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XXII - Alla triste fiamma (1)

La malinconia era un fardello pesante sulle spalle di Roxanne.

Mentre ripercorreva il viaggio verso Detroit riusciva a rimembrare ogni singolo minuto della traversata iniziale: i ricordi erano vividi, reali e tridimensionali davanti ai suoi occhi stanchi. Su quello stesso ponte, poco più di sessanta giorni prima, mentre la banchina della sua città natale rimpiccioliva gradualmente, si era sentita per la prima volta in vita sua libera dalle restrizioni della sua famiglia. Il vento le scompigliava i capelli e le faceva aderire i vestiti leggeri al corpo. Aveva allargato le braccia e aveva permesso che l'aria la ripulisse da tutti i residui del passato. O almeno così aveva sperato.

C'erano voluti solo pochi mesi prima che il suo sangue la costringesse a tornare sui suoi passi. Ora il vento, più che sussurrarle promesse di indipendenza e autogestione, le stringeva un cappio attorno al collo, predicendo l'inizio del suo declino. Il sole non la scaldava più, l'odore dell'acqua non le risvegliava dentro emozioni sepolte, non ora, rinchiusa al di là di un vetro spesso dieci centimetri.

Il freddo canadese le irrigidiva i muscoli mentre si trovava costretta ad un tavolo tra John e suo cugino Marley, due degli uomini più fedeli di sua madre. John era alto e allampanato, un vero lampione di essere umano sormontato da un cespuglio di capelli rossi e crespi, unica e sola similitudine con Marley, che invece era basso, tarchiato e pieno di tatuaggi osceni. Era lui il cecchino che aveva quasi sparato ad Isaac attraverso lo spiraglio nella finestra. I due non la toccavano, non si sarebbero mai permessi di farlo, però la tenevano bloccata tra i loro corpi, stretta in una morsa fatta di carne e ossa. Christabelle la scrutava dall'altro lato del tavolo e dava l'impressione di essere particolarmente soddisfatta di se stessa: la stava riportando nella sua gabbia dorata. Roxanne non riusciva a sostenere il suo sguardo. Era furente, tutto il suo corpo si voleva ribellare a quella situazione, saltare giù in mezzo al fiume e tornare a nuoto sulla riva giusta. Sapeva che, se avesse incontrato i suoi occhi, le sarebbe saltata di nuovo alla gola, mettendo in scena un teatrino che avrebbe potuto costarle guai seri. Era già sotto scorta, ci mancava solo che desse a sua madre un motivo in più per punirla.

Si sistemò una ciocca ribelle dietro l'orecchio e lasciò che la mente vagasse un altro pochino, che si nascondesse nei brevi ricordi felici che il Male le aveva concesso. Fissò lo sguardo su dei ragazzini lì dietro, non arrivavano a più di dodici anni e si stavano divertendo come dei matti. Una dei quattro, una bambina dalle trecce bionde e il labbro spaccato, catturò i suoi occhi e le fece un breve e timoroso segno di saluto. Quando Christabelle parlò, fu così all'improvviso che per poco non fece un balzo dal divanetto.

<<Be'? Quand'è che hai deciso di perdonare il moccioso del traditore?>>

Alzò gli occhi al cielo. <<Prima che inizi con la tua solita tiritera: è una mia scelta. Mia la vendetta, mia la volontà di abbandonarla. Nè tu, nè papà potete farci nulla.>>

<<Oh, Dominic è così abbindolato dal tuo faccino che si farebbe andar bene qualunque cosa.>> Scosse una mano smaltata. <<Ma se pensi che io sia ingenua come lui, ti sbagli di grosso. Isaac Hale è pericoloso. Stai correndo un rischio troppo grande.>>

<<Isaac pericoloso? Ma ti ascolti quando parli? Pare che tu non l'abbia trattato come un figlio per buona parte della sua vita!>> sbottò.

