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Capitolo 10: Almeno un altro giorno

Quando mi decisi a uscire dalla stanza erano ormai passate diverse ore e il sole era alto nel cielo.

Il mio stomaco esigeva di essere in qualche modo riempito, motivo per cui decisi fosse il momento di mettere piede fuori. Avevo constatato con sollievo di essere vestita come ricordavo: ero scalza, ma le mie scarpe erano a lato del letto e avevo indosso i jeans e la felpa marrone che avevo preso "in prestito" al bar. Non ricordavo come o perché mi avessero permesso di tenermela, ma l'avevo ancora addosso e avevo scoperto fosse quello il capo incriminato – da cui proveniva il profumo di fragole e cioccolato che mi stava iniziando a dare alla testa.

Avevo trascorso le prime ore in piedi davanti alla finestra a osservare l'esterno: un panorama mozzafiato che avevo sperato potesse aiutarmi a distogliere l'attenzione dall'ansia di ciò che era successo e la consapevolezza di non trovarmi più a Dublino.

Di non essere, a quanto pareva, nel mio mondo.

Le montagne rosee in lontananza, circondate da distese verdi che a salire lasciavano il posto a cumuli innevati, erano parse confermare solo di più quella verità, quella contrapposizione con i vicoli della mia città e i quartieri residenziali che ero stata solita frequentare giornalmente. Dalla finestra ero riuscita a intravedere persino un recinto poco lontano dalla baita, dove una dozzina di pecore dalla lana biancastra avevano pascolato serene. A pochi passi da loro avevo adocchiato una bestia inquietante, dal pelo lungo e violaceo... non fosse stato per il colore lo avrei scambiato per un cane, ma fissandolo intensamente l'avevo colto ad alzare il muso, annusare l'aria e rivelare sotto il pelo ben tre occhi – i due standard più un terzo, posizionato poco sopra i primi.

Tanto per cambiare, mi ero costretta a ignorare anche quello.

L'assurdità della situazione non mi aveva colpita del tutto, non ancora. Ero riuscita a chiudere nella mia personalissima scatolina mentale tutto ciò che sapevo mi avrebbe turbata, evitando di farmi troppe domande. Per sopravvivere con la mia sanità completamente intatta avevo deciso di evitare di approfondire gli interrogativi che continuavano a tartassarmi, decidendo di accettare tutto come un dato di fatto.

Ero finita nelle così dette Terre del Tempo, un mondo completamente nuovo e sconosciuto. Come, e cosa avrebbe significato? Non mi interessava. Non volevo sapere. Non potevo pensarci.

Ero lì. Era l'unica cosa che contasse.

Già. L'unica. Non ci avrei pensato, non avrei riflettuto su quanta ansia mi stesse bloccando i muscoli in quell'esatto istant...

Ah ah. No.

Dicevo. Perché ero lì? Magari lo avrei scoperto, un giorno o l'altro, tra un minuto o mai, ma fino a quel momento mi sarei concentrata su un unico, semplice obiettivo: tornare a casa. Rivedere al più presto qualche viso conosciuto.

L'idea di scappare a gambe levate, però, era poco allettante. Non sapevo dove sarei finita se lo avessi fatto e, a quel punto, sarebbe stato meglio rimanere lì dov'ero finché non ne fossi stata certa. Magari Fidel avrebbe avuto una televisione con cui passare il tempo? Un qualche aggeggio che mi permettesse di svagarmi.

Mi ero ritrovata completamente sola, senza Nina, senza Maggie, senza mio padre... persino il pensiero di Vanilla, la dannata foglia scomparsa nel nulla, riusciva a farmi sentire una strana sensazione alla bocca dello stomaco, cosa che mi convinse a rilegare anche lei in quella scatoletta mentale, richiudendo il tutto con mille lucchetti.

E quelli aumentavano sempre di più, di più, di più.

Non sembravano mai abbastanza.

