I - E più lontani siamo
Le pietrine scricchiolavano sinistramente tra le suole delle Vans e l'asfalto rovinato,mentre una ragazza dai lunghi capelli dorati attraversava gli alti cancelli in ferro battuto del college di Windsor. Camminava a passi lenti e sicuri coi jeans a palazzo che ondeggiavano a tempo lasciando intravedere i calzini giallo canarino. Si trascinava dietro due grosse valigie, preparate con cura dalla sua domestica, Mary, una donna gentile, l'unica che aveva pianto per la sua partenza; l'unica che, in quella casa, era ancora capace di provare emozioni.
Procedeva languidamente sotto la penombra degli antichi alberi del viale, gli occhiali scuri sul naso all'insù che mascheravano i guizzi continui dei suoi attenti occhi verdi. Tiró un profondo sospiro e l'odore dell'erba appena potata le solleticó le narici. La folla di famiglie e studenti sembró percepire la sua aura di inaudita potenza, diradandosi per aprirle un corridoio di passaggio.
La formazione che le avevano impartito l'aveva resa un'attenta osservatrice; riusciva, difatti, con un singolo sguardo, a comprendere informazioni e sentimenti di tutti gli estranei che la circondavano. Ad esempio, il bell'uomo di mezz'età che le stava a sinistra, era palesemente scontento della scelta del figlio, avrebbe certamente preferito una facoltá più proficua, che gli permettesse di ereditare la sua impresa. D'altra parte, anche suo figlio sembrava impaziente di mettere fine a quella messa in scena e liberarsi dei severi genitori al più presto. La ragazza alzó gli occhi al cielo: almeno i suoi parenti si erano degnati di accompagnarlo, lei era stata quasi diseredata, avrebbe dovuto esserne grato.
Dopo tre minuti e mezzo, il grande edificio che fungeva da dormitorio le si paró davanti: la facciata principale era di una calda sfumatura tra il rosso e l'arancione, sulla quale contrastavano finestre blu marino. Tra un passo e l'altro, pensó a quanto quell'abbinamento fosse insolito e speró che le stranezze non continuassero anche all'interno. S'infiló una mano nella tasca posteriore dei pantaloni per estrarne il foglio con le informazioni che le avevano spedito la settimana precedente. C'era stampato a caratteri doppi: "Camera assegnata: n.110. Richiedere la chiave all'addetta/o". Dunque, varcato il portone di vetro, si guardó intorno alla ricerca dello smistamento. Una fila all'angolo più estremo della stanza attiró la sua attenzione, quindi, supponendo che il posto fosse quello, ci si accodó. L'attesa duró molto meno del previsto, le quindici persone che la precedevano impiegarono giusto un paio di minuti ciascuno per svolgere il riconoscimento: la donna dietro la scrivania sembrava fare quel lavoro da anni. Arrivato il suo turno consegnó foglio e documento trattenendo il fiato: il fatto che si trovasse in un altro stato non escludeva che la notorietà del suo macabro cognome la perseguitasse anche lì. Lo sguardo della signora scorreva su e giù sulla sua carta d'identità.
<<Ti dispiacerebbe togliere un secondo gli occhiali, per favore?>> domandò neutra. Sapeva di non potersi dimostrare agitata, ma non poteva di certo negare che il cuore le battesse a mille mentre si sflilava i Rayban, che rimasero a penzolare strette nella loro cordicella gialla. L'addetta la fissó per qualche secondo negli occhi, ma le parve fosse trascorsa un'eternità. Pensava che avrebbe riconosciuto i tratti di suoi padre in lei e l'avrebbe rispedita a Detroit su una volante della polizia, invece sorrise cordialmente restituendole il documento. <<La tua camera é al secondo piano, uscendo dall'ascensore a sinistra>>.
Una piacevolissima sensazione la inondò dalla testa ai piedi. Forse, dopotutto, non era poi così simile ai suoi genitori come tutti affermavano.
Si rinfilò gli occhiali scuri nonostante fosse all'interno della struttura -servivano a completare la sua aria altera e distaccata- e attese l'arrivo dell'ascensore con gli altri universitari. Si fermò con un fastidioso bip e tutti si precipitano dentro. Per quanto fossero accalcati, nessuno osò toccare quella strana ed emblematica ragazza, si limitarono ad osservarla a debita distanza, affascinati e vagamente perplessi.
