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XI - Decidere che cosa sia il giusto (1)

Roxanne odiava non essere a conoscenza delle cose.

Era sempre stata una ragazza curiosa per natura; bramava il sapere più di ogni altro tesoro, le dita le tremavano per la smania di informarsi e il cuore le batteva forte durante le ricerche. Se da un lato la cosa l'aveva sempre favorita a livello scolastico, dall'altro le procurava un senso di insoddisfazione cronica: voleva sempre di più e non sarebbe mai riuscita ad accontentarsi facilmente. Inoltre, se qualcuno le metteva sotto il naso una mezza verità o un segreto da svelare, non poteva resistere a l'irrefrenabile bisogno di arrivare in fondo alla faccenda.

Dunque, se nel giro di una settimana le venivano offerti ben due grattacapi, rischiava seriamente di impazzire da un momento all'altro.

Nell'ora successiva al corso di Letteratura Avanzata non fece altro che rimuginare, scervellandosi continuamente per carpire qualche informazione in più o una possibile soluzione. Se ne stava seduta vicino alla finestra e fissava fuori: la pioggia batteva violentemente sulle lastre di vetro facendola rabbrividire.

Sospirò afflitta. Si voltò verso il professore di chimica con aria assente. L'uomo aveva spiegato per tutto il tempo, riempiendo la stanza con il suono cadenzato del suo accento irlandese, ma lei non era riuscita a capire quasi nulla. Sapeva solo che si trattava di qualcosa che aveva a che fare con le reazioni tra composti. La chimica non l'aveva mai rapita più di tanto, anzi, si annoiava quasi sempre quando doveva studiarla. Se poi a questa persistente avversione si sommavano le cento preoccupazioni che le frullavano per la testa, seguire la lezione diventava a dir poco insostenibile. Avrebbe voluto alzarsi e andarsene in giro per i giardini del campus, ma le sembrava davvero scortese nei confronti dell'insegnante sparire nel bel mezzo della spiegazione. Quindi rimase seduta lì, nonostante le sue mille asfissianti domande, fino allo scoccare dell'ora.

Si strofinò il viso, si ripose i capelli dietro le orecchie e si dileguò. Guardando l'orologio si rese conto che ormai era l'una in punto e quindi non le restava altro da fare se non tornare a casa.

Si diresse sovrappensiero verso il suo appartamento. Ormai girava per quei corridoi con totale scioltezza, non aveva neanche più bisogno di pensare più di tanto a dove voleva andare che i piedi la portavano automaticamente lì. Arrivata a metà strada, però, una figura familiare le bloccò la via.

<<Roxi!>> esclamò Clarke correndole incontro <<Speravo proprio di incontrarti!>>

<<Dimmi, che succede?>>

<<Oh nulla di che! Volevo solo avvisarti che esco un attimo, devo portare il mio quaderno di appunti ad Annabeth.>> disse mostrandole il suddetto quaderno. Annabeth, per quello che aveva capito Roxanne, era la migliore amica di Clarke, nonché sua cugina di sangue.

<<D'accordo, ci vediamo tra poco? Ti aspetto per pranzo?>>

<<Si, assolutamente. Torno il più in fretta possibile.>> promise <<Anche perché - scusami se non ti ho avvisato prima, ma sono riuscita a convincerlo all'ultimo - ho lasciato Bellamy ad aspettarmi in cucina. Pranza con noi... sempre se per te non è un problema, ovviamente.>>

Roxanne si ritrovò messa all'angolo: non voleva vedere Bellamy per nessuna ragione al mondo, era così arrabbiata con lui che avrebbe potuto spaccargli il naso solo al sentirlo respirare, ma, d'altra parte, non avrebbe potuto negare quel favore a Clarke senza offenderla. Lei la guardava con i suoi gentili occhi azzurri, pieni di aspettative, e Roxanne non sarebbe mai riuscita a dirle no. Neanche se ne andava della sua salute psicologica. <<Va bene. Non preoccuparti.>> borbottò mascherando alla bell'e meglio il suo broncio.

<<Perfetto! A tra poco allora!>> Le diede un veloce bacio sulla guancia e scomparve senza aspettare repliche.

Roxanne produsse un verso gutturale di rabbia e sconforto. Aveva sempre meno voglia di chiudersi in un spazio chiuso, avrebbe preferito nettamente gironzolare sotto la pioggia e beccarsi la febbre. Specialmente adesso che era al corrente del fatto che c'era Bellamy ad aspettare nel suo appartamento.

Si grattò il capo avvilita: ormai aveva firmato la sua stessa condanna, non poteva più andarsene. Dunque, consapevole del suo triste destino, si trascinò contro la sua volontà fino a casa. Prima di aprire la porta prese dei lunghi respiri profondi nella speranza di calmare la mandria di mustang selvaggi che scalpitavano dalla voglia di prendere a calci Bellamy Blake.

