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50 - Troppo piccola

La nuca di Viola era sul poggiatesta del sedile, gli occhi verdi che seguivano il panorama: la strada era delimitata da alberi che gareggiavano per raggiungere il sole oltre le nubi. Se dal suo finestrino vedeva solo arbusti, da quello del padre s'intravedevano in lontananza Torino e le montagne.

Gustavo staccò lo sguardo dalla strada e si voltò a sinistra. "Peccato per la nebbia, di solito si riesce a vedere la Mole Antonelliana."

"Sembra così tranquilla Torino da quassù... Sei già stato qui?"

Lui tornò a concentrarsi sulla guida. "Su questa strada no, ma io e tua mamma andavamo sempre al Colle della Maddalena." Sospirò al ricordo della defunta moglie. "Non è distante da qui, un giorno ti posso portare. Il Faro della Maddalena è alto quasi trenta metri."

Viola aprì la bocca per lo stupore e continuò a guardare la strada, nella speranza di vederlo da lì. "Dev'essere bellissimo!"

"Da mozzare il fiato, tua mamma lo adorava. L'ultima volta che siamo andati..." Si fermò, chiedendosi se parlare della mamma l'avrebbe intristita. Ormai non poteva rimangiarsi le sue parole. "...era incinta" concluse con voce flebile.

Viola si massaggiò il braccio per i brividi che quella frase le aveva provocato. "Allora voglio proprio andarci" commentò sorridente. "Anch'io adorerò quel posto."

Nella tasca dei pantaloni aveva infilato una foto della mamma e si accarezzò la coscia per sentire la sua vicinanza. Quando doveva fare qualcosa d'importante portava la fotografia con sé, come un portafortuna: il colloquio sarebbe andato bene, sua mamma era lì e le avrebbe dato la spinta necessaria a presentarsi al meglio.

Gustavo si voltò verso di lei. "Carica?"

Viola si sfregò le mani. "Sto sudando!" e tornò a guardare gli alberi oltre il finestrino. Poteva scorgere il suo riflesso. "E se non le piacessi?" Sembrava domandarlo a se stessa.

Mentre l'auto affiancava alcune villette bianche, Gustavo rispose: "Viola, andrà bene. Hai superato molte sfide nella tua vita, anche stavolta sarà un successo."

Lei sorrise, lo sguardo sempre rivolto al proprio riflesso. "Di quali sfide stai parlando? La morte di mamma non l'ho ancora superata. La scuola l'ho finita a fatica. E Fulvio... il nostro rapporto è stato tutto fuorché un successo."

Sentì una vibrazione e aprì la borsa ai suoi piedi per prendere il cellulare: il ragazzo le aveva mandato un messaggio per augurarle buona fortuna. Ricacciò il telefonino tra gli altri oggetti e appoggiò la schiena al sedile.

Il padre le parlava, ma lei rispondeva a monosillabi. Non riusciva a fare a meno di pensare che quando Fulvio le aveva detto che aveva convinto Elettra della versione dell'incidente, non gli aveva creduto. Poi la donna l'aveva ricontattata per incontrarla dal vivo ed era stata a casa sua. Lì Elettra le aveva parlato di quel lavoro e Viola era rimasta titubante. All'inizio non se ne capacitava, ma aveva accettato con decisione.

Tornò a massaggiarsi un braccio, mentre pensava alla gioia provata quando le aveva proposto quel lavoro. Si stava aprendo un nuovo capitolo e si promise che non ci sarebbero stati passi falsi. Avrebbe avuto una vita normale, grazie al nuovo lavoro e a nuove amicizie. E grazie alla psichiatra, dalla quale sarebbe stata la settimana successiva.

Abbassò il finestrino dell'auto e sporse un braccio fuori. Inspirò l'aria della collina torinese, sentì l'energia avvolgerle i muscoli e chiuse gli occhi. Sarò questa la felicità? Era la prima volta che si soffermava a pensarci.

Una brusca frenata la riportò alla realtà.

Viola spalancò le palpebre, ma il padre le prese una mano. "Ti ho spaventata? Scusa, siamo arrivati" e indicò il cancello elettrico.