Arrivata al secondo piano le fu facile raggiungere la stanza 110. La porta, su cui era affisso il numero in acciaio ormai opaco, era socchiusa, segno che la sua coinquilina fosse già lì. Inspirò: aveva sicuramente affrontato cose ben peggiori, però non le era mai capitato di dover condividere la stessa aria con una completa estranea per quasi un anno. Era vagamente emozionata e preoccupata allo stesso qual modo. Diede un colpetto alla porta con il piede ed entrò.
Le parve di essere catapultata in una dimensione del tutto diversa: non aveva mai avuto l'occasione di avere una vita al di fuori della Reggia, dunque era tutto nuovo ai suoi occhi, come per un bambino che muove i primi passi.
Il salottino era accogliente, i mobili classici, i più semplici possibili, completamente in contrasto con quelli a cui era abituata. I soli corridoi della Reggia erano perfino più ampi dell'intero locale. Dalla stanza accanto provenivano strani rumori, come se la ragazza stesse litigando con un armadio.
Trascinò all'interno le sue valigie traboccanti cercando di produrre più trambusto possibile in modo da annunciare la sua presenza. Dover passare per una rumorosa sciagurata non le faceva di certo piacere, ma almeno poteva escludere la possibilità di condividere l'appartamento con una spia: anche il membro più distratto dei Clan avrebbe avvertito il suo arrivo appena messo piede dentro il salotto. O, forse, era tutto minuziosamente calcolato per indurla a credere esattamente quello che desiderava.
Il rumore cessó di colpo e una ragazza minuta con una lucida frangetta nera fece capolino nel corto corridoio. I capelli lisci le oscillarono sulle spalle mentre le si avvicinava con un sorriso stampato in faccia. La analizzó senza neanche volerlo, ormai le veniva spontaneo come battere le ciglia: era bassina, forse sfiorava un metro e sessanta, occhi chiari come il cielo d'estate e denti perfetti. Era magrolina e camminava con le punte dei piedi leggermente all'infuori, segno di tanti anni di danza classica. Probabilmente aveva un animale domestico perché le sue sneakers bianche erano ricoperte di peli, come la parte inferiore dei suoi jeans scuri. Indossava un elaborato top rosa cipria che le lasciava scoperta la pancia piatta e due mollettine del medesimo colore che le tenevano indietro i capelli ai lati della testa. Aveva esattamente l'aria di una che non le sarebbe andata a genio.
<<Piacere di conoscerti, mi chiamo Clarke Griffin.>> disse con una vocina acuta e sottile porgendole la mano ossuta.
La strinse percependo il netto contrasto tra le loro forze. <<Io sono Roxanne. Roxanne Moore>> e il suo nome rimbombó sinistro tra le pareti intonacate della scuola.
***
Dopo tre giorni di convivenza, Roxanne aveva già memorizzato gli orari e le abitudini di Clarke come un automa. Era arrivata alla conclusione che fosse una brava ragazza, gentile ed educata a dovere, peró, per quanto si ostinasse insulsamente a nasconderlo, era palese che provenisse da un piccolo paese di campagna: si alzava dal letto alle sei in punto, senza impostare la sveglia e senza un motivo apparente, dato che le lezioni non sarebbero iniziate da lì ad una settimana, come se fosse così solita a farlo, da non riuscire a dormire di più nonostante avesse altro tempo a disposizione; alle sei e mezza usciva per fare una corsetta mattutina, un'azione che Roxanne non aveva mai compreso, malgrado caratterizzasse anche la routine di sua madre; alle sette meno un quarto rincasava e si barricava misteriosamente in bagno per un'intera ora; alle otto e quaranta, linda e profumata come una rosa appena sbocciata, si vestiva di tutto punto per preparare la colazione ad entrambe.
