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63 - Dimmi che non morirà

Elettra indossò il grembiule ed entrò in cucina, sorridente. La faccia di Mirko era appiccicata al forno e gli occhi sgranati fissavano i biscotti che riposavano all'interno.

"Ne posso mangiare uno?" domandò lui con un filo di voce.

Lei spostò la planetaria su un lato del tavolo. "Adesso no, non sono pronti. Mentre aspettiamo che cuociano, possiamo prepararne altri. Ti va?"

Lui si rimboccò le maniche della felpa. "Pronto!" Indicò il grembiule della madre, sul quale sorrideva un orsetto. "Posso averne uno anch'io?"

Lei ridacchiò prendendo un piatto sul quale aveva lasciato raffreddare le uova sbucciate. "Non ne ho della tua taglia, ma se sarai un valente aiutante posso comprarne uno."

Lui si strofinò le mani, pronto ad aiutare, e l'ammirò mentre schiacciava i tuorli con una forchetta. "Posso provarci?" domandò impaziente. Desiderava mettersi alla prova. Non aveva mai cucinato, ma lo attirava l'idea di creare dolci con le sue mani. Quando guardava i programmi di cucina, rimaneva incantato per quello che riuscivano a preparare.

"Ci penso io, tu mi aiuterai dopo con lo stampino. D'accordo?"

"Con lo stampino?" ripeté lui, stizzito. "Voglio imparare a cucinare, non a fare formine sulla spiaggia."

Elettra aggiunse qualche cucchiaio di acqua calda per rendere cremosi i tuorli. "Lo so, ma da piccola mi divertiva usare lo stampino. Mio fratello diceva che sapevo fare solo quello." Ripensare a Oscar offuscava quel momento di leggerezza e condivisione e quindi si sfregò la fronte con una manica. Aggiunse nella planetaria farina 00, fecola e zucchero. "Perla e Riccardo impazziranno per questi canestrelli" commentò per cambiare argomento. "Pensa quando sapranno che mi hai aiutato: non ci crederanno e vorranno delle prove!" Mirko rise, mostrando il dente mancante al centro dell'arcata superiore, e la madre si mise l'indice sulle labbra tonde. "Manterrai il segreto fino all'Epifania? Dai, mancano solo due giorni."

"Sono bravo a mantenere i segreti" replicò imitando il gesto del silenzio compiuto dalla madre.

Dopo aver miscelato, Elettra aggiunse il burro freddo tagliato a pezzetti e riprese a mescolare con la frusta a foglia. "Anzi, potremmo prepararne qualcuno in più per Ingrid!" esclamò per sovrastare il rumore dello strumento. "Adora i canestrelli!"

Le tornò in mente ciò che Perla le aveva raccontato la sera prima e sentì le braccia percorse da un fremito. Non osava immaginare lo spavento provato da Ingrid: se la traiettoria del proiettile fosse stata leggermente diversa, non avrebbe potuto assaggiare i suoi dolci né altro. Sospirò e aumentò la velocità della frusta, in modo che il rumore cancellasse quei brutti pensieri. Lasciò che la mente si concentrasse sulla ricetta e sull'impasto che prendeva forma sotto i loro occhi. Quel suono, di solito fastidioso, l'aiutava a spingere in un angolo della sua mente la disavventura di Ingrid.

Il figlio le tirò una manica. "Mamma, non devi aggiungere queste cose?" Indicò degli ingredienti sul piano della cucina.

Lei fece una smorfia, sorpresa, e inserì i tuorli cremosi, la vaniglia e la scorza grattugiata del limone. "Come farei senza te?" e lo baciò sulla fronte.

"Rimarresti a digiuno." Incrociò le braccia, divertito.

Lei gli fece una linguaccia e sospirò di nuovo: quell'atteggiamento di finta superiorità era lo stesso che aveva avuto suo fratello con lei. Mirko le ricordava Oscar in troppe cose e, in parte, la spaventava.

Quando l'impasto divenne un panetto liscio, spense la planetaria ed estrasse il contenuto con attenzione.

Mentre lo avvolgeva in una pellicola trasparente, Mirko si avvicinò. "Com'è zio?"

Quella domanda, arrivata nel silenzio della cucina dopo l'assordante rumore dello strumento, risuonò come uno sparo. Aggrottò le sopracciglia. "Zio?"

"Zio Oscar... spesso ne parlate."

