Capitolo 20 (pt.2): L'occhio della tigre
Il primo piano della locanda era diviso da uno stretto corridoio che affacciava su più stanze in apparenza tutte uguali tra loro. Le pareti erano spoglie e una finestra, in fondo al piano, affacciava sulla piazza da cui si potevano udire le grida entusiaste. L'ingresso del passaggio che Lya aveva trovato da bambina sfociava invece all'interno di un armadio dal fondo in legno, discostato appena per permettere a chiunque arrivasse fino a quel punto di riuscire a spostarne l'asse – una postazione ideale per non farsi notare da eventuali ospiti.
L'accesso nascosto si trovava in una delle stanze più lussuose, e probabilmente era quello il motivo per cui era stato creato; Lya immaginava non fosse difficile trovare qualcuno disposto a pagare pur di poter curiosare tra i segreti di chi visitava quelle camere. Non era improbabile, in fondo... era risaputo quanto gli sporchi segreti dei più ricchi fossero ben rivendibili altrove, soprattutto in un regno abbandonato come quello di Lyede.
Dopo aver riposizionato l'asse alle proprie spalle, Lya sbirciò fuori dall'armadio dischiudendo una delle ante, trovando via libera e tirando mentalmente un sospiro di sollievo. Il primo ostacolo a cui aveva pensato di dover far fronte – una camera occupata – si era rivelato inesistente.
Quel giorno sembrava non esserci nessuno nei Tre Cani, e il silenzio regnava incontrastato nella stanza che era rimasta in buona parte identica a come la giovane la ricordava, fatta eccezione per gli arredi: un letto ampio troneggiava al centro della camera avvolto in una cortina lillà, semiaperta a lasciare intravedere coperte dalle decorazioni ricamate e floreali, contornate da tre cuscinetti sparsi sul materasso. Accanto al letto era stata adagiata una carriola, la lettiera del servitore e, a pochi passi da lì, una scrivania dall'aspetto logoro e una sedia impagliata, su cui erano state abbandonate alcune braghe. Lya si avvicinò piano alla porta d'ingresso, lanciando un'occhiata di sfuggita alla scritta appesavi sopra che dava il nome a quella prima stanza: "San Iustas. Sacerdote della Natura".
La giovane ignorava chi fosse Iustas, ma ricordava vagamente di averlo sentito nominare più volte, se la memoria non la ingannava. Era lo stesso santo a cui Klab si rivolgeva quando era furioso, imprecando in preda ad attacchi di collera per le monellate dei mocciosi o quando gli affari andavano in malora.
Lya soffocò una risatina al pensiero, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Anche il corridoio era deserto, e l'unico rumore era quello proveniente dalla finestra sul fondo da cui si potevano udire chiaramente le urla e le maledizioni a gran voce dei litiganti. Lya prese un respiro profondo, pronta a setacciare le varie stanze il più velocemente possibile, con l'obiettivo di trovare ciò che Klab aveva richiesto. Il vecchio non aveva offerto molte spiegazioni a tal proposito: l'occhio della tigre, l'aveva chiamato... un gioiello talmente prezioso da essere riuscito a catturare persino l'interesse di un folle come Armen Delayé.
A che gli servirà uno stupido gioiello?
Non aveva voluto approfondire il discorso la sera prima, non aveva voluto rimanere invischiata più del necessario in quella faccenda anche se una parte di sé continuava a tormentarla. Tok aveva disapprovato del suo comportamento menefreghista, ma Lya era sempre stata convinta dell'inutilità del soffermarsi troppo a lungo sulle motivazioni, in un mestiere come il loro. Le uniche preoccupazioni dovevano essere salvarsi la pelle e portare a termine ogni missione con meno rogne possibili.
Prima o poi Tok avrebbe dovuto accettarlo.
Ma qualche informazione in più mi sarebbe tornata utile.
Porgendo l'orecchio, Lya ascoltò dei mormorii provenire da alcune camere più avanti, che interpretò come sparuti clienti che dovevano aver deciso di affacciarsi per ammirare l'azzuffata, godendo della protezione dei piani alti. Sperava non fossero quelle le stanze dove si sarebbe dovuta infilare, ma Klab aveva assicurato la locanda sarebbe stata sicura nei limiti del possibile, e la giovane si augurava fosse stato sincero.
Di contatto umano, voleva averne il meno possibile.
Una ladra non poteva lasciarsi scoprire.
Lya richiamò a sé la solita calma, costringendosi ad affinare i sensi e a svuotare la mente. Farlo le era sempre tornato utile nei momenti di tensione, anche se in quel preciso istante portò con sé un formicolio estraneo sulla punta delle dita, che le lasciò una curiosa sensazione di...