Lei tirò un sospiro di sollievo. Alzò il finestrino e guardò oltre le grate dell'ingresso: quella villa a mattoni rossi su due piani sarebbe stata il suo luogo di lavoro e per l'eccitazione sorrise soddisfatta. Prese la borsa e baciò sulla guancia il padre. "Grazie, ti amo" e fece un grattino sulla pancia prominente.

"In bocca al lupo, stellina mia. Chiamami quando finisci."

Lei aprì la portiera. "Sì, ma prenderò un taxi per tornare giù."

Uscita dall'auto, gli mandò l'ennesimo bacio e chiuse lo sportello. Rinforzò la presa sulla borsa, si ravviò i capelli ramati dietro le spalle e mise una mano all'altezza del cuore. Era così tesa che pensava di non spiccicare parola. Si avvicinò al cancello chiedendosi se fosse il caso di avvisare del suo arrivo e il battente in ferro si aprì con un clangore metallico.

Si voltò indietro, il padre era già partito, e si avviò nella stradina costeggiata dalla vegetazione. Notò altri particolari: le scale esterne che conducevano al primo piano e il parcheggio coperto con una BMW M3 Cabrio posteggiata. In un lato del cortile scoprì uno spazio recintato con una serra a tunnel che si mimetizzava con gli alberi sempreverdi.

Fu attirata da un rumore di passi: dalla rampa di scale esterna scese una donna con un elegante completo giallo evidenziatore.

La ragazza sfoggiò il miglior sorriso possibile. "Buongiorno, sono Viola Rancea." Non riusciva a guardarla da quanto fosse accecante quel colore.

"No" la stoppò subito. "Tu sei in ritardo", i taglienti occhi neri che la squadravano altezzosi.

Viola rimase bloccata sul posto, per poi dare un'occhiata all'orologio al polso. "Vero, mi scusi. È che mi ha accompagnata mio papà e abbiamo trovato traffico. Poi ha pure sbagliato strada." Congiunse le mani. "Non succederà più."

"Non succederà più perché il tuo lavoro finisce qui" spiegò Germana, arrogante, sistemandosi il colletto del blazer. "Puoi anche andartene."

Viola si sentì mozzare il fiato; Elettra le aveva anticipato quanto fosse particolare quella donna. Strinse una mano a pugno, non si sarebbe arresa così facilmente, e avanzò di qualche passo. "Non vorrà mandarmi via dopo la fatica per essere qui?"

Germana sbuffò. "Tesoro, il colloquio era mezz'ora fa. Come posso fidarmi di qualcuno che tarda ancora prima di cominciare il lavoro? Tengo alla puntualità."

Viola si morse l'interno della guancia. Doveva inventarsi qualcosa, subito. Forse doveva ricordarle di avere l'amica dalla sua parte. "Elettra le avrà parlato di me, sono sicura che potrà darmi un'altra occasione."

Germana fece una risatina a labbra sigillate. "Brava, punta sul fatto che sei raccomandata, farai strada nel mondo del lavoro. Buona giornata." Salì le scale e Viola si mise una mano sulla fronte. Perché ogni cosa che diceva le rimbalzava addosso come una pallina da tennis sul muro? Allargò le braccia. "Non può trattarmi così! Non mi ha nemmeno chiesto cosa so fare."

"Non m'interessa" replicò algida Germana, in cima alle scale. "Voglio qualcuno di cui possa fidarmi ciecamente, la prima impressione è stata pessima."

Viola assottigliò gli occhi. Doveva approfittare dello spiraglio che le aveva aperto con quella frase. Salì un gradino, sicura. "Non si fida di Elettra?"

Germana si bloccò. "Che c'entra lei?" e la ragazza alzò il mento. Se quella donna voleva giocare sul terreno della parola, l'avrebbe battuta.

"Elettra mi ha raccontato delle difficoltà per trovare una collaboratrice domestica." Schiuse le labbra in una smorfia. "Se le ha proposto il mio nome... si fida delle mie capacità. Di conseguenza, signora, dovrebbe fidarsi di Elettra e, per proprietà transitiva, di me."