Uscii dalla stanza, ritrovandomi in un salotto più ampio, mobiliato con il minimo indispensabile: un tavolo a reggere alcune candele spente, fogli sparsi e ingialliti e un paio di sedie in legno tutte intorno. Notai anche una grossa pila di libri per terra, accanto a una libreria strapiena dall'aspetto lurido ma resistente. I titoli che riuscii a intravedere lì dentro erano scritti in un alfabeto che non conoscevo. Mi accovacciai per assicurarmene e ne ebbi la certezza – la lingua in questione era composta da simboli piccoli e curvilinei, che non avrei dovuto comprendere ma... che stranamente riuscivo a leggere. E capire.

Introduzione alla pastorizia: la guardia Bantù.

Lingue e culture di Epohyen.

Più fissavo quelle strane parole, più riuscivo a sentire la loro traduzione scivolarmi in mente come pioggia leggera. Avevo la vaga sensazione tutto quello stesse accadendo grazie alla... alla parola con la 'm' che avevo decido di bandire dal mio vocabolario, ma che giustamente in quello strano posto sembrava essere ancora più presente e irritante; una realtà da cui non ero sicura di star riuscendo a fuggire.

Non pensarci, Wes. Ricorda di non pensarci.

Dannazione!

Reticente, mi alzai e indietreggiai dalla libreria, respirando a fondo. Presi l'informazione con la 'm' e rinchiusi anche quella nella preziosa scatolina mentale, che sempre più stava iniziando ad assomigliare a un grosso forziere, pesante abbastanza da farmi impazzire.

Tornai a studiare ciò che mi circondava. Quel che più catturava l'attenzione, lì dentro, era un imponente camino di pietra, in un angolo del salotto. Al suo interno vidi solo ceneri, segno che fosse stato usato di recente; legna asciutta e spessa si trovava in un cestino accanto alla bocca del camino. In che stagione eravamo in questo posto? Funzionava come il mondo normale? Ora come ora non sentivo freddo, ma forse le notti la temperatura sarebbe scesa. Mi annotai mentalmente di chiederlo a Fidel quando lo avessi rivisto, e se non mi avesse uccisa dimostrandomi una volta per tutte di trovarmi in un incubo.

... meglio non pensarci.

In fondo alla sala notai un paio di finestre illuminate di luce e la porta d'ingresso. La spalancai, mettendo piede all'esterno e respirando aria fresca di montagna, beandomi del calore del sole sulla pelle.

Un guaito attirò la mia attenzione verso sinistra. Mi voltai, mezza imbambolata per la spossatezza e...

Rimasi immobile alla vista della bestia.

L'essere violaceo era lì, a pochi passi da me, e mi fissava con tre occhi scuri come la notte. Così da vicino mi ricordava il vecchio cane di Maggie, che suo padre aveva deciso di dar via anni addietro, dopo lo stress di averlo dovuto accudire senza l'aiuto di nessun altro. Nina lo aveva definito un 'pastore dei pirenei', un cane dal pelo candido come la neve che tutti in quella casa avevano soprannominato Yozzi.

Con il senno di poi quel nome era stata una delle peggiori scelte di sempre – orrendo, corretto in fretta da Nina con un più semplice 'Toby', nome che però era stato presto dimenticato per via della sua tremenda ma memorabile controparte.

L'animale che avevo di fronte, invece, nella sua mostruosità non avrebbe mai avuto problemi a rispondere al nome di Yozzi. Era un grosso e bavoso Yozzi viola a tre occhi. Solo pensarci mi faceva venire i brividi.

Yozzi e io ci guardammo per qualche secondo prima che la sua vera natura si manifestasse e prendesse a correre con foga verso di me, che di contro partii in una corsa sfrenata dalla parte opposta. Insomma, in un altro momento forse sarei stata abbastanza senziente da decidere di rimanere immobile...

Eppure sarebbe stato impossibile applicare quella piccola regola di buonsenso con la bestia viola. In un colpo solo imparai una semplice verità: quando un animale feroce ti insegue, fuggire rimane sempre la cosa più sensata da fare. Anzi, sarebbe impossibile riuscire a fare altro.