Impazienza, forse. Irritazione.
Assottigliò le labbra, guardandosi attorno con circospezione e aggrottando le sopracciglia. Irritazione? Da dove era spuntata fuori? No, no... Lya Nolae non era irritata, in quel momento, anche se una parte di lei era fremente. Lya era profondamente calma, pronta all'azione e a tutto quel che sarebbe seguito.
Almeno così credeva.
Si incamminò lentamente verso il lato opposto alla finestra, puntando in direzione di una stanza a pochi passi dalle scale, iniziando da lì la propria ricerca. Visitò tre camere vuote senza fare alcun rumore, senza destare sospetti, prima di schiudere l'ingresso di una quarta da cui non proveniva in apparenza alcun suono, al cui interno però fece capolino una figura seduta per terra, un uomo impegnato a posizionare alcune carte sul pavimento, l'attenzione completamente distolta dall'ingresso.
Lya lo vide sollevare una carta con fare annoiato, sporgendosi in avanti e causando ad alcune ciocche castane di cadergli davanti agli occhi. Lo osservò mentre sorrideva flebilmente, lasciando scorrere le dita sulla superficie delle carte, inumidendosi le labbra.
La giovane fece per richiudere la porta con estrema cautela, venendo però anticipata da una voce vellutata che le accarezzò un orecchio: «Desiderate qualcosa, messere?»
Un respiro trattenuto, il cuore che le balzò quasi fuori dal petto. Lya rimase immobile, mollando la presa sul pomolo della porta e costringendosi a rilassare l'improvvisa tensione nelle spalle. Piano, si voltò verso il proprietario della voce, le labbra serrate e il desiderio di appiattirsi alla porta forte più che mai.
Peccato non poterlo fare in quell'istante – d'istinto svuotò l'espressione di ogni emozione, anche se una parte di sé le ricordò distrattamente di avere addosso il cappuccio del mantello, un effimero anonimato che l'avrebbe preservata da uno studio superficiale.
Nonostante quel dettaglio, la vicinanza del giovane che le aveva rivolto la parola le fece tremare il petto. Ad aggiungersi a tutto quello, non riuscì a sopprimere lo stupore al viso che si ritrovò di fronte: lineamenti allungati ed eleganti, un sorriso sornione tinto di curiosità e due iridi pece che la scrutarono dall'alto sotto sopracciglia bionde, aggrottate appena. Il ragazzo di fronte a lei portava una coda bassa e del colore del grano, le braccia strette al petto a mostrare una sicurezza che stonava leggermente con la camicia sgualcita che indossava, i pantaloni stretti e impolverati.
Al voltarsi di Lya, il giovane abbassò di poco il capo come a cercare di intravedere qualcosa sotto il suo cappuccio, e lei mosse un passo in laterale assecondando l'abitudine, sfuggendo al suo sguardo e sentendo il cuore continuare a pompare furioso.
Il suo viso aveva qualcosa... qualcosa di familiare. Per un istante le parve di vedere un alone rossastro brillare sulla sua guancia sbarbata, scomparendo con la rapidità con cui Lya l'aveva intravisto. Il giovane uomo si grattò distrattamente lo zigomo proprio sul punto interessato, storcendo le labbra e tenendo la testa piegata.
Le era sembrato... le era sembrato di vedere un tatuaggio.
No. L'immaginazione le doveva star giocando brutti scherzi.
Ricomponiti. Ricomponiti e liquidalo in fretta.
«Nulla» gli mormorò, tenendo la voce bassa, cercando di mascherarla il più possibile con un tono roco e profondo, maschile. «Perdonatemi... devo aver sbagliato stanza.»
Il biondo inarcò entrambe le sopracciglia, percorrendo la sua figura dall'alto in basso con interesse sempre più accentuato. «In effetti questa locanda è così grande che immagino perdersi sia piuttosto facile» affermò in tono divertito, quello di chi stesse palesemente assecondando una stupidaggine. Il sottinteso nelle sue parole non sfuggì a Lya, che serrò la mascella di rimando – la risposta di lei non l'aveva convinto, anche se non sembrava intenzionato a farlo notare.
Un suono di passi da dentro la stanza, una seconda voce che li raggiunse prima che il biondino potesse continuare a prenderla in giro. «James, ci sono problemi?»