Christabelle alzò uno dei suoi fini sopraccigli chiari. <<Questo era prima che lui e suo padre tradissero la nostra famiglia.>>

Sospirò, mentalmente esausta. <<Sono stanca di parlarne.>>

<<E invece devi. Dimmi almeno che non vi siete messi d'accordo per incontrarvi lì... sarebbe davvero inconcepibile.>>

<<No, ovviamente no. Ti sembra che potrei mai fare una cosa del genere?>> chiese irritata <<Io speravo di non vederlo mai più nella mia vita, che credi? Che non fossi scioccata quando me lo sono trovato davanti? Isaac ha persino vomitato. Ho provato a farlo fuori ma...>>

<<Ma non ci sei riuscita.>> concluse <<Perché non sai essere fedele nemmeno a te stessa.>>

<<Il problema, mamma, è che tu non mi ascolti mai! Ho preso la mia decisione, sono un'adulta ormai. Mi avete insegnato voi ad essere indipendente e a non piegarmi al volere degli altri. E quello che voglio in questo momento è che Isaac resti in vita. Fine della discussione.>> Sentiva di poter dire di più, di potersi spiegare meglio, di poter dipingere con colori più brillanti la sua storia. Le parole non le sarebbero mancate per descrivere la sofferenza che le aveva sconquassato i polmoni quando l'aveva visto, profonda e buia come un abisso, o la forza che c'era voluta per mettere da parte l'orgoglio, l'odio e la paura. Avrebbe voluto farle capire quanto lui avesse significato per lei, quanto le loro esistenze fossero interconnesse tra loro, quanto fosse mancato al suo cuore in quegli anni, però sua madre non meritava le sue spiegazioni. Lei non era davvero interessata a conoscere le motivazioni che l'avevano spinta a perseguire tale scelta, voleva contraddirla e basta e, con ogni probabilità, se le avesse mostrato i suoi sentimenti per Isaac, le avrebbe riso in faccia.

<<Sei debole.>> sibilò. Quelle due parole erano così cariche d'odio che persino John si ritrasse da lei, spostando i gomiti dal bordo del tavolo lungo i fianchi e poggiando di scatto la schiena contro il muro.

<<Sei stata tu a crescerci insieme... cosa ti aspettavi? Che riuscissi ad ucciderlo come se niente fosse?>> domandò annoiata. La voglia di starla a sentire le era scivolata sotto i piedi, appiccicandosi fastidiosamente alle suole.

<<Di averti insegnato qualcosa, ecco cosa mi aspettavo. Ma a quanto pare mi sbagliavo. Non hai avuto neanche il coraggio di avvertire il tuo Clan. Sei stata in contatto con lui per quanto? Mesi? Possibile che non ti sia mai venuto in mente di avvisarmi?>>

<<Non l'ho fatto esattamente per evitare questo.>> disse facendo roteare l'indice per indicare tutt'intorno a sé <<Sapevo che sei una maniaca del controllo e che avresti cercato in ogni modo di separarci. L'unica cosa che non avevo previsto era che ti potessi calare tanto in basso e arrivare ad inventare un'intera storiella sulla presunta presenza di Blake. E tutto solo per portarmi via da lui!>>

Christabelle scosse la testa e il suo caschetto di capelli biondi la seguì a ritmo. <<No, non è solo per questo. Come sempre non riesci a guardare il quadro completo della situazione: la verità è che, se fosse dipeso da me, tu non avresti mai lasciato la Reggia.>>

<<Grazie a dio non dipenderà mai nulla da te: il sangue di Athena Moore non scorre nelle tue vene, ma nelle mie.>> mormorò Roxanne facendole un sorrisetto sornione. Sua madre detestava sentirsi sminuita, specialmente da qualcuno che riteneva inferiore a lei. John si agitò lievemente al suo fianco.

Christabelle contrasse le labbra. <<Magari avessi ereditato un decimo delle sue qualità: lei era una donna forte, fiera, fedele alla causa. Tu, invece, non sei degna di pronunciare il suo nome, figuriamoci di condividere il suo sangue...>>

<<Anch'io so essere fedele alla mia causa.>> cinguettò atteggiandosi ad innocente <<Non ti permetterò di separarmi di nuovo da Isaac.>> Le fece l'occhiolino con enfasi, stringendo forte la palpebra.

Christabelle non sembrò gradire. La scrutò per qualche secondo, una chiara espressione di disgusto dipinta sul volto, poi prese una boccata d'aria e sospirò:<<D'accordo. Fa come vuoi. È solo che mi aspettavo che mia figlia avesse dei gusti diversi in fatto di uomini...>>

Roxanne fiutava odore di trappola. Era troppo orgogliosa per non rispondere ad una provocazione, però era anche abbastanza furba da sapere di doverci andare con i piedi di piombo.<<Cosa staresti insinuando?>>

<<Marley ti ha vista mentre lo baciavi.>> sussurrò avvicinando il viso incipriato al suo nel penoso tentativo di metterla in imbarazzo. Il suo alito sapeva di mentine. Marley, stretto accanto a lei fino ad un secondo prima, cominciò a ritirarsi sempre di più, forse spaventato dall'eventualità che Roxanne lo picchiasse.