Corsi gridando a squarciagola dal lato opposto a quello dello Yozzi, finendo a faccia in giù nel momento stesso in cui l'animale riuscì a raggiungermi.

Brutto e veloce. Un predatore che si meritava in tutto e per tutto quello stupido appellativo!

Continuai a gridare mentre Yozzi prendeva a leccarmi i capelli con entusiasmo. Non pensavo di possedere una tale potenza polmonare: ecco cosa succede quando esplori nuovi lati di te stessa.

Lati che avrei preferito lasciare inesplorati.

Dopo qualche minuto di puro terrore l'animale smise di torturarmi, scendendo dalla mia schiena e trotterellando verso qualcosa. Tremante, alzai il capo ormai umido per capire cosa lo avesse placato e trovai Fidel con due dita alle labbra e l'eco di un fischio che si perdeva tra le montagne. Vidi l'uomo dare a Yozzi due pacche sulla testa e ridere sommessamente, prima di rialzare il capo con espressione sorniona e rivolgersi a me. «Scappare da un bantù può solo convincerlo a rincorrerti più velocemente.»

Soppressi la risata isterica che minacciò di sfuggirmi di bocca.

Mi rimisi in piedi. Troppe emozioni negative, troppe novità; avrei dormito volentieri altri tre giorni, o anche una settimana intera. Magari al mio risveglio mi sarei ritrovata a casa mia, a Dublino, nel mio mondo. Forse tutto questo sarebbe stato solo un brutto sogno.

Mi pizzicai.

Nada.

«Quel coso» esordii, indicando con il mento Yozzi. «Che diavolo è?»

Fidel sorrise, accarezzando il mostro dietro le orecchie. «Te l'ho appena detto: un bantù. Sono animali simili ai vostri...» Ci pensò su, grattandosi il mento con la mano libera. «Cani. Sì, ai vostri cani. Sono solo più svegli e veloci. Sono anche ottime guardie del corpo.»

Certo. Giustamente. Annuii, accettando la spiegazione senza approfondire la questione, ben conscia dell'assurdità del tutto. Presi un lungo respiro e rimasi in allerta mentre Yozzi si riavvicinava a me, annusando i miei jeans. Cercai di ignorare quel terzo occhio che mi studiava dal basso, costringendomi piuttosto a guardare intorno nella speranza di farmi un'idea più esaustiva di ciò che mi circondava.

Montagne, montagne e ancora montagne.

Mi incamminai verso una discesa che speravo potesse condurre a qualche città, la bestia che mi seguiva a distanza ravvicinata. Avevo bisogno di tornare alla civiltà, avevo bisogno di sentirmi normale e per farlo dovevo iniziare a capire come andare via da qui.

Affilai lo sguardo in lontananza, incontrando solo una lunga distesa verde in mezzo a cui faceva la sua bella comparsa una stradina stretta, diretta a un lungo fiume che si perdeva tra i monti.

Come al solito, la fortuna sembrava essere dalla mia parte. Civiltà inesistente! Come poteva Fidel resistere in questo posto? Senza televisione, senza compagnia?

«Tu vivi qui?» domandai, fissando intensamente il paesaggio. Non era terribile, a guardarlo bene. Mi misi le mani in tasca e riflettei su quante possibilità avrei avuto di fuggire tra quei monti illesa.

Nessuna. Dannazione.

Fidel mi si affiancò, e Yozzi con lui. «Da anni ormai, sì» confermò l'uomo con leggerezza, storcendo le labbra. «A volte mi incammino fino a un villaggio non molto lontano da qui... anche i più solitari hanno bisogno di compagnia, ogni tanto.»

Apprezzai parecchio quell'informazione. Lo guardai di sbieco. «Ci sono città qui vicino, quindi?»

