Capitolo 17
L'alba fece capolino dietro le montagne, gettando fasci di luce tra la nebbiolina che nascondeva il piazzale. Tutti dormivano ancora e la caserma era immersa nel silenzio. Si sentiva solo l'eco lontano delle grida per il cambio della guardia. Yael appoggiò lo zaino con i vestiti e gli spartiti musicali davanti al pinnacolo dell'alzabandiera, mentre il militare che lo scortava sbadigliò e si accese una sigaretta. Il rombo di un vecchio motore diesel echeggiò tra i dormitori come un tuono, annunciando l'arrivo della camionetta. Il tenente Möller scese le scale degli alloggi riservati agli ufficiali, seguito dal suo attendente, che trascinava le sue pesanti valigie come un somaro. Il rastrellamento degli ebrei nella provincia aveva raggiunto una quota soddisfacente e i nazisti non avevano più interesse a mantenervi una presenza forte, perciò la SS era stata spostata di stanza al quartier generale di Bologna. Forse, temendo di non ritrovare più un musicista all'altezza del suo raffinato palato estetico, l'ufficiale dei nazisti aveva obbligato il colonnello ad autorizzare anche il trasferimento del pianista ebreo, convincendolo ad assegnare il suo protetto alla banda musicale alloggiata presso il comando romagnolo. Yael si sentiva una specie di giocattolo nelle mani di una prima donna isterica, vivendo con apprensione il fatto che ora la sua sopravvivenza fosse legata in modo inversamente proporzionale al numero di stecche delle sue esecuzioni. Sperava, rimanendo nelle grazie del tenente, di avere presto notizie dei suoi genitori, o di poter rintracciare Mara. Con una rapida occhiata, il tenente si accertò che il suo favorito fosse lì, in mezzo ai bagagli, poi salì sulla camionetta senza rivolgere parola a nessuno: il pianista ebbe ancora di più la netta sensazione di essere considerato solo come una specie di carillon a grandezza umana, affascinante fino a che l'ingranaggio non s'inceppava. Il militare gli fece cenno di salire dietro, sotto il telone mimetico e si sedette su una panca dentro il cassone. Appoggiò la testa alla lamiera arrugginita con l'intenzione di recuperare un po' di sonno, ma il giovane soldato che lo guardava a vista sembrava contrario all'idea di lasciarlo riposare e continuava a chiacchierare, raccontandogli la cronaca dettagliata di tutte le prostitute con cui era stato da quando si era arruolato. Il motore si accese con dei pigri rantolii, per poi salire a pieno regime con un urlo come se stessero sgozzando un maiale. Yael sentì il tenente Möller gridare qualcosa in tedesco. «Quello stronzo ha sempre da lamentarsi» commentò la sua scorta, interrompendo il fedele resoconto di un rapporto orale. Poi, una portiera della cabina si aprì: il maresciallo scese e andò a sedersi con loro di dietro, con un'espressione così carica di rabbia in viso che tolse a tutti ogni curiosità di fare domande. «Ha detto che non può condividere la cabina con un semplice sottoufficiale» si lamentò il maresciallo, mentre la camionetta ripartiva «avrei una gran voglia di accoltellarlo e abbandonare il suo cadavere in un fosso.» Mentre la camionetta viaggiava sulla strada sterrata, l'alba sorse sopra il bosco, illuminando con i suoi fiochi raggi la loro corsa in mezzo alla campagna. Guardando il paesaggio scorrere fuori dal cassone, Yael respirò gli odori della mattinata: il profumo dei gelsi a quell'ora era inebriante, peccato che ogni tanto il tubo di scarico lo coprisse con il suo puzzo di gasolio. Il giovane ebreo cercò di ignorare la voce della sua scorta che continuava a parlare e chiuse gli occhi per riposare, ma non fece in tempo a rilassarsi. La camionetta frenò bruscamente e il contraccolpo li fece ruzzolare tutti sul pavimento del cassone. Yael sentì il soldato alla guida che urlava e si aggrappò alla panca per non cadere mentre la camionetta, sbandando sul fango, arrestava la sua corsa vicino a una macchia di boscaglia. Il maresciallo si sporse fuori dal telo mimetico per controllare che cosa fosse successo e vide un loro commilitone che giaceva sdraiato senza sensi, proprio