Quella risposta portò la donna ad alzare un sopracciglio: Viola la guardava con una decisione che le ricordava lei stessa da giovane. Quell'espressione da sbruffona era un tentativo di sfida.

"Non azzardarti più..." replicò spocchiosa. Fece una pausa teatrale, per sondare il terrore sul suo viso, "...a chiamarmi signora. Sono Germana" e le indicò lo stretto corridoio. "Entra."

Viola per poco non le rise in faccia e, mentre saliva le scale, sentì i muscoli sciogliersi. Perché aveva cambiato idea così velocemente? Quant'è lunatica.

Arrivate nel salone doppio dalle pareti giallo paglierino, si sedettero su un divano grigio posizionato davanti a un tavolo. "Viola, posso offrirti qualcosa?"

Lei scosse la testa, nonostante la salivazione azzerata, e dalla borsa estrasse una cartella contenente il curriculum vitae. Glielo porse, timida.

"Non perdi tempo" e Germana lesse i due fogli. "Anche perché ne hai perso fin troppo."

Viola evitò di rispondere e guardò il caminetto spento a parete.

Germana le riconsegnò il curriculum. "È la prima volta che lavori come collaboratrice domestica. Sicura di non essere troppo giovane? Questa villa è di quattrocento metri quadri e ha tre piani, sai che c'è da faticare?"

Viola si sforzò di sorriderle. "Beh, questa casa è uno specchio. Non ho mai prestato servizio presso qualche famiglia, ma so fare le pulizie, cambiare le lenzuola e lavare. Mi metta alla prova."

Germana spostò il proprio cuscino accanto al bracciolo. "Sai stirare?"

Viola tirò un lungo sospiro, indecisa. "N-no, non ancora. Ieri ci ho provato, ma... ho bruciato una camicia di papà."

Germana rise, mettendo in evidenza gli zigomi gonfi. "Siamo in due, continuerò a portare la roba in tintoria..."

Viola continuò a sorridere, soddisfatta che avesse apprezzato la sua sincerità. "So cucinare, le piacciono i dolci?"

Germana si umettò le labbra a cuore, con superbia. "Devo mantenere la linea" e le si avvicinò confabulatoria, "ma talvolta mi concedo qualche sgarro."

La ragazza inclinò il capo. "D'ora in avanti gli sgarri saranno più frequenti."

Germana rise di nuovo e si alzò. "Vieni, ti mostro la casa."

La donna la portò nelle molte camere dell'abitazione e ogni volta che Viola entrava in una stanza si stupiva di quanto fosse ben tenuta. Gli oggetti della villa sprizzavano eccentricità, come la proprietaria. Durante la visita le sorse una domanda: poteva una persona vivere sola in un posto così grande? Elettra le aveva detto che era vedova da anni e che non si era rifatta una vita per non sconvolgere le sue abitudini.

Quello era il posto in cui Viola aveva sempre sognato di lavorare: silenzioso e immerso nel verde. L'unico problema era la presenza di una donna insopportabile.

Questa casa è grande come il suo ego rifletté mentre erano nell'ampia terrazza dalla quale intravedeva Torino. Si appoggiò alla balaustra e lo sguardo cadde sulla serra immersa nel verde. "Germana, devo occuparmi delle piante?"

"No, lo fanno altri, lavori già abbastanza."

Rientrò nella cameretta del secondo piano e Viola la seguì. "Sono tenute benissimo, complimenti. Nella serra cosa c'è?"

Germana chiuse la portafinestra con un colpo secco. "Un cadavere." La ragazza si paralizzò e la donna rise. "Cosa vuoi che ci sia? Altre piante! Mio marito le amava, per questo le vedi all'esterno e in ogni stanza."

"Certo" replicò Viola ridendo con lei. "In effetti ha più piante che fotografie."

La donna le lanciò un'occhiataccia. "Le piante sono più vive di qualsiasi foto polverosa."

Mentre scendevano le ampie scale in legno verso il primo piano, nel salone doppio, Viola rifletté sovrappensiero: "Ma le foto facilitano il ricordo."