Elettra si abbassò e lo guardò con una serietà con la quale poche volte si era rivolta a lui. "È un uomo buono, alto, forte. Ha lavorato anni come pasticcere, faceva dei dolci che erano la fine del mondo."

A quelle parole, gli occhioni scuri di Mirko luccicarono. "Voglio imparare da lui, voglio essere come lui! Voglio che mi insegni tutto, voglio che anche i miei dolci siano la fine del mondo!"

Elettra rise per il suo entusiasmo. "Se hai così tanta fretta di imparare, i prossimi tuorli li lascio mescolare a te."

Mise nel frigorifero il panetto appena preparato e un'altra domanda la bloccò sul posto. "Adesso dove si trova?" Mirko si grattò una guancia. "L'ho visto, una volta l'ho visto! Me lo ricordo. La prossima volta gli chiederò di dirmi tutti i suoi segreti."

Elettra gli rivolse un sorriso amaro e sentì gli occhi pizzicare. "La prossima volta..." Intrecciò le dita impregnate di farina. "Digli che voglio parlargli." Controllò la cottura dei biscotti preparati un'ora prima e sentì il cellulare squillare. Si toccò le tasche, nervosa, e si guardò intorno per ricordarsi dove l'aveva posato. Odiava quando qualcuno la chiamava mentre cucinava. Perdeva la concentrazione e non riusciva a gestire la telefonata essendo immersa nella ricetta.

Si recò in soggiorno per controllare dove fosse il cellulare, sollevò i cuscini rosa con motivi rombici e tirò un sospiro di sollievo. Afferrò il telefonino, sullo schermo il nome di Gaia. Sgranò gli occhi, sorpresa, e si maledisse per non aver invitato lei e la figlia a casa per Natale. Poteva rimediare con l'Epifania.

Avviò la chiamata. "Amica mia! Giusto in tempo: ti piacciono i canes..."

Mentre terminava la frase, sentì respiri affannati e una voce che biascicava parole incomprensibili.

"N-Non capisco, cosa succede?"

Le rispose una voce che non era quella della sua amica. "Mamma, male, grave! Non si muove, aiuto! Aiutami, aiuto!"

Elettra spalancò la bocca, le orecchie tese per carpire informazioni utili. Monia vomitava parole alle quali si sforzava di dare un senso. Le intimò di fermarsi, ma la bambina continuava a parlare e piangere tremante. "Monia!" le urlò una volta per tutte, stremata.

Ricevette un imbarazzante silenzio, interrotto solo dal respiro affannato della bimba.

Elettra mise una mano sul fianco e guardò Mirko che la osservava interrogativo. "Monia, ascoltami, cerca di stare calma. Cos'è successo a tua mamma? Dov'è adesso?"

Sentì una vocina spaventata risponderle: "È a terra, non si muove. Ti prego, aiutami. Aiuto, ai..." La frase fu interrotta da un altro lamento di paura.

Elettra tirò un grande sospiro. "Amore, ascoltami bene: dimmi dove abiti, l'indirizzo preciso, e ti prometto che mamma starà meglio."

La bimba si portò una mano sui capelli ricci, le spalle voltate al corpo della madre. Sporse la lingua e si batté sul capo per cercare di ricordare l'indirizzo, ma in quel momento la sua mente era una fitta nebbia. "E che ne so! Non ricordo, io... i-io non..."

Stava di nuovo per scoppiare a piangere ed Elettra si toccò la fronte. Si erano trasferite da poche settimane, era normale che una bambina di sette anni non ricordasse l'indirizzo. "Tesoro, tranquilla. Avviso i soccorsi, la mamma... ti prometto che si riprenderà!"

Monia si voltò verso la madre, distesa sul pavimento della cucina con i capelli neri sul viso. Socchiuse le sottili labbra tremanti e strinse la presa sul telefonino. "Dimmi... dimmi che non morirà!"

Mirko si avvicinò alla mamma, ma Elettra spostò lo sguardo sulle righe del tappeto che ricreavano un'autostrada di linee. Non usciva alcun suono dalla sua bocca, come se la gola volesse impedirle di promettere ciò che non avrebbe potuto mantenere. "Ascoltami..." tentò, incerta, "rispondi alla telefonata che riceverai dai soccorsi e andrà tutto bene."

Chiuse la chiamata senza controllare se avesse capito. Doveva agire in fretta e ogni secondo poteva essere decisivo. Digitò il 118 e con la mano libera dal cellulare strinse a sé Mirko, come l'aiutasse a riprendere il controllo delle emozioni: la vita della sua amica dipendeva da lei.