<<E quindi?>> brontolò con una piccola alzata di spalle <<Da quando ti interessa la mia vita sentimentale?>>

<<Da quando interferisce con gli affari della nostra famiglia.>> specificò tastando distrattamente la borsa nera <<Isaac non è nessuno: non può offrirti protezione, né soldi, né potere. L'unica cosa che ti darà è un bel biglietto espresso per il camposanto.>> John scoppiò a ridere di gusto. Il rumore franto della sua risata la innervosì ancor più delle parole di sua madre. Dovette reprimere l'impulso di tirargli un pugno in bocca. <<Non pensavo che avrei mai potuto dire una cosa del genere, ma comincio davvero a rimpiangere Bellamy Blake.>>

A quelle parole qualcosa si smosse dentro Roxanne. Si ficcò con forza le unghie nel palmo per contrastare il tornado di sentimenti che le risalì dai piedi fino al cervello. Sentir pronunciare da sua madre il nome di Bellamy Blake in una frase che non avesse nulla a che fare con il Clan le causò un brivido; erano anni che non succedeva. Non capì mai se fu qualche residuo della gelosia o dell'amore che un tempo nutriva per lui a spingerla a bisbigliare con tono sconvolto: <<Ma se lo detestavi...>>

Christabelle fece un'alzata di spalle. <<Verissimo, per lo meno, però, lui è un uomo vero, uno che si prende le sue responsabilità. Uno che non volterebbe mai le spalle al Clan o alla famiglia.>>

Per poco non le scappò che Bellamy neanche sapeva il guaio in cui l'aveva cacciata due anni prima. Non avrebbe avuto alcuna scusa con cui spiegare tale informazione. Vedere la delusione sulla sua faccia sarebbe stata una ben che magra soddisfazione in confronto alla condanna per tradimento che le sarebbe costata. <<Basta parlare. Mi hai scocciata.>>

E così fu. O almeno fino a che arrivarono alla Reggia.

Appena imboccarono il tortuoso vialetto che inespicava fino alla cima della collina su cui era stata edificata la villa, Roxanne cominciò ad avere le palpitazioni: c'era qualcosa di terribilmente sbagliato nel trovarsi lì, a metà anno e senza il suo reale consenso. Si stropicciò freneticamente il colletto del maglione allargandolo quel tanto che bastava ad immettere più aria nei polmoni riarsi. La BMW sbatacchiò sui sassolini bianchi, mandandola a sbattere contro il petto di John. Gli tirò uno spintone arrabbiato e lui subito si affrettò a scusarsi mortificato anche se, ovviamente, non aveva alcuna colpa. Marley, a guida dell'auto, le rivolse un'occhiata di sbieco nello specchietto retrovisore interno. I suoi occhi scuri, infossati e cerchiati di rosso, per poco non la spaventarono.

L'edificio si materializzò all'interno del vetro del parabrezza prima del previsto. Lo vide stagliarsi accecantemente candido contro il cielo buio, le colonne ioniche e le balconate marmoree eternamente bianche e fresche di ridipintura. I tetti a spiovente, a metà tra il verde acqua e il marroncino, erano sovrastati da comignoli fumanti e piccoli acroteri dorati. Le alte finestre, che riflettevano i colori delle nuvole scure, erano protette da inferriate finemente decorate, nella futile speranza di farle sembrare una scelta stilistica più che una necessità.

L'auto si fermò nel patio principale, tra la fontana con la statua di Poseidone e le alte siepi potate ad arte. Un'altra auto spiccava nel cortile piastrellato e le ci volle solo un attimo per riconoscere la Lamborghini grigia di Edward. Sapere che il ragazzo fosse lì le diede un'ulteriore motivo per ritenersi giustamente arrabbiata. Sbuffò sonoramente e spalancò la portiera ancor prima che Marley spegnesse il motore. Non si preoccupò di recuperare la sua roba, sapendo che, in un modo o nell'altro, l'avrebbe ritrovata piegata e profumata nei cassetti di camera sua. Si avviò piuttosto verso l'entrata, una gigantesca porta di vetro antiproiettile che torreggiava sul crepidoma a tre gradini. Varcare la soglia invisibile di casa sua le provocò un brivido lungo tutta la schiena: era di nuovo in trappola; era di nuovo la principessa.