in mezzo alla mulattiera. L'autista scese dalla cabina e si avvicinò al camerata svenuto. Gli appoggiò una mano sulla giugulare e si accorse che respirava ancora. Chiese aiuto al maresciallo, che scese dalla camionetta e, insieme, cercarono di sollevarlo. L'ebreo si avvicinò al finestrino della cabina e vide che il tenente Möller era immerso nella lettura, del tutto indifferente a quanto stava succedendo fuori in strada. Sbirciò all'interno del vetro, ma riuscì solo a leggere il nome dell'autore del libro che il tenente stava leggendo. La scoperta fu sufficiente, però, a gelargli il sangue nelle vene: si trattava del libro di liriche di Novalis, lo stesso poeta per le cui rime anche lui era rimasto sveglio a leggere tante notti. Improvvisamente, echeggiò l'eco di un secco colpo di revolver. Spaventati, gli uccelli si alzarono in volo dagli alberi; il maresciallo cadde sull'erba con il viso deformato da una smorfia di dolore, tenendosi le mani al petto sanguinante. Il soldato che era sdraiato tra la stoppia della stradina saltò in piedi e, tirando con la sua Beretta contro l'autista, scappò verso la boscaglia. I finestrini della cabina esplosero sotto una raffica di colpi: pezzi di vetro, brandelli di carne e stoffa volarono da tutte le parti fino a che l'assordante rumore dei mitra non si zittì. La copertina degli "Inni alla notte" cadde svolazzando nel fango mentre il tenente Möller si accasciò, strisciando il viso insanguinato contro il finestrino. Il militare di scorta cercò di sparare contro il traditore che si era finto svenuto ma, appena si sporse dal telo mimetico per prendere la mira, fu centrato dal proiettile di un cecchino nascosto tra le fronde e crollò sull'erba, sbattendo la testa contro la lamiera della carrozzeria. Yael contemplò il suo elmo ornato dal fascio littorio che rotolava lontano, mentre si sentiva incapace di scappare o anche solo di accovacciarsi. Chiuse gli occhi, terrorizzato, attendendo che un'ultima raffica facesse calare il sipario su quella patetica farsa che era stata la sua vita.
I mitra però sembravano aver deciso di rimanere in silenzio e il soldato che aveva recitato la parte del camerata ferito uscì da un cespuglio, camminando con il revolver puntato verso di lui. Dagli alberi si sporsero altri partigiani e lo circondarono, tenendolo sotto tiro con i fucili, mentre lo osservavano incerti sul da farsi. «Adesso ho capito chi è» esclamò all'improvviso un partigiano dopo aver messo a fuoco il suo viso «è uno innocuo, è il figlio della gallerista, l'ebrea, quello che suona il pianoforte.» «Ne sei sicuro?» chiese un altro partigiano. «Sì, ogni tanto lo vedevo quando andavo a lezione di canto.» «Di canto?» chiese l'altro ribelle stupito. I partigiani scoppiarono a ridere. «Ci andavo solo perché i miei genitori insistevano» rispose il partigiano che aveva riconosciuto il pianista ebreo, paonazzo in viso per la vergogna. «Basta, fate silenzio» esclamò uno dei soldati, seccato da quella farsa infantile «non siamo mica all'oratorio.» Al sentire il suo rimprovero, gli altri militari si zittirono, scostandosi timorosamente dall'ebreo. Il partigiano che li aveva ripresi avanzò verso di lui: era un marcantonio barbuto e corpulento, ma si muoveva veloce nonostante la pancia che gli gonfiava la giacca della divisa militare. Da come gli altri partigiani si erano fatti da parte, Yael immaginò che dovesse essere il loro comandante. «Ebbene, pianista» esordì il capo dei partigiani, dandogli con il braccio muscoloso una pacca che quasi lo buttò per terra, «faccio fatica a inquadrare il tuo ruolo in tutta questa situazione.» Yael raccontò, balbettando, le sue disavventure, senza tralasciare nulla, arrivando fino al momento in cui il tenente lo aveva scelto come suo musicista di corte, portandoselo appresso come una specie di concubina. Il capo dei partigiani lo ascoltava, squadrandolo con uno sguardo sospettoso da cui Yael si sentì messo a disagio. Quando ebbe finito il suo racconto, i partigiani si consultarono per decidere che cosa fare di lui. «A me sembra tatticamente