Voci lontane, camici bianchi che le passavano davanti e i lamenti di pazienti al pronto soccorso da chissà quanti giorni. Elettra era stata ore su una scomoda seggiola ad aspettare che le dessero sue notizie, fino a quando aveva intercettato un dottore e scoperto la causa del malessere di Gaia.

Sul pavimento in marmoleum echeggiavano i suoi passi sicuri, diretti verso l'amica. Il medico l'aveva pregata di non stancarla, ma Elettra non sapeva se ci sarebbe riuscita. Avevano troppo da chiarire: quello svenimento era il segnale di un malessere profondo di cui non le aveva parlato quando si erano rincontrate nel pet shop.

Arrivata nello stanzone indicato dal medico, Elettra si districò nei pochi passaggi liberi dai letti, che occupavano quasi tutto lo spazio. Tra i pazienti vi erano persone di ogni età e qualcuno le allungava una mano, come se non vedesse un familiare da giorni e avesse bisogno di un po' di compagnia. Pur essendo un ospedale d'eccellenza, imperversava l'emergenza sulla mancanza dei posti letto.

Arrivò in un angolo dello stanzone, dalla finestra con le tapparelle abbassate filtrava la luce serale dei lampioni. Gaia aveva lo sguardo rivolto verso l'esterno, come per riassaporare la libertà.

Elettra le accarezzò una mano. "Mi hai fatta preoccupare."

Gaia si voltò, gli occhi vitrei e infossati. "Monia..." Il nome della figlia uscì in un sussurro e si schiarì la voce per ripeterlo.

"Monia sta bene" la rassicurò Elettra con un sorriso. "È con la vicina. Quando è arrivata a casa e ha visto l'ambulanza, ha pensato di invitarla da lei."

Sul viso di Gaia apparve una smorfia di sollievo. "Quella non è una donna... è un angelo."

Elettra cercò una sedia, ma erano tutte occupate dagli accompagnatori – a volte più di uno per paziente. "Anche tua figlia. Ha dimostrato un grande sangue freddo, devi essere fiera di lei."

"Lo sono... è il mio tesoro, sto facendo tutto per lei." Tossì e iniziò a respirare in modo irregolare. "Non vedo l'ora di riprendermi per riabbracciarla, mi manca."

"Il medico ha detto che uscirai presto: dovrai solo aspettare che finisca la flebo e fare qualche esame di routine."

A quelle parole, Gaia sgranò gli occhi nocciola. "Se hai parlato con il medico... allora sai..."

"Già, tutto" l'anticipò Elettra con una punta di nervosismo, "ma voglio sentirmelo dire da te."

Gaia allargò ancora una volta gli occhi e si voltò verso la finestra. "No... non posso. Non ci riesco."

"Perché?"

Gaia chiuse gli occhi, pensierosa. "Dare un nome alle cose è pericoloso, perché le rende reali. E se sono cose spaventose è brutto, dannatamente brutto." Elettra abbassò il capo verso il lenzuolo bianco che copriva il fragile corpo dell'amica. "Scusa se non te l'ho detto" continuò Gaia trattenendo un singhiozzo. "Non sono cose che si raccontano così, tra il mangime degli uccelli e gli accessori per i cani."

Elettra le accarezzò una guancia. "Non volevo aggredirti. È che non mi sembrava possibile, tu sei sempre stata... una macchina da guerra. Mi rifiutavo... di pensare che il medico dicesse la verità."

Gaia accennò un sorriso di dispiacere e osservò le lastre quadrate del soffitto bianco. "Anche io... Sai quante volte mi sono rifiutata di accettarlo? Mi sveglio ancora adesso e penso No, è impossibile. Sto bene oggi, sono in forze. Ma è un'illusione."

Elettra continuò a stringerle una mano. "Come l'hai scoperto?"

Gaia passò dal dispiacere a una linea inespressiva sulle labbra, come se si stesse preparando a dare una risposta alla quale era abituata. "Come capita a tante: con l'autopalpazione. Mi pungeva, era qualcosa... di duro, piccolo. Ho fatto un'ecografia e il medico mi ha consigliato di rivolgermi a un ospedale di Firenze per programmare le cure. Così ho scoperto che il mio era... un tumore maligno."