Lui non rispose per qualche minuto, incrociando le braccia al petto. «Nessuna come la intendi tu, temo. Nelle Terre del Tempo la tecnologia dyaren non funziona.»

No. Doveva essere uno scherzo. 

No.

Dio!

Dovevo aver espresso il pensiero ad alta voce, perché Fidel spiegò: «La vostra tecnologia è incompatibile con ciò che permea l'aria di questo mondo. Questa magia è antica – più antica della vostra Dya e di queste stesse terre.»

Feci per parlare di nuovo ma Fidel mi bloccò, sollevando una mano. Potei notare anche ora il divertimento nei suoi occhi, ma lo vidi mantenere un'espressione neutra. «So che avrai molte domande, Jane, ma potrò risponderti meglio dietro una minestra calda. Rientriamo in casa e potrai chiedermi tutto ciò che desideri.»

E così fu.

Iniziò a spiegare, con voce attenta e sguardo intelligente, la palese intenzione di non spaventarmi scritta in ogni suo movimento. La prima cosa di cui decise di parlare fu il nome di quei luoghi: le Terre del Tempo. Perché chiamare un posto in un modo tanto pomposo? La risposta di Fidel mi deluse un bel po'. A quanto pareva, il nome originale di quei luoghi era stato un altro, molto tempo fa... Epohyen, termine che la mia mente tradusse automaticamente come 'natura danzante'.

Non esternai quel pensiero, però, e Fidel lo confermò senza che dovessi porre la domanda.

La seconda risposta riguardò ovviamente il modo in cui sarei potuta tornare a casa.

«Non è così semplice» disse, masticando un tozzo di pane. «C'è un ingresso piuttosto lontano da qui, che porta al tuo mondo. Ci dovresti prima arrivare, però, e per farlo dovresti riuscire a orientarti da sola a Lyede.»

Ingoiai l'ultimo boccone di minestrone, versandomene dell'altro. La cosa più divertente e disperata al tempo stesso? Avevo così tanta fame da riuscire a non far caso ai legumi nella minestra.

Come mi ero ridotta... «Non puoi accompagnarmi tu?» domandai a bocca piena, sperando in un suo moto di gentilezza.

Fidel scosse seccamente la testa, stroncando ogni mio sogno e speranza. «Tu sei libera di partire a qualsiasi ora del giorno o della notte, ragazzina, ma io non ho intenzione di aiutarti a tornare da dove sei venuta. Se ti hanno mandata qui sarà stato per una buona ragione che non obietterò. La promessa che ho stretto non me lo permette.»

Spalancai la bocca, incurante dell'educazione. «Tu non puoi...» bofonchiai.

«Io posso, Jane» mi fermò lui, ridacchiando. Lo faceva spesso, notai – mi bloccava quando iniziavo a dargli torto. «Chiunque ti abbia mandata qui conosceva il giuramento di soccorso e io non ho intenzione di infrangerlo.»

Ah, sì? Continuai a masticare, ma più lentamente. Tenni lo sguardo fisso sui movimenti dell'uomo, forse cercando inconsciamente di intimorirlo.

Lui seguitò a ignorarmi, per niente spaventato dalle mie occhiatacce.

«Potrei andarmene da sola» feci dopo un po', azzardando l'ennesimo tentativo. «Non ho bisogno del tuo aiuto. Chiederei indicazioni per strada.»

Lo avrei potuto fare. Dovevo tornare a casa il prima possibile, in fondo, senza tentare di danneggiare la sottile resistenza alla follia che minacciava di divorarmi.

«Una ragazza completamente sola e senza alcuna protezione, in giro per il regno?» Fidel trattenne una risata, agitando il proprio cucchiaio di legno. «Non siamo su Dya, ragazza. Nel migliore dei casi ti stupreranno per poi abbandonarti da qualche parte. Passerai il resto della tua vita in qualche bordello sperduto al di là del mare, in una qualche città di schiavisti. O morirai prima, assiderata nel freddo della notte.»