Germana si sedette sul divano. "Ricordare non è sempre bello. Ci sono cose che preferisci dimenticare, ma sei troppo piccola per capirlo."

Viola rimase in piedi. Avrebbe dovuto essere abituata alle sue parole di fuoco, ma quella frase l'aveva colpita come una pallottola nel petto. Odiava quando qualcuno giudicava la sua vita senza conoscerla. Troppo piccola... Troppo piccola per vedere mia mamma morire, per sparare a una persona, per essere aggredita.

"Siediti" la incalzò Germana con un colpetto sulla seduta. "Parliamo di ore di lavoro e paga."

Lei avanzò, lo sguardo spento. Avrebbe voluto insultarla e andarsene: così avrebbe fatto la vecchia Viola, e le avrebbe rotto il finestrino della macchina. Ma aveva promesso al padre che era cominciata una nuova fase della sua vita: entrare nel mondo del lavoro significava anche mordersi la lingua.

Dopo aver inspirato ed espirato più volte, obbedì. "Parliamone."

Perla e Corrado si stavano avviando in università, avvolti in pesanti giacche contro il freddo d'inizio dicembre. Lui guardava il cellulare, assonnato, e lei teneva le mani nelle tasche. Sentiva che se le avesse tirate fuori si sarebbero congelate.

Il loro silenzio contrastava con i rumori cittadini: tram sulle rotaie, i clacson delle auto, la bolgia infernale del liceo accanto all'università.

Perla si voltò verso Corrado. "Cosa guardi d'interessante? È da quando sei venuto a prendermi a casa che sei attaccato al cellulare."

Lui alzò una mano. "Niente d'importante."

Perla sospirò, contrariata. "Stai stalkerando Diego sui social?" Dopo l'occhiataccia che le rivolse, la ragazza esclamò: "Ci hai già provato quando l'hai conosciuto."

"Non stalkero lui" spiegò sistemandosi con un dito gli occhiali arancioni sul naso, "ma Nanà. Voglio cercare di capire cos'è successo tra loro due."

Perla cercò di muovere il passo per evitare i venditori ambulanti appostati ai lati della strada. "Non fai prima a chiamare Diego? L'hai ancora visto dopo avergli detto quello che senti?"

Corrado fece una smorfia d'impazienza e nascose il cellulare nella tasca della giacca. "Abbiamo corsi in comune, ma ho cercato di evitarlo e lui idem. Ormai... siamo due sconosciuti." Approfittò di un sassolino che intralciava il passaggio per sfogare la sua rabbia e calciarlo in un angolo. "Ho distrutto tutto!"

Arrivarono nella piazzetta davanti a Palazzo Nuovo, la statua di Eco che spiccava nella moltitudine di ragazzi affollati. I tavolini del bar erano occupati dagli studenti.

Perla si scrocchiò le dita, per poi ricacciarle al caldo. "Non hai distrutto niente. Sei stato sincero, io... ti ammiro molto."

Il ragazzo sorrise e avvolse un braccio attorno al suo collo, per poi darle un bacio sulla guancia. "Merito di Ingrid, sa essere convincente." Salirono l'imponente scalinata davanti alla facoltà con la facciata in acciaio. "Tu? Quando sarai sincera con tua mamma?"

"Fammici pensare... mai?"

In cima alle scale, il ragazzo si fermò. "Perla, ascoltami."

"No, puoi stare un giorno senza parlare di questo? Mi sento già abbastanza male." Entrati nella struttura, rilassò i muscoli e rinsaldò la presa sulla borsa a tracolla.

Corrado allargò le braccia. "Ti dirò finché campo che stai facendo una cavolata dietro l'altra. Pensa a tutto quello che è successo da quando hai scoperto di essere incinta: le tue bugie sono state smascherate e prima o poi tua mamma saprà del tradimento di Riccardo. È questione di tempo."

"È questione di stare zitti" lo rimbeccò. "Sei mio amico, non il mio life coach. So che bisogna dire la verità, ma è complicato... ti faccio un disegnino?"