A differenza sua, Roxanne era tutto l'opposto che una persona mattiniera e, essendo cresciuta tra i gangster, non le era mai capitato di avere una routine; con loro succedono sempre cose che stravolgono la vita giorno per giorno. Dunque, non avendo mai avuto la fortuna di ripetere due volte la stessa scaletta di azioni, disporre di tutti quei giorni a disposizione e ogni libertà di scegliere con cosa occuparli, la metteva quasi in difficoltà. Aveva paura di abituarsi a condurre una vita fatta di cose semplici e genuine, di allentare il suo autocontrollo, di iniziare a comportarsi come una diciottenne comune: dentro di sé sospettava che non sarebbe durato a lungo quel breve ed idilliaco periodo di tregua.
In ogni caso, superati i primi giorni di assestamento, durante i quali i rapporti erano stati molto tesi -Roxanne barricata nella sua cinica apatia e Clarke nel suo timido timore- l'atmosfera si era sciolta e Roxanne aveva finalmente escluso che la sua coinquilina fosse una sudicia spia dei Clan nemici. Era troppo frivola, mingherlina e scoordinata per essere stata scelta come infiltrata dai gangster. Inoltre, per eccesso di zelo, aveva anche fugato tra le sue cose per accertarsi che non possedesse armi. Non era un'azione di cui andava fiera, odiava impicciarsi nelle faccende private delle altre persone, ma era stato necessario: ne andava della sua incolumità.
Un ruolo di vitale importanza nella loro riappacificazione era stato giocato dalle capacità culinarie di Clarke: essendo abituata a vivere alla Reggia, servita da svariati domestici, Roxanne non sarebbe stata capace di cuocere neanche un hamburger senza bruciarlo, invece, dal canto suo, la sua coinquilina aveva davvero delle mani d'oro quando si trovava davanti ai fornelli.
<<Sul serio, Clarke, questi pancakes sono divini. Dovresti essere fiera di te stessa.>> esclamò Moore tra un boccone e l'altro. Aveva raccolto i capelli biondi in uno chignon disordinato ed indossava i suoi classici abiti colorati. Se ne stava appollaiata sul bordo della sedia, tipica posizione delle persone che vivono in costante allerta, trangugiando felicemente il cibo delizioso che le aveva offerto Clarke.
<<Grazie, è la ricetta di mia madre.>> disse la ragazza entusiasta arrossendo leggermente.
<<Be, falle i complimenti da parte mia>>.
<<Lei è... lei è morta.>> bofonchiò. Roxanne per poco non si strozzò. Avvampò per l'imbarazzo e per un attimo pregò di sparire dalla faccia della terra. Era davvero pessima in fatto di tatto e tempismo, però questo non significava che non si sentisse sinceramente in colpa per le sue parole.
<<Ti supplico di perdonarmi. Ovviamente io non ne avevo idea, altrimenti non l'avrei sicuramente detto. Scusami, so cosa significa perdere una persona cara>>. Già mentre pronunciava quelle parole, si sentì ridicola e si pentì di aver alluso alla morte di Corey, ma, ormai, non poteva di certo rimangiarsele.
<<Non preoccuparti, sono passati tanti anni ormai. Mi dispiace che anche tu abbia dovuto sopportare una cosa del genere.>> sussurrò sbriciolando i pancakes con la forchetta. Sembrava si aspettasse qualche parola di conforto o che almeno Roxanne le raccontasse la sua storia in modo da farla sentire meno sola.
<<Si va avanti.>> tagliò corto invece lei. Roxanne non era di certo tipa da sentimentalismi e anche solo accennare alla scomparsa di Corey le apriva una voragine nel petto. <<Come ti trovi qui?>> domandò sorseggiando il succo d'arancia. Non perchè le interessasse più di tanto, desiderava solo lasciarsi alle spalle quel discorso scomodo. Anche Clarke sembrò apprezzare la sua decisione e le rivolse uno sguardo riconoscente, lieta di poter risollevare un po' l'umore tetro che si era venuto a creare.
<<Davvero bene. L'anno scorso è stato proprio fantastico. Le lezioni sono molto accurate e ho imparato un sacco di cose interessanti, ma se devo essere sincera la cosa migliore del college sono senza ombra di dubbio i festini delle confraternite. Non vedo l'ora di portartici!>> esclamò estasiata. Sembrava non aspettasse altro che diventare la sua mentore.