A parlare era stato il ragazzo che Lya aveva intravisto poco prima, e il solo pensiero di quanta gente stesse accorrendo di secondo in secondo le fece desiderare di fuggire. La nuova figura apparve sulla soglia, alta quasi quanto il suo compagno, quel James, ma diametralmente opposta in apparenza. Laddove il ragazzo che la stava squadrando con curiosità aveva una postura rilassata, semmai divertita all'evidente disagio di Lya, il moro aveva dipinto in viso un'espressione fredda e assertiva, i muscoli tesi in una cautela che sembrava venirgli naturale, quanto minacciosa. La fissò irrigidendosi all'istante quando notò il cappuccio calato sul capo della giovane, posando subito dopo lo sguardo attento sulle sue mani, sui guanti del Ladro.
D'istinto Lya li nascose tra le pieghe del mantello, rispondendo al suo studio con il proprio, sfidante anche se il ragazzo non avrebbe potuto vederlo. Dovette avvertirlo, però, perché dopo un attimo fece per portare la mano alla cintola, venendo interrotto solamente da una risatina bassa di James.
Il biondo intervenne con un sorriso, sollevando una mano di fronte a Lya, in direzione del compagno. «Suvvia, niente screzi. Il... messere, qui, ha semplicemente sbagliato stanza» fu la sua spiegazione, a cui il moro rispose con un'occhiata gelida, ben poco convinta.
«Ha sbagliato stanza» echeggiò quello di rimando, impassibile.
«Come si dice, qui a Lyede hanno la memoria corta» ribatté adamantino James, allargando il sorriso.
L'altro tornò a scrutare Lya, serrando il pugno a un soffio dalla cintola. Fece per parlare, ma per Lya fu come non sentirlo: quella scenetta stava durando anche troppo, e la sua testa la stava già rimproverando a gran voce. Non doveva stare lì, stava attirando più attenzioni del voluto e, nonostante la curiosità che continuava a pizzicarle la nuca e la vaga familiarità che il biondo le provocava, si costrinse a prendere un passo indietro, esibendosi in un mezzo inchino di cortesia.
I due si zittirono all'istante, tornando a guardarla – James con interesse, il moro con ostilità.
«Chiedo perdono, miei signori» fece lei, aggrappandosi con le unghie e con i denti alla freddezza che aveva sempre dimostrato in mille altre occasioni, continuando a indietreggiare di poco. «Con permesso, vi lascio ai vostri impegni.»
James non provò neppure a trattenere una risata sotto i baffi, che attirò una nuova occhiataccia da parte del moro. Quello puntò le iridi smeraldo su Lya mentre il biondino gli posava una mano sulla spalla, invitandolo a tornare nelle loro stanze. «Non importuniamo ulteriormente il messere, Vladimir» gli disse, pronunciando il nome del compagno con una certa cautela, come non fosse abituato a farlo. Rivolse a Lya un'ultima scorsa divertita, ricambiando giocosamente l'inchino della giovane. «Siamo noi a lasciarvi ai vostri impegni, mio... signore. Andate di fretta, non vorremmo farvi perdere tempo.»
Ancora, nel modo in cui si espresse Lya avvertì una nota d'ironia che non avrebbe voluto sentire, e nell'insistenza con cui utilizzava quei termini – messere, signore – aveva la netta sensazione quel James avesse intuito fin troppo bene Lya non fosse un uomo. La stava prendendo in giro, aveva capito perfettamente cosa stava facendo nella locanda, e aveva conseguentemente deciso di permetterle di continuare. Non ne capì il motivo – forse non aveva compreso del tutto che la giovane fosse una ladra, eppure dal sorriso che le rivolse era chiaro nascondesse troppi sottintesi.
L'idea lo diverte, realizzò nel momento in cui il moro rientrò nelle stanze, lanciandole un'ultima occhiata carica di dissenso. Sa che non voglio nulla da lui e non si sente per nulla minacciato.
«L'azzuffata qua fuori sta scemando, comunque. Fossi in voi cercherei in fretta le mie stanze» l'avvertì infatti James, confermando il suo presentimento. Dopodiché varcò nuovamente la soglia e si richiuse la porta alle spalle, concedendole un breve sorriso e lasciandola interdetta quando la sua guancia parve brillare di nuovo – una lingua rossastra, ancora quel tatuaggio che sparì veloce com'era apparso, lasciandola in balia dello sconcerto, convinta di stare iniziando a impazzire.
Non aveva visto lingue di fuoco, non aveva visto tatuaggi. Che la tensione del pomeriggio stesse iniziando a farsi sentire?