<<Ce la possiamo fare, Roxanne.>> si disse aprendo la serratura. Entrata nell'ambiente percepì il piacevolissimo cambio di temperatura: il calore lì era come una coperta avvolgente durante le intemperie. Si sfilò il giubbino pesante e cercò di ignorare il più possibile l'odore di Bellamy che aleggiava per la camera. Era un vero segugio quando si trattava di riconoscere il suo profumo. Percepì subito la sua presenza in casa, il suo camminare silenzioso che spesso si rompeva nello schioccare del suo ginocchio malandato, la sua voce profonda riecheggiava per l'appartamento in un suono snervantemente familiare, come se quelle pareti si tenessero in piedi solo grazie alla sua essenza adesso che vi era entrato. Roxanne ipotizzò che stesse registrando un messaggio vocale per qualche suo amico perché lo sentì ridere di gusto mentre parlava.

Alzò gli occhi al cielo e si diresse silenziosamente verso la sua stanza. Pensò anche a quanto fosse ridicola quella situazione: si era ridotta a nascondersi nella sua stessa casa pur di non dover avere a che fare con il suo ex fidanzato. Ovviamente le sue speranze si rivelarono ben presto vane.

<<Clarke?>> domandò lui dalla cucina semi nascosta <<Tesoro, sei tu?>> Roxanne udì i suoi passi avvicinarsi e la sua figura - odiosamente attraente - apparire in salotto. <<Ah...>> sospirò deluso <<Sei tu.>>

<<Sai com'è, sarebbe il mio appartamento fino a prova contraria.>> sbottò irritata Roxanne. Nonostante gli sforzi per restare calma, non stava facendo un bel lavoro.

Bellamy alzò un sopracciglio divertito. Aveva sempre adorato schernirla quando era arrabbiata. <<Sì, hai ragione. Ma lo condividi con la mia fidanzata, quindi, per quanto non abbia alcuna voglia di vederti, non posso sempre declinare gli inviti, mia cara Roxanne.>> disse guardandola dall'alto verso il basso <<Ma probabilmente tu non ricordi neanche cosa significhi avere una relazione, no?>>

Roxanne sentì una vampata di calore scottarle le guance. La rabbia le fece arrossare le gote e le orecchie. Le tremavano le gambe e le labbra per l'ardente desiderio di sfregiare la sua faccia perfetta e sbeffeggiante. Al contrario di ciò che provava, gli fece un sorriso freddo e disse: <<Già, e non era neanche un granché.>>

Bellamy dischiuse le labbra sorpreso e lei gioì di averlo colpito a fondo. Senza aggiungere altro si rintanò in camera sua. Tirò un sospiro di sollievo. Adesso, sola e in pace, decise di distrarsi un po' e di occupare il tempo con ciò che amava di più fare: dipingere. Aveva bisogno di incanalare la rabbia, e quale miglior modo se non l'arte? Era quello il vero motivo per cui era lì, di certo non per rimettere in piedi il loro vecchio triangolo amoroso. Soprattutto perché ormai non era più così interessante: Bellamy se ne era tagliato fuori. E a Roxanne, per quanto ancora le dolesse il cuore, andava benissimo così.

Si accomodò sul suo sgabello traballante davanti al cavalletto. C'era già una tela poggiata sopra, un lavoro iniziato nel bel mezzo della notte qualche giorno prima. Non riusciva a dormire bene da anni, tormentata costantemente dagli incubi - che lei aveva sempre definito Ombre-, e spesso le capitava di avere l'ispirazione a orari improponibili. Non aveva potuto resistere a mettere in atto la sua idea: si era alzata, aveva acceso la luce, preso una tela bianca e aveva iniziato a dipingere ciò che provava. Si era ritrovata a rappresentare tre anelli intrecciati su uno sfondo scuro come il petrolio. Ovviamente non erano gioielli qualsiasi, bensì i secolari anelli di famiglia: i destini dei Moore, dei Blake e degli Hale erano incatenati in una spirale dorata. Le pietre colorate splendevano di una luce maligna persino nel dipinto buio e, all'interno delle fasce ornate, comparivano tre sottili frasi in una perfetta riproduzione degli originali. L'unica differenza, pressoché invisibile a tutti tranne che ai diretti possessori degli oggetti, erano le parole nascoste tra i ghirigori argentei: Odero, si potero. Si non, invitus amabo.

Ti odierò, se potrò. Altrimenti, mio malgrado, ti amerò.

L'aveva aggiunto senza nemmeno pensarci, impossessata dal fervore artistico. Vedendosi lì, dilaniata dalla voglia di ripristinare il passato e la paura di perdonare ciò che era stato fatto, non credeva potesse esistere motto più calzante di quello. La contrapposizione di emozioni che stava vivendo rischiava di strapparla irreparabilmente: voleva dimenticare, lasciarsi tutto alle spalle e fingere che tutto fosse stato un lungo e vivido incubo; ma come avrebbe potuto? Niente era più lo stesso. Lei non era più la stessa. C'era una forza nuova dentro di lei, una forza che amava e che la rendeva fiera. Non voleva davvero obliare, non voleva cancellare niente. Avrebbe voluto solo che il suo cuore sanguinasse di meno alla vista di Isaac e Bellamy. Avrebbe voluto non sentire il desiderio ardente scoppiare dentro di lei ogni volta che i suoi occhi incontravano quelli del suo nemico, o che non fosse stato così arduo e debilitante allontanare Isaac, come se, ogni volta, si lacerasse un pezzo di se.

Ma quella era la sua vita, adesso, e non le restava altro da fare se non accettarla.

Prese il pennello e finì il quadro. 


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