irrilevante» commentò il primo partigiano, quello che lo aveva riconosciuto. «Lo vedremo» rispose dubbioso il capo dei ribelli, e strattonò l'ebreo, facendogli cenno di camminare davanti a lui. Davanti a quel nuovo mutamento di sorte, Yael non seppe se sentirsi spaventato per le nuove incognite che lo attendevano, oppure felice per ritrovarsi ancora vivo, con il cuore infiammato dalla speranza di poter rincontrare Mara. La pattuglia s'inoltrò nella boscaglia, lasciandosi alle spalle i cadaveri abbandonati attorno alla camionetta crivellata dai proiettili, mentre Yael camminava in mezzo al gruppo di partigiani, così stordito dalla piega presa dagli eventi da non provare nemmeno a chiedersi dove stessero andando o cosa avessero intenzione di fare di lui. Seguendo la pendenza che s'inerpicava sulla collina, il giovane ebreo iniziò ad ansimare per la fatica, scostando con le mani le fronde che continuavano a sbattergli addosso in faccia, mentre arrancava tra gli scattanti soldati, allenati dalle lunghe marce e dall'asprezza della guerriglia in montagna. Il capo dei partigiani lo prese in giro per la sua pessima forma fisica, ma l'ebreo non trovò neanche la forza di rispondere o di arrabbiarsi, dal tanto che stava sbuffando per lo sforzo di doverli seguire su quella fanghiglia scivolosa. «Sono proprio curioso» commentò il capo pattuglia «di ascoltare la tua prodigiosa arte musicale» disse sarcastico, Poi, scoppiò a ridere. «Ammesso che tu riesca ad arrivare al rifugio, cosa di cui non sono molto convinto.» Il giovane pianista non provò nemmeno a rispondere perché sentiva già venirgli meno il respiro; pensò di stare per svenire e non vedeva l'ora di sdraiarsi anche nella più lercia e arrugginita brandina da campo per dimenticare di esistere. «Sto dicendo a te, stronzo» rincalzò il capo pattuglia. Yael si fermò per prendere fiato, ma la spossatezza gli rendeva persino difficile fare un'inspirazione profonda, da quanto la cassa toracica gli faceva male. Era sudato fradicio e i polpacci gli bruciavano dal dolore. «Lascialo stare» intervenne in sua difesa il partigiano che aveva studiato canto «non vedi che tra un po' sviene?» «Ebreo inutile» decretò il capo pattuglia, e lo afferrò per un braccio, strattonandolo «un po' di esercizio fisico non ti farà certo male.» Il partigiano che l'aveva difeso gli diede da bere dalla sua borraccia e cercò di risollevargli lo spirito: «Non farci caso» commentò «il comandante è un po' teso perché questi sono giorni cruciali per noi: gli alleati stanno dando delle belle batoste ai fascisti e stiamo facendo tutto il possibile per aiutarli». Yael non riuscì nemmeno a ringraziarlo per l'aiuto e, ansimando, si accodò al gruppo dei ribelli. Dopo un'ora scarsa di marcia a passo spedito, che al sedentario musicista sembrò lunga come una vita, la pendenza si ammorbidì e, facendo capolino tra gli alberi che si diradavano, il sole ritornò a scaldare i loro visi. Uscendo dalla boscaglia, davanti ai loro occhi si spalancò la distesa di un altopiano e Yael riuscì a riprendere fiato, lasciando vagare lo sguardo sulle cime dei monti. Attraversarono il ponte di un torrente di montagna e l'ebreo immaginò nostalgicamente quanto sarebbe stato bello sdraiarsi su quei prati, abbracciato a Mara. In lontananza, una colonna di fumo salì nel cielo dal camino di una fattoria proprio sotto una parete di roccia nuda a strapiombo. Il gruppo passò vicino a una specie di posto di blocco, dove una guardia salutò con un cenno della testa il capo pattuglia, e poi riprese a fumare annoiata senza dire una parola. «Resisti ancora qualche minuto» disse a Yael il partigiano che gli camminava a fianco «siamo quasi arrivati.» «Se perde i sensi, io non lo trasporto» ironizzò il capo pattuglia «lo lasciamo qui, a fare da concime alle stelle alpine.» L'ebreo non prestò attenzione a quell'ennesimo insulto. Ringraziò Dio perché la strada era tornata pianeggiante, mentre non riusciva più a smettere di sognare a occhi aperti quel sorriso che tanto gli mancava.
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