<<Mi dispiace deluderti, ma non ho un carattere molto compatibile con le feste. Non mi piace stare in mezzo a tante persone.>> mise in chiaro Roxanne pulendosi le mani con un fazzoletto. Le folle erano luoghi troppo pericolosi per gente come lei, per questo evitava sempre di esporsi e di farsi invitare a qualsiasi tipo di festeggiamento. Non poteva rischiare di far saltare la sua copertura e mettere in pericolo se stessa e tutti quelli che la circondavano. Soprattutto lì, lontana dal suo territorio.
<<Credo proprio che la festa di sabato sera ti farà cambiare idea. La organizza la confraternita del mio ragazzo e praticamente in giro non si parla d'altro. Ovviamente sei invitata anche tu.>> continuò Clarke ignorando le sue parole.
<<Io non credo proprio.>> borbottò. Si alzò di scatto dalla sedia troncando la discussione. Non le andava a genio dover esprimere più di una volta le sue decisioni e di certo nessuno aveva mai trovato il coraggio di contraddirla prima d'allora. <<Vado a farmi un giro.>> sentenzió. Afferrò il cellulare e chiuse la porta dietro di sé ignorando l'espressione ferita di Clarke. Le dispiacque un po' per lei, in fondo le sembrava una ragazza davvero carina, ma anche altrettanto ficcanaso, e lei non poteva permettersi di lasciarsi andare alle frivolezze tipiche degli universitari. Non fraintendete, non è che non ne fosse tentata, lo era eccome: avrebbe dato qualsiasi cosa pur di potersi comportare come una normalissima ragazza mondana anche solo per un weekend, e, dunque, era proprio da quella tentazione che cercava di fuggire. Doveva trattenersi, almeno per i primi tempi, accertarsi che le cose lì intorno fossero tranquille e, solo allora, avrebbe potuto allentare un po' la corda e concedersi qualche strappo alla regola. Del resto, le leggi del Clan non le erano mai andate a genio e si era recata lì proprio per sfuggire alla loro morsa. Difatti, dopo aver discusso per interi mesi con i suoi rigidi genitori sulla sua particolare scelta del college, aveva deciso di inviare richieste all'oscuro di tutti. L'avevano accettata in molti prestigiosi college, ma la cosa non l'aveva toccata più di tanto: lei avrebbe scelto quello che la conducesse il più lontano possibile dalla sua famiglia. Avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere pur di sfuggire ai ferrei dogmi del Clan, all'idea di doversi trattenere, di non poter vivere appieno.
Ovviamente, ottenere anche una parziale approvazione da parte di Christabelle e Dominic, fu una vera impresa. Loro accordavano solo ciò che rientrava nei loro interessi, e questo li contraddiceva uno per uno, ma, dalla sua parte, Roxanne aveva una mente cinica e sleale, non le importava di indossare un comportamento decoroso o di mantenere salde le apparenze, dunque, dopo svariati episodi, i suoi genitori furono praticamente costretti ad allontanarla. Era un periodo molto delicato e non potevano permettersi di far crollare la loro credibilità. Fu per questa subdola strategia che Roxanne si accaparrò l'opportunità di partire senza scorta per l'accademia delle belle arti di Windsor, in Canada, di certo non per la benevolenza del Boss, e, dopo tanti sacrifici, non era intenzionata a sprecarla. Non avrebbe permesso a niente e a nessuno di rovinare i suoi piani, pensò mentre si incamminava verso il cortile del dormitorio, aveva già rinunciato a troppo. Diede un'occhiata intorno: si prospettava una bella giornata, il sole le scaldava flebilmente le braccia nude e le guance lentigginose -per quanto possa essere caldo il sole autunnale canadese- e l'aria profumava di rugiada. Con il sottofondo dei passi cadenzati degli altri collegiali che erano usciti per una passeggiata, si accomodò su una panchina di ferro battuto rivolta verso la luce. Nei giorni precedenti aveva già perlustrato in lungo e in largo tutto il territorio rinchiuso all'interno delle alte mura di pietra, costeggiando i vari edifici e le rumorose case delle confraternite: tutto le era apparso tranquillo, statico, perfettamente nella norma. Esattamente come lei desiderava. Si accese una sigaretta, il fumo aleggiava intorno a lei in morbide volute. Inspirò lentamente e, godendosi quell'anonimo attimo, sorrise. Stava dando inizio alla sua seconda vita.
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