Il suo ottimismo mi strinse lo stomaco, quindi cercai di affogare quei pensieri.

Piuttosto... Dya. Era così che Fidel chiamava il mio mondo – il mondo normale. Io ero la povera dyaren finita in un posto troppo complesso per i propri semplici gusti, con prospettive di sopravvivenza tutt'altro che rosee.

Eppure non mi sentivo affatto indifesa.

«Sono più pericolosa di quanto immagini» ringhiai, stringendo il cucchiaio in mano.

Vidi Fidel studiarmi con un mezzo sorriso, affatto convinto. «Mordi, cucciolo dyaren?»

Volevo gridare. «Dammi una spada e te lo dimostro.»

Quella frase sembrò attirare la sua attenzione in modo differente. Aggrottò le sopracciglia e si sporse in avanti su entrambi i gomiti. «Duelli?»

«Meglio di quanto pensi» ribattei, non senza una punta di soddisfazione. Ero riuscita a stupirlo, finalmente! Avevo scalfito quel suo perenne divertimento.

Stoccata per Wes!

Fidel rimase in silenzio per così tanto tempo che decisi di continuare a mangiare. Rimase così a lungo in silenzio che feci il bis, il tris... strappai un nuovo tozzo di pane, preparandomi a versarmi una nuova porzione.

Infine, parlò. «Se vuoi il mio aiuto, Jane, dovrai iniziare a essere più sincera con me. Non rischierò il mio giuramento, altrimenti – non senza un valido motivo.» Fece una pausa prima di continuare, lasciandomi assorbire quelle parole. «Inoltre non aspettarti di poter tornare a Dya nell'imminente futuro. Se anche decidessi di aiutarti, il viaggio per raggiungere l'ingresso al tuo mondo disterebbe due mesi di stabile cammino. Non so tu, ma io non ho intenzione di intraprendere un'avventura simile senza garanzie. Mi aspetto anche che chiunque ti abbia mandata qui sia a quest'ora per strada, diretto da noi. Se fosse stata questa tua Nina, cosa penserebbe se trovasse la baita vuota?»

Mi veniva difficile immaginare come qualcuno mi avesse voluta spedire in questo posto. A che pro? E davvero Fidel si aspettava sarei rimasta lì a convincerlo? Due mesi di viaggio, poi... quanto era disperata la situazione, di preciso?

«Nina saprebbe che non rimarrei con le mani in mano in una situazione del genere. Mi conosce.»

«E se fosse chi credo, la tua Nina conterebbe anche su di me per tenerti qui» borbottò lui, spingendo via la sua zuppa.

Io misi in bocca l'ultimo boccone, sentendomi finalmente piena e lasciandomi andare a un sospiro di soddisfazione. Ripensai a Nina e la sua cucina. Almeno con Fidel non sarei morta di fame, nonostante il costante odore di cioccolata e fragole aleggiasse nell'aria, tentandomi e rendendo la minestra di legumi nettamente più disgustosa di qualsiasi altro piatto.

Nina, Nina...

«Chi pensi sia? La mia Nina, intendo.»

Fidel non mi degnò di uno sguardo, scuotendo la testa con occhi bassi. «Facciamo un patto, piuttosto» bofonchiò pensieroso. «Penso tu capisca le difficoltà che una ragazza come te potrebbe incontrare in un viaggio tanto rischioso.»

Sì. Almeno quello ero sicura di averlo intuito.

«Rimani qui, per ora. Il tempo di imparare qualcosa in più su Lyede, su Chev, su questo mondo. Lo stretto necessario per sopravvivere» propose, puntando gli occhi grigi su di me. «Ti insegnerò personalmente tutto quello di cui potresti avere bisogno. Verificherò anche il tuo reale livello con la spada e nel frattempo cercherò di rintracciare la persona che ti ha mandata qui.»

Ero titubante. Non mi andava di rimanere lì, né tanto meno di avere debiti con persone che avrei potuto non rivedere mai più dopo quella bizzarra esperienza. «E non vorresti nulla in cambio?»

Fidel sorrise, sollevando le sopracciglia con fare scherzoso. Dopo diverse ore passate a studiarlo, iniziavo a cogliere qualche differenza nel modo in cui le sue labbra si incurvavano sotto il peso della sua espressione. A volte sembrava sorridere di gusto, mentre altre... appariva quasi malinconico.

Altre ancora sembrava star tramando verità che non credevo mi sarebbero piaciute granché.

Questo sorriso ricadeva nell'ultima categoria. «Tutto ha un prezzo, Jane. Ricordalo sempre. Il mio prezzo per te sarà almeno una verità per ogni giorno che trascorrerai con me.»

Ci riflettei su, vagliando le mie possibilità. «Verità a mia scelta?»

«A tua, mia... lascerò scegliere te, ma dovranno essere verità di un certo spessore, altrimenti sarò io a domandare.»

Ci osservammo per alcuni minuti prima che prendessi una decisione definitiva, serrando le labbra con frustrazione crescente. Lui dovette leggermela negli occhi, perché il suo sorriso cambiò; da calcolatore assunse quello scintillio divertito che Fidel Arcante sembrava provare fin troppo spesso.

Che altro potevo fare, però?

Dunque mormorai, sconfitta: «D'accordo.»

***

Quel primo giorno, la notte arrivò in fretta.

Scoprii come Fidel mi avesse lasciato la sua camera da letto, la stessa in cui mi ero risvegliata, preferendo dormire in una stanzina collegata alle stalle dei cavalli, fuori dalla piccola baita. Mi aveva chiesto se sapessi cavalcare, affermando in seguito alla mia risposta negativa di volermi insegnare anche quello, prendendo a far pratica dal giorno seguente. Avrei dovuto saper almeno salire su un cavallo se avessi voluto avere speranza di andare da qualche parte, lontano da lì... dunque non potei fare altro che accettare, ritrovandomi a contrattare lezioni con quell'uomo strano e perennemente divertito, sincero come non ne avevo mai visti.

Adesso mi trovavo nella mia nuova stanza, lo sguardo depresso e fisso al soffitto. Avevo trascorso l'intero pomeriggio a osservare Yozzi alle prese con il gregge, mentre Fidel era scomparso per ore tra gli alberi del bosco più vicino, tornando con della legna sotto un braccio e un coniglio stretto per le orecchie metalliche tra le dita. Era stata una visione folle, anche quella, e non avevo potuto far altro che ignorarla nuovamente, accarezzando l'idea di filarmela via alla prima buona occasione. A conti fatti non ci sarebbe stato nulla a fermarmi dal fuggire, ma l'idea di non avere dove andare e non sapere come andarci mi demoralizzava, convincendomi a rimanere lì dov'ero, con un tetto sopra la testa. Da quel che mi era stato detto, le Terre del Tempo sembravano essere una versione moderna del passato medievale che avevo studiato per anni a scuola, e se così fosse stato la gente mi avrebbe riconosciuta immediatamente per i miei abiti – non sarei riuscita di certo a passare inosservata.

Iniziavo a temere di non avere altra scelta se non accettare l'aiuto di Fidel e aspettare che qualcuno, magari Nina, venisse a recuperarmi. Non lo dissi apertamente – non volevo dare ulteriori conferme a quell'uomo strano – ma incominciavo a sospettare che dietro tutto quello che era accaduto ci fosse la mia cameriera. Ripensai al giorno in cui avevo trovato Vanilla sul portico di casa, le verità che mi aveva confessato.

Vanilla, invece... non avevo la più pallida idea di dove fosse finita, e non riuscivo a spiegarmi perché non fosse arrivata lì con me. Era rimasta a Dublino, in quel pub? Con stupore mi scoprii a sperare non le fosse successo nulla. Nonostante l'assurdità del vedere una foglia parlante, mi sarebbe dispiaciuto. Avrei preferito mille volte sentire la sua voce stridula da dietro la porta della mia camera in città che il silenzio della notte in montagna, in quel luogo sconosciuto e in un mondo che non mi apparteneva.

