lasciata due anni prima: i disegni sparsi sulla scrivania, i vestiti abbandonati disordinatamente nel guardaroba, i libri posti in una pila accanto al letto... tutto era stato preservato nel suo naturale e originario disordine.
A nessuno aveva concesso di metterci piede: era il santuario della vita che aveva perso, una reliquia di ciò che un tempo era stato, e non voleva che qualcuno lo profanasse.
Lei stessa non entrava lì dentro da almeno un anno.
Passò l'indice sui quaderni rilegati in cuoio, sui fogli sporchi di carboncino, sulla poltrona su cui così spesso aveva dormito. Ogni oggetto aveva una storia, un valore affettivo tanto profondo da non poter essere condiviso.
La polvere le danzava intorno in una malinconica coreografia di luci mentre sfogliava le pagine scritte da Isaac. Scorse poesie, passi di libri, idee buttate giù in una calligrafia frettolosa e aspra. Ai lati di alcune pagine si annidavano schizzi, figure mostruose e volti umani.
In una delle piccole pile di libri nascoste dietro il letto trovò la copia antica de Il ritratto di Dorian Gray che gli aveva regalato per Natale. Era pieno di segnapagina colorati, righe sottolineate e appunti. Sorrise nel leggere la sua dedica sul frontespizio e il cuore le si riempì di tenerezza.
Ad Isaac, che mi ha permesso di smentire Oscar Wilde.
"Viviamo in un'epoca dove le cose superflue sono le nostre uniche necessità", lui dice. È lampante che non abbia mai conosciuto te, io dico.
Se lo strinse al petto. Una risata amara le scosse le spalle ricurve. Il passato era malvagio, le ricordava quanto aveva perso.
Si sedette ai piedi del letto e, guardando le vecchie cose di Isaac, si chiese se Edward non avesse ragione, se tutto fosse davvero avvenuto per colpa sua. Per colpa della sua frivolezza, della sua ostinatezza. Cercava sempre di giustificarsi dicendo che era a causa del suo vissuto che si era trasformata in un mostro, ma era davvero così? E se, invece, il mostro fosse stato sempre lì, in attesa di essere risvegliato? Se ci fosse stato qualcosa di sbagliato in lei? Come poteva essere sicura di essere nel giusto se tutto ciò che le avevano insegnato era crudele? Come poteva fidarsi di se stessa?
C'erano così tanti punti interrogativi ad assillarla e lei si sentiva così impotente al loro confronto. Si abbracciò le ginocchia e vi ci poggiò il mento.
Doveva mettere a posto le cose, come aveva detto Edward. Forse lui la credeva una sprovveduta senza risposte, ma non era affatto così. Sapeva perfettamente cosa doveva fare, e sapeva anche di avere una sola possibilità per convincere suo padre a rinunciare: tutto dipendeva da quanto brava si sarebbe dimostrata ad orchestrare il suo gioco.
L'indomani, a quella stessa ora, nulla sarebbe stato più lo stesso per lei. In ogni possibile variante della giornata avrebbe portato al dito un nuovo anello.
Desiderava discuterne con Isaac, illustrargli il suo piano, contraddire i suoi consigli, vantarsi della genialità delle sue mosse. Avrebbe voluto averlo lì, accanto a lei, ma tutto ciò che le restava era il fantasma sbiadito della sua vita passata.
Si slacciò le scarpe e si infilò sotto le coperte.
Era stato Isaac stesso a rassettare il letto che stava disfacendo. Le diede un po' di malinconia rovinare ancora un'altra delle cose create con tanta cura da lui.
Appena poggiò la testa sul cuscino, un residuo del profumo che soleva usare le solleticò il naso. Probabilmente se lo stava solo immaginando, considerando che erano passati più di due anni, ma l'effetto fu comunque sconcertante. Si sentì subito più al sicuro, nascosta tra le lenzuola di camera sua, e si costrinse a piangere. Detestava farlo, ma sapeva che era necessario: reprimere i sentimenti aveva un prezzo e doveva permettergli di fuoriuscire di tanto in tanto se non voleva rischiare di implodere.
Le lacrime sgorgarono copiose dai suoi occhi stanchi. Le aveva arginate per così tanto che le fece male lasciarle andare. Ben presto i singhiozzi la scossero così forte da doverli soffocare contro il cuscino. Non voleva che qualcuno la sentisse. Si tirò le coperte fin sopra la testa, quasi vergognandosi di star dissacrando la felice atmosfera che un tempo regnava in quella stanza. Possibile che tutto ciò che toccasse marciva?
La solitudine la avvolse e il buio la trascinò verso di sé.
Si addormentò piangendo la sua infausta innocenza.
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