Incrociò James dieci passi dopo. Il maggiordomo le andava incontro nella sua solita veste elegante, scivolando, più che camminando, sul pavimento lucidato. Un sorriso soddisfatto gli incurvava le labbra sottili e gli illuminava gli occhi grigi di una nuova luce. I capelli, ormai totalmente bianchi, erano dignitosamente acconciati all'indietro, mostrando con fierezza le rughe che gli solcavano la fronte alta e scura. Suo malgrado, Roxanne si ritrovò a sorridere. Senza pensarci due volte si slanciò verso di lui e gli gettò le braccia al collo. James rispose con una stretta affettuosa e un mormorio di assenso.

<<Speravo di non vederti per un bel po', bambina.>> sussurrò quando si staccarono <<Non fraintendermi, ci sei mancata qui alla Reggia, ma preferivo saperti felice e al sicuro all'Accademia.>>

Roxanne abbozzò un sorriso. James e il resto dei domestici erano la parte migliore della sua vita lì: avevano scelto di volerle bene senza alcun obbligo, l'avevano cresciuta, istruita e amata senza remore e senza costrizioni. Li sentiva dentro al cuore come una piccola ondata di calore. <<Grazie, James. Anche io avrei preferito restare lì, ma una forza superiore è intervenuta e mi ha riportata qui.>> brontolò alzando gli occhi al cielo <<A quanto pare a Sua Maestà non andava a genio che mi fossi liberata dalla sua prigione.>>

James la zittì con gentilezza. <<Non dire così. Tua madre sarà stata solo preoccupata, vedrai che tutto si risolverà.>>

<<Sei carino a preoccuparti, ma non c'è più bisogno di fingere: sai che niente si risolverà finché mia madre sarà decisa a rovinarmi la vita.>>

Il maggiordomo le diede un buffetto sulla testa. <<Melodrammatica.>> sghignazzò <<Smettila di fare la bambina e vai a salutare Mary, è impazzita quando le ho detto che eri già di ritorno.>>

<<Corro.>> Gli strinse per un attimo il braccio, sinceramente felice di rivederlo, e si mise a camminare lungo il corridoio principale. Il vano era vasto, a stento ne si vedeva la fine, e le ampie finestre all'inglese gli donavano un fascino di altri tempi. I suoi anfibi si impigliarono in uno dei numerosi tappeti decorati a mano, saggiamente stesi a coprire il parquet in ebano scuro. Il suo sguardo continuava a venire rapito qui e là dagli oggetti di antiquariato che facevano da tramite tra il mondo moderno e la galleria vera e propria.

La verità era che non importava che quella fosse casa sua o che avesse percorso quegli ambienti avanti e indietro centinaia, migliaia di volte, avrebbe sempre provato le medesime emozioni: il cuore traballava, cercando di resistere all'idea che potesse esistere un lato positivo del vivere rinchiusa alla Reggia, e poi cedeva, sconfitto davanti alla bellezza della collezione d'arte di suo nonno. C'erano pezzi così belli da smorzare il fiato, e più ci si addentrava e più pareva di immettersi in un universo a sé stante abitato da ninfe, satiri e amorini. Era lì, tra quadri e arazzi, statue e gioielli, che la sua passione era sbocciata. Aveva passato giorni e notti rintanata in quell'infinita sequenza di corridoi: c'era sempre un dettaglio in più da cogliere, un'espressione da interpretare, uno schema compositivo da ricreare. Molte delle opere erano copie di artisti più o meno affermati, tuttavia, se ci si sapeva destreggiare tra falsi miti e bugie, si scopriva che c'erano anche dei pezzi unici, venuti fuori direttamente dalla creatività dell'artista, dalla sua mano, dalla sua matita. Ne erano un esempio i quadri trafugati di Monet e Caravaggio o i bozzetti preparatori di Raffaello e la testa di fauno scolpita direttamente da Michelangelo. La cosa che la affascinava di più era che, oltre all'imparagonabile bellezza di tali opere, ognuna di essere racchiudeva dentro di sé una lunga e tortuosa serie di sciagure che l'aveva condotta lì. Esattamente come era accaduto a lei.