Elettra le strinse forte la mano. "Se non vuoi continuare... Mi accontento di starti vicina, posso chiamare Monia." Sapeva che la sua reazione poteva essere indelicata, ma non voleva costringerla a ripercorrere quell'inferno. Ci era passata anche lei quando aveva raccontato a Perla e Riccardo il periodo nel bordello.

"No, voglio parlarne... affrontare le mie paure." Gaia sospirò. "Da lì è cominciato un tour di esami: il tumore era localizzato soltanto al seno, una piccola consolazione." Elettra inclinò il capo, pensierosa, e lei continuò: "A Firenze ho effettuato la chemioterapia, ma quel bastardo si è rivelato più resistente del previsto. Le parole del medico sono state refrattario a ogni terapia." Deglutì e proseguì fredda: "Sono a Torino perché il medico mi ha consigliato una cura sperimentale di immunoterapia che utilizza i linfociti infiltranti il tumore, in grado di riconoscere e di attaccare le mutazioni."

"Ne ho sentito parlare al telegiornale. È un vanto per la medicina contro il tumore al seno." Si guardò attorno. Adesso capiva perché la sua amica era arrivata a Torino nonostante la promessa di non tornarci. "È una cura costosa? Hai bisogno..."

"No, no. Siamo sempre andate d'accordo perché non ci sono mai stati soldi di mezzo, continuiamo così."

Elettra si toccò la fronte. "Bene... Cioè, è un periodo particolare e non so fino a che punto avrei potuto aiutarti." Aveva appena finito di pagare le rate della penale per il matrimonio, ma voleva conservarne per i suoi nipotini. "Posso prendermi cura di Monia mentre tu fai le cure, basta una telefonata e volo da te." Gaia ringraziò con un largo sorriso ed Elettra si spostò un ricciolo dalla fronte. "A proposito di Monia... lei lo sa?"

L'amica spostò di nuovo il capo verso la finestra, come se si vergognasse. "Non sa nulla. Pensa che ci siamo trasferite perché ho cambiato lavoro e ne è entusiasta, dato che non andava d'accordo con i suoi compagni di classe e aveva pochi amici. Giovedì comincerà a frequentare una nuova scuola."

Elettra mise una mano su un fianco. "Sei davvero sicura di quello che dici? Non è che ti ha mentito perché ha capito qualcosa e non vuole essere un peso?"

Gaia sorrise. "Monia ha sette anni, non sarebbe mai capace di mentire alla sua mamma. Sa che ho una parrucca, questo sì, ma gliel'ho presentata come un gioco. Una volta siamo addirittura andate a sceglierne una insieme."

Elettra posò la borsa al bordo del letto. "Come ti mantieni? Da dove prendi i soldi per le cure? E cosa ne pensa il papà di Monia? Perché non è con voi?"

Gaia rise. "È una visita o un interrogatorio? Chiamo il mio avvocato?"

"Non sapevo ne avessi uno" ribatté Elettra dando un'occhiata agli altri pazienti nello stanzone. "Senti, sono solo preoccupata per te. Sei mia amica e mi stai nascondendo parecchie cose. Perché stai sulla difensiva?"

Gaia iniziò a replicare, ma fu interrotta da un'infermiera che le portò un tramezzino per cena.

"Se vuole, può restare qui" disse quest'ultima a Elettra mentre controllava la flebo.

"Non ce n'è bisogno" rispose guardando l'orologio al polso: doveva tornare a casa per cena.

"Fatti una domanda" disse Gaia mentre l'infermiera l'aiutava a sedersi. "Chiediti perché Monia ha chiamato te." Alzò lo sguardo verso di lei, i capelli corti neri che evidenziavano la fronte aggrottata. "Forse qualcuno gliel'ha insegnato, io gliel'ho insegnato."

Elettra digrignò i denti, confusa sul perché di quelle mezze verità. Prese la borsa e rinsaldò la presa sulla spalla. "Come vuoi, ma se hai bisogno chiamami." Le diede un bacio sulla guancia e si allontanò da quel dedalo di letti, pazienti e dolore.

Perla picchiettò la penna sulla scrivania in legno, la mente immersa in un manuale di Storia del teatro per l'esame imminente. Era la prima sessione e doveva essere ansiosa, ma aveva altri pensieri. Lo studio le serviva per allontanarsi dai problemi, però bastava un dettaglio per deconcentrarsi.