La porta dei due ragazzi era ormai chiusa e Lya era rimasta sola nel corridoio, il cappuccio ancora calato sul viso e la consapevolezza di non poter rimanere lì in piedi a fissare il vuoto come solida certezza.
La ragazza scrollò appena il capo per riaversi. Gettò un'occhiata intorno a sé, stringendo i pugni e riprendendo in fretta la ricerca, seguendo l'avvertimento del biondo. Se la rissa all'esterno stava per concludersi non avrebbe avuto molto tempo per chiudere la questione, per recuperare quel maledetto gioiello. Con la silenziosità che la contraddistingueva continuò dunque a visitare altre stanze fino a raggiungere la fine del corridoio, sentendo l'ansia montare, la frustrazione crescere.
Poi, d'improvviso, un brivido su per la nuca fu un soffice richiamo alla sua sinistra.
Piegò il capo in quella direzione e intravide una nuova porta, un ingresso che non aveva ancora visitato, riportante sulla superficie in legno una sola incisione: Santa Ghirtia, il nome di una Sacerdotessa della Natura intrecciato con rami delicatamente disegnati, di un colore rosato e spinoso.
Le si avvicinò a passo cauto, sfiorando la porta con una mano.
Contrarietà.
Si bloccò sui suoi passi, battendo le palpebre. Con... contrarietà? Ancora: un'emozione estranea, che risuonò come lontana da ciò che stava realmente provando. Eppure adesso che l'aveva pensata la contrarietà si fece spazio dentro di lei, stridendo apertamente con la certezza data da ciò che stava andando a fare.
No, scosse la testa verso nessuno in particolare. Non sentiva alcun senso di contrarietà. Lya era calma, paziente.
E ora ancor più inutilmente agitata.
Prese l'ennesimo, profondo respiro e continuò ad avanzare, poggiando prima un orecchio sulla porta della santa, girando poi il pomello quando fu abbastanza convinta che non avrebbe avuto altre brutte sorprese. Ringraziò mentalmente Tok per i guanti del Ladro e il silenzio in cui avvolsero ogni scricchiolio.
Si sentiva soddisfatta, ora. Compiaciuta.
Silenzio.
Lya era... compiaciuta? Ma che diamine era quella sensazione? Era come se tutte quelle strane emozioni stessero spuntando fuori dal nulla, o da qualcun altro, da qualcos'altro. Erano lampi di consapevolezza, certezze momentanee quanto effimere.
La ladra doveva concentrarsi. La ladra doveva proseguire.
Aprì la porta – piano, si disse, piano. La dischiuse e sbirciò l'interno con cautela, pregando di non aver sbagliato di nuovo, pregando di non trovare più nessuno.
La camera era buia, illuminata solo in parte per via delle tende spesse e sontuose che coprivano le finestre. Appariva fuori posto in una locanda come i Tre Cani: l'ambiente era cupo e decadente, a contrasto con l'eccentricità di una qualsiasi locanda di Lyede; era sfumato da colori scuri e rossastri, bruciato da filamenti di luce che penetravano tra le balze ai lati del tessuto delle tende, illuminando flebilmente il pavimento.
Le assi in legno si abbassarono impercettibilmente al passaggio di Lya, il suono attutito dagli stivali del Ladro. La stanza era vuota, vuota e fresca – un piacevole contrasto con il caldo afoso che imperversava per strada, che ancora imperlava di sudore la fronte della ragazza sotto il cappuccio, incollandole le ciocche di capelli al viso.
Lya avanzò con cautela nella luce soffusa, guardandosi attorno con i nervi a fior di pelle. In un primo momento non vide nulla e un senso di sconforto la invase. Neppure quella doveva essere la stanza indicata da Klab e, ancora peggio che in precedenza, pareva essere completamente spoglia, priva di arredi, di letto, di mobilia. Che fosse un deposito? Eppure non c'erano neanche casse, oggetti sparsi, niente di niente.
Fece per girare sui tacchi quando un luccichio a destra attirò la sua attenzione, e improvvisamente Lya si immobilizzò. Un brivido le corse su per la schiena; di nuovo quelle strane sensazioni tornarono a bruciarle nel petto, stavolta così tante e tutte nello stesso momento che non riuscì neppure a distinguerle.
Poté solamente reggersi alla parete con una mano, sentendo il proprio respiro sfuggirle dalle labbra a fatica.
Ma che...
C'era qualcosa in fondo alla stanza, qualcosa di luminoso, di sfavillante. Erano due paia di occhi puntati proprio su di lei, grandi e rilucenti di colori che non potevano essere umani, semplicemente non potevano.
