A cavallo d'un cavall...
Saretta era un'amica. Piccina, dalla pelle scura, che parlava un dialetto curioso e stretto che spesso non capivo. Però lei capiva me e mi dimostrava tutta la sua felicità quando mi fermavo a giocare con lei. Vivevo nella città vicina e lei in campagna, tutto l'anno, non so come andasse a scuola, non ne parlammo mai. L'estate i miei affittavano per un mese una villetta graziosa nel verde, e io scorazzavo in bicicletta per le stradine in terra battuta tra i campi, dove macchine non ce n'erano, o dove al massimo procedevano a passo d'uomo, sballottolate dal fondo dissestato, sollevando in lontananza nuvole di polvere di tufo.
Tra i campi c'era una casa bianca, un cubo con una porta e due finestre, e un vecchio sedile di macchina fuori, che faceva da panchina. Lì dentro viveva Saretta, con dei genitori anziani e un fratellino, che in una mano aveva solo tre dita.
Non avevano la luce, e sapevo che bevevano l'acqua della cisterna. Saretta l'avevo incontrata che impastava torte di fango sotto un albero, per un bambolotto guercio che dormiva sotto uno straccio; le avevo proposto di giocare agli indiani.
Da quel giorno, lei era diventata la mia riserva di personaggi immaginari, si prestava a qualsiasi ruolo, entusiasta. Non aveva nessuna idea propria, non contestava mai nessuna delle incredibili storie che imbastivo, come facevano a volte i miei compagni di scuola, che questo o quello non volevano farlo.
Per lei ero una creatura fantastica, e mi seguiva ciecamente, in qualsiasi gioco inventassi. Poi, un giorno, mi scomparve da dietro. Preoccupatissima, mi diedi a cercarla ovunque, finché la scoprii rannicchiata sotto le radici di un olivo, in quella che avrebbe potuto essere la tana di una volpe.
Scoprii così che Saretta aveva dei nemici. Una banza di mascalzoncelli, quattro bimbetti grandi quanto noi o poco più, che Dio solo sa perché l'avevano presa di mira. Se l'incontravano le correvano dietro gridando, e lei impaurita scappava a perdifiato. Le tiravano sassi, le dicevano cose che non avevo mai sentito, e un giorno l'avevano acchiappata e le avevano tirato giù le mutande. Avevo otto anni, e non sapevo nulla della vita, ma ero certa che fosse una cosa che non dovevano permettersi di fare, no!
Ma Saretta non l'aveva mai detto a nessuno e io non sapevo se avesse ragione di vergognarsi perché le avevano visto il didietro. Non voleva che questo lo sapesse nessuno, assolutamente. Quanto ai genitori, sua mamma e suo papà non c'erano mai e pareva non si preoccupassero molto di lei. Un po' dell'altro bimbo, più piccolo, ma mai di lei. Mi dispiacque tanto, ma non sapevo che fare.
Comunque, dopo quel giorno che si era nascosta, non avevamo più visto quelli brutti cattivi, come li chiamava, e i giochi erano ripresi nel caldo sole estivo fino all'inizio della fiera del levante.
In occasione della fiera, la televisione proiettava dei film, al mattino, e quella era una cosa straordinaria, per noi bambini. Io vedevo il film, prima di uscire. Lei però, il televisore non ce l'aveva. Quel giorno mi attese al solito posto e io ci andai solo molto dopo. Al mio posto arrivarono loro, e lei corse a nascondersi. Li vidi di lontano, che guardavano in giro.
"A Sa', vieni fuori. Beeeella..."
"Non aver paura, che ti facciamo vedere le cose nostre".
"Saaaara... dove sei?"
Immaginai facilmente dove si fosse rintanata, e quanto fosse terrorizzata. Che faccio? mi chiesi. Erano vicini, troppo vicini al grosso olivo. E in giro non c'era anima viva.
"Volare, oh oh! Cantaaaaare Oh Oh Oh Oh"
I quattro ammutolirono e si girarono di scatto.
"Nel blu dipinto di blu, nel blu dipinto di blu".
Devo dire a mia discolpa che non sapevo cantare, e che quella era forse l'unica canzone che conoscessi, certo feci un tale fracasso gridando a squarciagola che i ragazzini smisero ogni cosa per concentrarsi su di me, che arrivavo pedalando come avessi un motore nelle gambe.
Come lo pensassi non lo so, ma l'unico modo che mi venne in mente per dare a Saretta un'occasione di sgattaiolare via fu quello.
I quattro si avvicinarono alla strada, richiamati irresistibilmente da quella bimba stramba che urlava al cielo la canzone di Modugno e io inchiodai la bici davanti a loro. Nel silenzio che scese ci fronteggiammo.
"Certo che manco un asino fa brutto come canti tu", mi fece uno.
E feci spallucce.
"Che bella bicicletta, scendi che ci faccio un giro", disse un altro.
"Provaci", gli risposi, "e mio papà ti spara nelle gambe".
E rimasi fieramente in sella, sentendomi molto Cowboy verso banditi.
"E che è, poliziotto, papà tuo?" Fece il terzo con fare sfottente.
"No, è cacciatore. Spara bene, e ci abbiamo un cane grosso come quello dei pastori, vuoi venire a vederlo? Se lo chiamo da qui forse mi sente".
Quante balle mi riuscì di sparare tutte insieme, ancora ci rido. Dovetti riuscire convincente, però, in qualche modo, perché quando rimisi i piedi sui pedali e ricominciai a cantare Volare, quelli tra qualche smorfia, e gestacci, e con le mani sulle orecchie, mi lasciarono andare.
Saretta, intanto, se l'era svignata. A fine estate tornai in città e l'anno dopo la casa bianca la trovai vuota. Di lei non seppi più nulla, e spero che la vita non sia stata troppo avara con quella bambina. Chissà se si ricorda di me, di quando facevo il capitano dei corsari e la mandavo all'arrembaggio dell'albero di gelso.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro