Ikaros
I loro passi risuonavano sul pavimento di pietra, amplificandosi tra quelle pareti che sembravano non voler finire mai. Le tenebre li avvolgevano come una coperta opprimente, rischiarate per qualche misera spanna dalla tenue luce della fiaccola che suo padre teneva in mano.
"Dove mi state portando?" chiese il ragazzo sistemandosi meglio in spalla la cinghia che usava per trascinarsi dietro il pesante fardello.
"Lo vedrai, figlio mio: abbi ancora un po' di pazienza".
Si ritrovarono in una stanzetta con al centro un braciere spento. Il vecchio vi accostò la torcia e ben presto il giovane poté ammirare una delle tante letali meraviglie partorite dalla mente che lo aveva messo al mondo: su ogni lato della saletta ottagonale si apriva un immenso portale sormontato dall'effigie di un animale, sotto ai loro piedi il marmo e la terracotta creavano l'immagine di un toro mostruoso, con gli occhi fiammanti e le corna ricurve.
"Da questa parte", lo chiamò indicando uno dei passaggi, quello segnato da una civetta, "Quando non sai dove indirizzare il tuo consiglio, rivolgiti sempre alla glaucopide Atena e pregala di concederti qualche goccia della sua saggezza: la dea ti indicherà la via".
Icaro annuì silenziosamente e lo seguì tra i vicoli di quel labirinto in cui erano stati rinchiusi per volere del Gran Re. I cunicoli, i bivi e i punti ciechi si intrecciavano creando una fitta rete di strade sotterranee, una trama complessa e straordinaria a vedersi, come quella dei tappeti persiani di cui gli aveva parlato suo padre, l'architetto Dedalo.
Era stato lui a progettare quel posto per contenere il Minotauro, figlio di Minosse di Creta e della bella Pasifae, che lo concepì unendosi con un toro. Empio è l'uomo che non rispetta i sacri patti dei mortali, ma folle è colui che infrange i voti fatti ai beati dei immortali! Per il suo misfatto e per la sua crudeltà ora erano rinchiusi lì dentro, prigionieri delle catene che egli stesso aveva forgiato: condannati a morire come topi, gioia del pasto per il mostro, rinchiusi in una tomba prima ancora che l'anima fosse volata via nell'Ade.
Icaro aveva ascoltato attentamente la storia della loro misera sorte più e più volte, osservandolo lavorare alle sue bizzarre invenzioni nella povera stanza che si era abituato a chiamare casa. Non riusciva a ricordare il mondo al di fuori di quelle tetre mura, né cosa fosse la luce: era cresciuto nella penombra e i suoi occhi erano diventati esperti nello scrutare nel buio, illuminandosi quasi come quelli dei pipistrelli.
"Tieni il passo, figlio mio: siamo arrivati" lo esortò il vecchio padre tenendo alta la fiaccola.
"Ma dove siamo diretti?" domandò il ragazzo per l'ennesima volta, estremamente incuriosito da quella meta segreta.
Il labirinto prese a mutare aspetto attorno a loro: le pareti di pietra nuda lasciarono il posto a delle lastre di marmo, talmente levigate che si poteva percepire chiaramente col tatto dove finisse l'una e cominciasse l'altra; la pavimentazione divenne sempre più regolare e degli strani rumori giungevano alle loro orecchie, sempre più nitidi man mano che avanzavano.
Dedalo si fermò di colpo e soffiò deciso sulla torcia spegnendone la fiamma, facendoli rimanere completamente nell'oscurità.
"Gli dei diedero la vista agli uomini per poter conoscere la realtà, ma solo quelli che ne sono privi sono in grado di andare al di là delle apparenze e apprenderne l'essenza profonda. Non fidarti troppo di ciò che vedi, figlio mio: potresti prendere un abbaglio".
"Ma, padre, non c'è niente qui" obiettò Icaro non riuscendo a comprenderne il senso.
Suo padre sorrise e fece scorrere delicatamente le dita nodose sul marmo fino ad individuare il segno di un triangolo inciso nella pietra, il delta di Daidalos.
All'improvviso il ragazzo non riuscì a distinguere più nulla e un istinto primordiale lo spinse a serrare gli occhi. Non vedeva, ma non era tenebra e nero: no, era qualcosa di completamente diverso.
"Lascia che le tue pupille si adattino, non strizzare le palpebre in quel modo" lo incoraggiò il vecchio architetto prendendogli un braccio per guidarlo in quell'oceano di luce.
Qualcosa di sconosciuto solleticò le piante dei suoi piedi ed ebbe come l'impressione che mille bocche stessero soffiando sulla sua pelle, cospargendola di brividi. Lentamente aprì gli occhi, sbattendo le ciglia un paio di volte prima di abituarsi a tutto quel chiarore.
Rimase a bocca aperta. I colori erano così accesi e brillanti, lo colpivano in pieno volto con la loro vivacità e la loro gaiezza! Com'era verde l'erba su cui camminava, quell'erba di cui aveva solo sentito raccontare dal padre! E il mare, con quell'azzurro cristallino e l'odore pungente della salsedine portato alle sue narici dall'Euro giocoso! Ma ciò che lo attirava di più era quel disco dorato che si stagliava tra le nuvole e illuminava ogni cosa con la potenza di mille e mille fiaccole. I suoi raggi erano così caldi e piacevoli sulle guance e sulle membra nude! Poteva quasi sentirli penetrare nella sua pelle e riscaldare ogni fibra del suo corpo! Icaro non aveva mai visto il Sole prima di allora e bastarono pochi istanti affinché se ne innamorasse perdutamente.
"Icaro, i macchinari" lo richiamò alla realtà Dedalo, che gli faceva cenno di passargli il fardello che si era caricato sulle spalle.
Il ragazzo scosse il capo biondo e posò con cura a terra l'ultima invenzione di suo padre, premurosamente avvolta in uno dei loro mantelli di morbida lana. Con mani esperte, il vecchio liberò la sua creazione dall'involucro: due paia di ali, bianche come la neve che ricopre le montagne, maestose come il piumaggio dei pavoni sacri ad Era, giacevano sul prato in attesa di essere adoperate.
"Ascoltami bene, Icaro", iniziò con tono grave, "I lacci consentiranno di manovrarle in maniera agevole, permettendo di spiegarle e ritirarle secondo l'occorrenza. Le cinghie devono essere ben strette, altrimenti potrebbero sfilarsi. La cera è ben secca e dovrebbe tenere, ma non volare per nessun motivo troppo vicino al mare o su verso il Sole".
"Volare?" domandò stupefatto con fare un po' bambinesco.
"Volare, figlio mio: così raggiungeremo la nostra libertà".
Smanioso di provare, il giovane si vestì velocemente delle ali e aiutò suo padre a fare lo stesso. I muscoli fremevano per l'entusiasmo e per la paura: lo strapiombo davanti a loro era molto alto e, se qualcosa fosse andato storto, sarebbero finiti nelle profondità degli abissi o, peggio, i loro corpi si sarebbero incagliati tra gli scogli, banchetto per gli uccelli che scrutano dall'alto.
Tutto era pronto: le cinghie erano ben salde, le cordicelle di manovra erano legate ai polsi, un vento favorevole spirava leggero nell'aria primaverile.
"Ricorda: non volare troppo vicino al Sole" lo ammonì di nuovo Dedalo senza nascondere la sua preoccupazione.
"Padre, non lo farò" lo rassicurò Icaro.
I due presero la rincorsa: i loro piedi affondavano nel prato rugiadoso e si imprimevano nella nera terra. Corsero per cento piedi, e poi altri cento, e altri cento ancora, finché le loro piante non toccarono più nulla: allora spiegarono le loro ali e si librarono leggeri nell'aria, lasciandosi trasportare dall'Euro benevolo.
Una scarica di adrenalina e di euforia attraversò veloce il corpo del giovane, che urlò per l'immensa gioia che stava provando: il vento tra la chioma bionda, la sensazione di non avere nulla sotto e il cielo infinito sulla propria testa, sospeso a metà tra il mondo dei mortali e quello degli dei.
Scese in picchiata giù verso il mare e si divertì a fiorarne la superficie increspata dalle onde con la mano tesa, ridendo delle gocce d'acqua salmastra che gli finivano sul viso.
"Icaro, troppo in basso!" lo rimproverò con tono severo suo padre aggrottando le sopracciglia.
Il ragazzo allargò le ali e si fece portare su dalla brezza, volando affianco ad uno stormo di rondini che garrivano, felici come lui per la loro libertà. Troppi anni era stato rinchiuso in quel labirinto, costretto ad osservare sempre la stessa pietra, sempre le stesse vie, sempre la stessa penombra, ma ora poteva andare dove voleva, poteva vedere quanto fosse meraviglioso il mondo esterno, il mondo libero. Seguendo il volo degli uccelli, si spinse in alto, sempre più in alto, fino a saggiare con i piedi quale fosse la consistenza delle nuvole.
"Icaro, troppo in alto!" lo ammonì Dedalo preoccupato.
Ma il Sole sembrava chiamarlo per nome, lo attirava a sé con la sua luce e il suo calore, così come le Sirene stregavano con il loro canto mortifero i marinai che si ritrovavano a navigare davanti al loro isolotto.
"Icaro, troppo in alto!" urlò il vecchio architetto con tutta la voce che aveva in corpo.
Ma Icaro non lo ascoltava, non poteva farlo: era troppo in alto per riuscirci e, anche se i richiami fossero giunti alle sue orecchie, non li avrebbe seguiti lo stesso, troppo era ammaliato da quella divinità che pareva promettergli lo splendore più assoluto.
Si accorse solo troppo tardi che tutta quella luce, tutto quel calore stava sciogliendo la cera, che aveva cominciato a colargli sulla schiena e sulle braccia candide, facendogli perdere la rotta.
Il ragazzo tentò forsennatamente di armeggiare con i lacci, ma l'invenzione di suo padre non rispondeva ai suoi comandi: ad ogni strattone, ad ogni minimo movimento le piume cadevano giù e sparivano nell'abisso.
"Padre! Padre! Padre, aiutatemi!" gridò Icaro iniziando a perdere quota.
"Aprile! Apri le ali!" gli ordinò l'altro spaventato.
"Non si aprono! Non si aprono!", pianse disperato il giovane, "Padre! Padre! Aiutatemi, vi prego!".
Dedalo assisteva impotente alla lenta caduta, sforzandosi di pensare a qualcosa, a qualsiasi cosa che potesse salvarlo.
"Padre! Padre!" urlò ancora e ancora, ma non c'era nulla da fare.
Delle ali non era rimasto altro che la struttura di cuoio, il suo corpo si contorceva nella caduta come un burattino senza fili e la sua voce rompeva il silenzio del cielo, finché non cominciò a confondersi tra il rumore delle onde che si abbattevano violentemente sugli scogli.
"Icaro! Icaro!" lo chiamò l'architetto mentre sentiva la sua anima strapparsi come una veste logora.
Ma suo figlio ormai era scomparso nelle scure acque dell'Egeo, celato ai suoi occhi per sempre.
Icaro provò a risalire verso la superficie, ma l'impatto con l'acqua l'aveva completamente paralizzato e uno strano formicolio percorreva come una fiamma il suo corpo. Sentiva la vita venire meno nel suo corpo mentre affondava sempre di più negli abissi. Pensò a suo padre e ai moniti che aveva volutamente ignorato, troppo stolto e tracotante nel suo ardore giovanile. Nella sua mente risuonò una dolce nenia, una ninna nanna che gli cantava sua madre per farlo addormentare quando, ancora in fasce, si ostinava a non voler cedere ai doni di Morfeo.
Alzò lo sguardo per l'ultima volta: tra l'azzurro e il blu profondo dell'acqua che lo circondava, si stagliava un alone di luce bianca, un bagliore che gli permise di intravedere le bollicine che uscivano dalla sua bocca.
E poi il nulla.
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