Parlando di assurdità, avevo passato l'intero pomeriggio e la prima serata a convincermi tra le cose di come Yozzi, il 'bantù', avesse tre occhi. Mi arresi e lo ammisi a me stessa: mi era difficile considerare il pensiero non tanto perché fosse strano, quanto per qualche innato istinto di preservazione. La sola idea di toccarlo strideva fin troppo con la scatola che conteneva la mia follia e che minacciava sempre più di scoppiare... se l'avessi accettato, sarei probabilmente impazzita, avrei dato di matto in pieno giorno, davanti al vecchio che nonostante tutto aveva deciso di fare qualcosa di buono per me.

Avevo ignorato quei pensieri tutto il pomeriggio, sentendomi come un guscio vuoto – un guscio da riempire con nuove informazioni atte alla sopravvivenza. Avrei dovuto resistere alla pazzia; solo così più avanti mi sarei riuscita a convincere di come tutto quello non fosse mai accaduto, fosse stato tutto un terribile incubo.

Era così assurdo... il pensiero di trovarmi in un mondo diverso, così opprimente.

Chiusi gli occhi e inspirai profondamente nel tentativo di calmare il cuore, calmare la folle scatola che ogni istante chiedeva un legaccio più forte, più saldo di prima.

Quanto sarei dovuta rimanere in questo posto? Quanto sarebbe durata questa stupida situazione?

Volevo tornare a casa. Volevo presentarmi alle esercitazioni di scherma di Leonardo, volevo dormire nel mio letto e continuare con la mia routine, respirare il venticello estivo di Dublino che accarezzava la pelle.

Sentii distrattamente la pioggia iniziare a cadere, là fuori, e avvertii me stessa desiderare così tante cose da poter scoppiare.

Alla fine, cedetti.

Mi misi in piedi e spalancai la porta, uscendo nel buio della notte. Corsi verso la foresta a tutta velocità, sentendo l'acqua sferzarmi le guance e l'erba sotto i piedi, soffice e gentile sotto ogni mio passo. L'avvertii ammorbidirsi al mio passaggio, come ammortizzando quella fuga disperata, come riuscendo a sentire la mia rabbia...

Che assurde sensazioni, frutto della follia che mi divorava da dentro.

Vidi Yozzi iniziare a corrermi accanto, ma non gli diedi peso perché nulla poteva interessarmi davvero, in quel momento.

Nulla poteva interessarmi.

Non seppi mai per quanto corsi, non seppi quanto lontana arrivai. Avvertii semplicemente un forte formicolio alle gambe e la richiesta del mio corpo di fermarmi, che accolsi bloccandomi con una mano su un tronco e l'altra su un ginocchio. Respirai a fatica, adocchiando solo allora il bantù accanto a me, che mi osservava curioso con i suoi tre occhi.

Sentii le lacrime iniziare a scendere, mischiandosi all'acqua piovana e bagnandomi le labbra di sale.

Assurdamente, feci l'unica cosa che sentii di volere e potere ancora fare, assecondando ogni folle istinto e la scatola che premeva e premeva, cercando di soffocarmi.

Gridai.

A pieni polmoni, senza riserva. Gridai fino a che la gola non mi fece male e finché il battito del mio cuore non rallentò. Finché non fui sicura di poter resistere almeno un altro giorno a ognuna di quelle assurdità.

Almeno un altro giorno.

Prima di tornare indietro, Yozzi mi leccò una mano e trovai finalmente il coraggio di passare le dita nel suo pelo morbido e violaceo. L'ultimo pensiero prima di dormire fu che ce l'avrei fatta, che avrei superato anche quello.

Sarei sopravvissuta, perché Blaine Wes sarebbe tornata a casa e non si sarebbe più mossa da lì.

Ad ogni costo.

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