Terminata la rimpatriata con i suoi vecchi amici - a dirla tutta non molto loquaci - svoltò a destra e, dopo un breve deambulatorio, venne catapultata nelle cucine. Anche lì l'atmosfera mutava repentinamente: tutto sembrava essere tiepido, quieto, rassegnato al proprio destino. Le cameriere si affaccendavano di qui e di lì con i piccoli grembiuli bianchi legati alla vita, le mani screpolate per l'acqua e i capelli raccolti sulla nuca. Come era solita fare, quasi per rispetto, si legò anche lei la folta chioma dorata. Molte delle donne che lavoravano alzarono gli occhi e le rivolsero sorrisi luminosi e cenni d'intesa. Roxanne avrebbe voluto fermarsi ad abbracciarle una per una, ma era troppo impaziente di trovare Mary. La donna la scorse prima di lei e le galoppò incontro come un cavallo imbizzarrito. Per poco non la fece rotolare a terra quando si scontrarono.

<<Dio, cosa ci fai già qui, peste? Possibile che non ci vuoi proprio lasciar stare per un po'?>> gongolò con la guancia premuta contro il suo petto.

<<Questa non mi è sembrata la reazione di una persona poco contenta di vedermi.>> precisò Roxanne ritraendosi lentamente. Mary era una piccola donna sulla quarantina; era bassina, portava i capelli corti, più chiari verso l'estremità, e ci teneva sempre ad essere impeccabile. La coglieva spesso a sistemarsi negli specchi o nei riflessi sfuggevoli delle vetrinette di cristallo, tuttavia era fermamente convinta che non lo facesse per vanità, ma semplicemente per sentirsi più sicura di se stessa.

Annuì. <<Hai ragione... devo ammettere che mi sei mancata, scansafatiche che non sei altro. Conoscendoti, non voglio neanche immaginare in che condizioni verserà la tua casa. Fatti guardare un attimo.>> le ordinò sansandola da sé e facendole compiere un giro completo << Lo sapevo! Guarda quanto è dimagrita, Julia! Te l'aveva detto che avrebbe digiunato pur di non cucinarsi qualcosa.>> L'amica le diede manforte annuendo vigorosamente. <<Ti sembra un comportamento normale per un'adulta?>>

Roxanne finse di sbadigliare. <<Ero venuta a salutarti, non a farmi fare la predica.>> tagliò corto <<E comunque sto mangiando... non grazie alle mie abilità, ma è il risultato che conta.>>

<<E chi diavolo sarebbe così pazzo da servirti il pranzo?>> domandò Julia ridacchiando. Lo fece in maniera così spontanea, che neanche si accorse delle espressioni terrorizzate dei domestici che non conoscevano bene la padrona di casa. Probabilmente erano già tutti pronti a prepararle la valigia dopo il licenziamento.

Un sopracciglio si incurvò sul viso sciupato di Roxanne. <<Intendi a parte te e la tua amica?>>

Probabilmente il suo tono serio fu frainteso, poiché la ragazza sbiancò e subito cominciò a singhiozzare mortificata: <<Mi perdoni, signorina, non volevo essere così impertinente. Sono desolata, io non intendevo assolutamente mancarle di rispetto...>>

Roxanne scoppiò a ridere. L'ansia che permeava la stanza sembrò sgonfiarsi come un palloncino. <<Julia, smettila! Stavo scherzando, tesoro! Sappiamo tutti che sono una bimba viziata, non sentirti in colpa per aver semplicemente detto la verità.>>

<<Confermo! È proprio una bimba viziata!>> esclamò una voce alle sue spalle. Un braccio le circondò il torace e labbra ispide di barba le stamparono un bacio sulla fronte. L'odore di farina e legna bruciata era inconfondibile.