Così, mentre studiava il teatro classico greco-romano, la scena medievale e quella elisabettiana tra Cinquecento e Seicento e s'immergeva nelle trame e nei personaggi, cominciava a pensare che nessuno di quegli autori avrebbe potuto scrivere una situazione più intricata della sua. Ripeteva date e nomi, ma non poteva che chiedersi come avrebbero sbrogliato quella matassa di destini che dipendevano dalla sua gravidanza. Forse in una commedia romana avrebbero risolto con un colpo di fortuna, una risoluzione rapida e indolore prima del lieto fine.

Più ci pensava, più se ne pentiva: la vita non era un'opera teatrale e non ci sarebbero stati aiuti improvvisi dall'alto. Dalla vigilia di Natale non aveva più chiesto a Germana come si stava sviluppando la situazione che avrebbe dovuto portare Fiammetta lontano da Torino, ma sapeva che non sarebbe stato facile. Doveva resistere alla tentazione di parlargliene o di sapere dalla ragazza se aveva ricevuto comunicazioni importanti – magari dall'Accademia del fumetto.

Una sensazione d'impotenza le opprimeva il petto: non poteva fare nulla. Ormai aveva agito e doveva aspettare di vedere i risultati del suo piano, ma quell'attesa era snervante.

Continuò a picchiettare la penna sulla scrivania e, sentito uno sfarfallio nel ventre, si drizzò con una smorfia. Alzò la testa per reprimere la nausea, le mani sui fianchi. Si accarezzò quello che sarebbe diventato un pancione e sbuffò pensando che mancavano quattro mesi al parto. Desiderava che quel termine non arrivasse mai: non era pronta a dir loro addio né ad affrontare la reazione di sua mamma. Con Germana non avevano ancora parlato di come gestire quell'accordo e le venivano i brividi a pensare ai gemelli nelle sue mani.

Si schiarì la voce per cercare di scacciare quei pensieri. Doveva soltanto pensare a studiare: Nietzsche e il suo Nascita della Tragedia erano prioritari.

Tornò al manuale, ma il suono del campanello la riportò alla realtà. Chiuse il tomo e dalla finestra notò il postino. Uscì, attraversò il corridoio, scese le scricchiolanti scale a chiocciola e in pochi secondi arrivò all'entrata. Aprì la porta e un uomo dalla divisa giallo evidenziatore le porse una raccomandata: una busta bianca su cui spiccavano A Perla Pontecorvo e una R con un ghirigoro.

Aggrottò la fronte, sospettosa, e se la rigirò tra le mani sempre più confusa. Il postino la invitò a porre una firma digitale su un dispositivo e la salutò con un sorriso di circostanza.

Perla rimase qualche secondo in piedi, il portone aperto e il freddo di gennaio che le scompigliava i capelli castani. Un brivido la portò a rientrare, ancora intontita, lo sguardo rivolto sulla busta per cercare di capire cosa contenesse.

Con un calcio chiuse il portone e si fermò all'entrata. Continuando a guardare quella scritta, tentò di ricordare dove avesse visto la grafia e un formicolio alle dita le diede inconsciamente la risposta: Fiammetta.

Spazio Sly

Mi scuso per il ritardo. Come mi sembra di aver accennato, ho cominciato a lavorare e posso ritagliarmi del tempo per scrivere solo di sera o nel weekend. Se gli aggiornamenti rallenteranno sarà per questo motivo, ma posso assicurarvi che non voglio abbandonare la storia e farò di tutto per concluderla. I Segreti dell'Alba mi piace sempre di più, soprattutto perché ci stiamo avvicinando a delle parti cruciali in tutte le storyline e voglio assolutamente conoscere il vostro parere.

Al di là di questo, passiamo al capitolo: come se Elettra non avesse già abbastanza problemi tra sua figlia, il fratello e la scomparsa dell'investigatore privato, ora deve pensare anche alla sua amica Gaia. Spero di aver raccontato la tematica del tumore al seno con delicatezza e rispetto: è un argomento che non conosco bene e ovviamente ho dovuto informarmi, ma non potrò mai capire appieno cosa si prova. Vi anticipo che lei e Monia avranno sempre più importanza...

Perla ha ricevuto una lettera da parte di Fiammetta. Cosa ci sarà scritto secondo voi? Le vorrà annunciare la sua partenza da Torino o forse si tratta di qualcosa di ben più grave?

Sentitevi liberi di commentare per esprimere la vostra sincera opinione. 

Al prossimo fine settimana per un nuovo capitolo!

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