Capitolo 2: La tregua fragile
I giorni al Ranch si mescolavano l'uno nell'altro, scanditi da turni di lavoro, esercitazioni e un costante senso di pericolo. Il mondo fuori era un incubo, ma non era il caos degli zombie ad angosciarmi di più. No, il vero inferno era condividere lo stesso spazio con Troy Otto.
Dopo il nostro primo incontro, lui sembrava essersi preso come missione personale il tormentarmi. Ogni mio tentativo di adattarmi, ogni piccolo errore, era occasione per una delle sue frecciatine. Mi irritava a un livello che non avevo mai sperimentato, ma ciò che mi disturbava ancora di più era che iniziavo a notare i dettagli dietro la sua arroganza. Come si muoveva con sicurezza, come i suoi occhi sembravano leggere dentro di me, come sapeva esattamente cosa dire per farmi perdere le staffe.
E io non ero certo da meno. Non avevo intenzione di lasciargli l'ultima parola.
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Era una mattina calda e umida quando mi ritrovai per l'ennesima volta a discutere con lui. Mi era stato assegnato il compito di portare rifornimenti in uno dei magazzini periferici del Ranch. Stavo finendo di caricare una cassa pesante su un carrello quando Troy apparve, come sempre, senza preavviso.
"Non pensavo che sapessi fare qualcosa di utile," disse con un mezzo sorriso, appoggiandosi al muro con le braccia incrociate.
"Buongiorno anche a te, Troy," risposi senza guardarlo, concentrandomi sul mio lavoro.
"Ti serve una mano? O vuoi dimostrare che ce la puoi fare da sola?"
Lo fissai, stringendo la presa sul carrello. "Sarebbe carino, per una volta, se non dovessi dimostrare niente."
Lui rise, un suono basso e sarcastico. "Nel nostro mondo non funziona così. O dimostri qualcosa, o muori."
"Grazie per la lezione di filosofia. Ora, se non ti dispiace, ho un lavoro da fare."
Pensavo che se ne sarebbe andato, ma invece si avvicinò, sollevando la cassa che stavo cercando di spostare e caricandola sul carrello con una facilità disarmante. Mi lanciò uno sguardo di sfida.
"Non ho bisogno del tuo aiuto," ribattei.
"Lo so," disse con nonchalance. "Ma questo non significa che non lo accetterai."
Quel piccolo gesto di cortesia, per quanto irritante, mi colpì. Non era quello che mi aspettavo da lui. Forse non era solo arroganza e spietatezza; forse c'era dell'altro, nascosto dietro quella maschera di superiorità.
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Passarono altri giorni, e con mia sorpresa Troy iniziò a coinvolgermi in attività più importanti. Mi insegnò a sparare con precisione, a muovermi in silenzio, a sopravvivere. Non era mai gentile o paziente, ma c'era qualcosa nella sua maniera di insegnare che mi obbligava a migliorare. Ogni volta che facevo un errore, il suo sguardo sembrava dirmi: Puoi fare di meglio. Devi fare di meglio.
Una sera, dopo un addestramento particolarmente intenso, ci ritrovammo soli sul campo. Il sole tramontava, tingendo il cielo di sfumature dorate. Troy si tolse il cappello, passandosi una mano tra i capelli biondi. Era un gesto così umano, così normale, che per un momento dimenticai chi fosse.
"Perché mi stai aiutando?" gli chiesi.
Lui mi guardò, un'ombra di un sorriso giocava sulle sue labbra. "Perché se non impari a sopravvivere, sarai un peso. E io odio i pesi morti."
Non sapevo se era una battuta o una minaccia, ma c'era qualcosa nei suoi occhi che mi fece pensare che la risposta fosse più complessa di così.
"E tu, Sarah?" continuò. "Perché sei qui? Non hai mai detto molto su di te."
Mi irrigidii. Non sapevo cosa dirgli. Non potevo certo spiegare che venivo da un mondo dove lui era solo un personaggio di una serie TV. Come avrebbe potuto credermi?
"Non lo so," ammisi. Era la verità, almeno in parte. "Non so come sono arrivata qui."
"Non sai niente, vero?" Il tono era sprezzante, ma non del tutto privo di curiosità.
"Non è così semplice."
"Nulla lo è," replicò. "Ma c'è sempre un motivo. Non finisci in un posto come questo per caso."
La sua risposta mi lasciò senza parole. Forse aveva ragione. Forse c'era un motivo per cui ero lì, anche se non riuscivo ancora a capirlo.
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Quella notte, mi trovai a pensare a lui. Nonostante le nostre continue provocazioni e le sue frecciatine, c'era qualcosa in Troy Otto che non riuscivo a ignorare. Era come un enigma, una combinazione di luce e ombra. E, contro ogni logica, mi sentivo attratta da quel caos.
Ma sapevo anche che avvicinarmi a lui era pericoloso. Non solo perché era instabile e imprevedibile, ma perché significava abbassare le difese. E in un mondo come quello, abbassare le difese era un lusso che non potevo permettermi.
Eppure, quando chiusi gli occhi quella notte, l'ultima cosa che vidi fu il suo volto. E quel pensiero mi spaventò più di qualsiasi zombie.
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