Provò paura, cautela, curiosità – tutte sensazioni in contrasto tra loro, tutte che la investirono in contemporanea. Alcune le riconobbe come sue, mentre le altre... le altre non le appartenevano, ma qualcosa le mormorava fossero giuste, provenissero da quelle iridi sottili di fronte a lei, dagli occhi di quelle due bestie che la fissavano con intensità.
Perché solo di bestie si poteva trattare.
Piano, i due animali si mossero in avanti con movimenti eleganti e silenziosi. Avanzarono fino a fuoriuscire dal cono d'ombra, lasciando che i raggi flebili del sole li colpissero, illuminando le striature bianche di una su un manto nero come la notte, e le linee scure sul pelo candido dell'altra, perfetta contrapposizione della prima.
Due tigri. Erano due tigri quelle che aveva davanti.
Iridi rubino incassate nel pelo notturno di una, e uno sguardo dorato brillante nel manto nevoso dell'altra.
Lya sentì i muscoli serrarsi. Si domandò con improvvisa e violenta lucidità cosa ci facessero due tigri in una locanda, arrivò a dubitare di se stessa e dei suoi occhi.
Poi quelle emozioni così razionali cessarono, lasciando il posto a una curiosità inevitabile, al desiderio di avvicinarsi, di non avere paura.
Si sentiva attratta da quelle bestie, incurante della stranezza della loro presenza, di cosa stesse accadendo realmente in quella stanza.
Sapeva in cuor suo di star reagendo spinta da qualcosa di... estraneo. Non c'era niente di normale in quelle sensazioni: avrebbe dovuto provare un terrore cieco, avrebbe dovuto voler fuggire a gambe levate. Certo, a giudicare dalla stazza delle due bestie doveva trattarsi di cuccioli, ma comunque animali abbastanza maestosi e possenti da portare scompiglio, se lasciati liberi in una locanda al centro di Lyede. Chi li aveva condotti lì? Chi aveva avuto quella folle idea, dove li avevano trovati...?
Desiderava toccarli, e quella consapevolezza le tolse il respiro.
Si fece avanti d'istinto, imitando i loro movimenti lenti, cauti. Allungò una mano in avanti mentre la parte sempre più sopita di lei continuava a sussurrarle di non farlo, di non cacciarsi in quell'ennesima sciocchezza, di ricordare quello per cui era venuta.
L'occhio della tigre. Possibile c'entri con loro?
Si sarebbe dovuta soffermare a pensarci, lo sapeva. Sapeva quale sarebbe stato il comportamento più intelligente, sapeva cosa avrebbe fatto la ladra.
Lo sapeva, e non le importava.
Si fermò a un passo dalle tigri, studiandone gli arti forti, le code intente a frustare l'aria. Lesse nei loro occhi una domanda silenziosa, mista alla richiesta di un permesso che avvertì nell'aria quando la tigre dal manto pece si fece poco più avanti, sfiorando le dita di Lya con il muso, trasmettendole sul palmo della mano una sensazione che la costrinse a inspirare sonoramente rompendo la quiete che regnava nella stanza.
«Impossibile...» mormorò, ma non fece in tempo a continuare. Una singola parola le sfiorò i pensieri, sussurrata dall'animale, dalle sue iridi dorate che sembrarono parlare.
La sentì davvero, la sua voce. Non aveva suono, non aveva colore... ma aveva emozione.
Cariandro.
Passarono i secondi e la tigre continuò a studiare Lya come aspettandosi una reazione, muovendo appena il muso contro la sua mano. La ragazza non aveva idea di cosa dover fare, di come dover reagire a quella parola, ma la consapevolezza del suo significato si fece strada con carezze leggere nella sua mente: un gentile alito di vento che le accarezzò le guance.
Cariandro. È il suo nome.
Iniziò a sentire i muscoli pesanti, l'aria nella gola che si faceva calda – troppo calda.
La seconda tigre si fece avanti sostituendo la prima, spingendo il manto di neve contro Lya, costringendola a scoprire anche il suo, di nome.
Revadrio.
Li conosceva, ne era certa... quegli occhi, li aveva già visti. Forse in un sogno lontano, forse nel delirio di un incubo.
Le ginocchia le cedettero, il cuore sembrò sul punto di scoppiarle. Le palpebre si chiusero contro il pelo morbido di una delle due tigri.
Per un secondo soltanto ebbe la sensazione che la stanza profumasse di sale, che quelle bestie avessero l'odore della sua infanzia.
Poi tutto scomparve, e la ladra perse anche se stessa in un sonno inaspettato, ma caldo e accogliente.
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