<<Liam! Come osi...>> mormorò tirandogli un pugno sulla spalla. Il ragazzo, di qualche anno più grande di lei, parò il colpo con una mano e, con l'altra, le impasticciò tutto il viso di farina. <<Perirai per questo!>> lo minacciò sputacchiando polvere bianca ovunque. Mary, Julia e un altro paio di persone iniziarono a ridere spudoratamente. Cercò di mandar via parte della farina, ma ben presto si arrese. Liam la fissava tutto orgoglioso di sé mentre impilava le teglie con l'impasto lievitato del pane. I suoi occhi a mandorla, scuri e vispi, la sfidavano a continuare la battaglia. Purtroppo Roxanne sapeva di avere poche chance di uscirne vincitrice: con le sue tre sorelle minori, Liam era un asso nella sopportazione e nei dispetti. Gli fece la linguaccia e lui, in cambio, le rivolse un sorriso a trentadue denti.

<<Dov'è tua sorella, stronzo?>> domandò fingendosi insofferente e tamburellando il tallone contro il pavimento.

Liam assunse un'espressione scioccata sistemandosi i capelli neri e lunghi dietro le orecchie. <<Ma come? Non era me che eri impaziente di rincontrare?>>

<<Ma per favore! Ero così felice di non dover sopportare la tua vista da mesi!>> Liam, com'era prevedibile, non abboccò alla bugia. Le fece una smorfia di scetticismo e le indicò con un cenno della testa il piccolo cortile sul retro.

<<Debby è lì fuori... tanto per cambiare, insomma.>> Si strofinò via i residui di farina dai palmi callosi. <<Dille da parte mia che deve sbrigarsi a rientrare, ho bisogno di lei per infornare.>>

<<Ai suoi ordini, capo!>> esclamò con un derisorio saluto militare. Liam assottigliò gli occhi e le fece il verso, ma la lasciò andar via senza commenti. Lo conosceva da così tanti anni e così bene che le dispiacque che non le avesse chiesto nulla della sua nuova vita. In ogni caso, oltrepassò la porta finestra dietro di lui e si immise nel minuscolo patio in terriccio. Era uno spazio ottagonale circondato da mura basse e locali di servizio. Non essendo riccamente illuminato e tramontando così presto il sole, riusciva a stento a distinguere l'amica nonostante fosse ancora primo pomeriggio. Debby, la più grande tra le sorelle di Liam, se ne stava di spalle appoggiata placidamente al muro. In una mano stringeva un cellulare, nell'altra una sigaretta lunga e sottile. I capelli ricci e neri le coprivano parte del viso ambrato, bello come il mare al mattino.

<<Mi lasci due tiri?>> domandò spaventandola.

Debby fece un salto indietro per la sorpresa. <<Roxanne? Che diamine...>> Si strinsero l'un l'altra con un sorriso. Fu un abbraccio rapido ma significativo, ricolmo di quelle frasi che non avrebbero mai pronunciato ad alta voce: "mi sei mancata", "non vedevo l'ora di rivederti". <<Tieni.>> disse progendole la sigaretta.

Roxanne le sorrise riconoscente e tirò una lunga boccata di fumo. <<Be', che mi sono persa?>>

<<Eh no, signorina. Non credere di partire per due mesi e scamparti l'obbligo di raccontarmi tutto. Non ti lascerò sviare la conversazione.>> la rimproverò puntandole l'indice al petto.

Roxanne alzò le mani al cielo. <<Hai ragione. È solo che... vorrei parlarne in un luogo un po' più... appartato.>> sussurrò indicando con un'occhiata le telecamere nascoste dietro il fogliame. Debby annuì impercettibilmente. <<In più tuo fratello ti sta cercando.>>

<<Oh, l'hai già visto?>> chiese riprendendosi il mozzicone <<Non ha fatto che lamentarsi di quanto la Reggia sia noiosa senza di te. Ho cominciato a pensare che fosse lui la tua persona preferita nella nostra famiglia.>>

<<Scherzi? Tuo fratello è un'idiota!>>

Lei si strinse nelle spalle. <<Non so, è che si è sentita molto la tua mancanza qui.>>

<<E io ho sentito la vostra lì.>> aggiunse Roxanne. Un fischio proveniente dalle cucine le tirò fuori da quella breve parentesi di delicatezza. <<Adesso ti conviene andare prima che tuo fratello ci sgozzi entrambe.>>

<<Che essere insopportabile! Assurdo che condividiamo gli stessi geni, non trovi?>> brontolò allacciandosi meglio il grembiule sporco di burro e zucchero a velo. Roxanne ridacchiò. <<Ci vediamo sempre nello stesso posto a fine turno?>>

La ragazza le fece un segno d'assenso. <<Ti aspetto lì. A dopo.>>

<<A dopo.>>


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