Corrado guardò le scale che conducevano al primo piano. "Anch'io avevo paura di dire la verità, ma sai la differenza tra me e te?" Arrivò a pochi centimetri dal suo orecchio. "Io mi sono liberato e sono felice, nonostante tutto. Tu, finché non farai lo stesso, non lo sarai mai." Perla stava per replicare, ma lui l'anticipò: "Ti dico 'ste cose per impedirti di distruggere la tua vita con le bugie." Abbassò lo sguardo sul suo ventre. "Cosa dirai ai tuoi figli quando dovrai insegnar loro che non si raccontano le bugie? Con quale coraggio li guarderai in faccia e dirai che la verità dev'essere al primo posto?"

"'Fanculo!" replicò stizzita. Si massaggiò il collo e iniziò a incamminarsi nel corridoio alla sua sinistra. "La modalità Grillo Parlante non ti si addice!" e si allontanò.

Attraversò il lungo corridoio dell'ingresso con grandi falcate. Come si permetteva Corrado di mettere in discussione il suo ruolo di madre? Lui non capiva cosa stava passando, non provava a empatizzare. Era solo bravo a puntare il dito.

Vide dei ragazzi in trepidante attesa davanti alla porta chiusa dell'aula magna. Mancava un quarto d'ora all'inizio della lezione.

Si appoggiò a una parete verde, vicino a una bacheca piena di fogli, e una lacrima le rigò la guancia. Le parole di Corrado l'avevano colpita più di quanto immaginava. Perla faceva di tutto, ogni giorno, per non pensare ai segreti derivanti dalla gravidanza e si teneva occupata in ogni modo possibile: ascoltare musica, rassettare la stanza, aiutare Mirko con i compiti. Ma, quando alla sera posava la testa sul cuscino e spegneva la luce, si confrontava con i suoi tormenti. E, nel silenzio della notte, sentiva dei rumori dal piano inferiore. Così si tappava le orecchie, ma erano sempre più forti: risolini, gemiti, parole sporche. Immaginava Riccardo giacere con Elettra e provava un tale bruciore allo stomaco che stava sveglia fino all'alba. Quella situazione la logorava giorno dopo giorno come una goccia cinese.

Le lacrime colarono copiose e attraversò con lo sguardo basso una parte del corridoio per raggiungere il bagno al piano superiore.

Si avvicinò al lavabo, si resse ai lati e sentì una fitta allo stomaco al ricordo delle parole di Corrado. Più ci pensava e più arrivava a una tremenda conclusione: aveva ragione. Come poteva Perla insegnare a due bambini l'onestà se lei stessa mentiva? Una madre non era quello. Una volta Elettra le aveva detto che essere mamme significava avere il cuore fuori dal corpo, ma lei non si vedeva in quel ruolo. Più passavano i giorni, più il senso di colpa aumentava e così la paura di non essere all'altezza.

Scoppiò in un fragoroso pianto: desiderava vivere in uno dei videogiochi di Mirko. Lì si picchiavano, si ammazzavano, ma poi ricominciava il gioco. Lei invece si sentiva bloccata all'interno della stessa partita e non ne vedeva l'uscita. Poteva solo andare avanti e sbagliare, perché vi era abituata.

Percepì un peso sempre maggiore in gola e vomitò nel lavabo ogni paura. Quella tensione era troppa per una ragazza di vent'anni, si sentiva come una giocoliera nel disperato tentativo di riequilibrare degli oggetti che sarebbero inevitabilmente caduti. E prima o poi anche lei, in un game over senza ritorno.

Tossicchiò e aprì il rubinetto per sciacquarsi la faccia. Alzò il capo, i capelli bagnati, e nel riflesso dello specchio vide una persona dietro di lei dall'inconfondibile caschetto blu. Sospirò e si asciugò con una manica il mento gocciolante.

"Va... tutto bene?" domandò Fiammetta.

Perla si girò verso di lei. "Adesso sì. Grazie per... per esserti preoccupata per me."

Le rivolse un veloce sorriso e le passò accanto, ma la voce di Fiammetta la fermò. "Ne sei sicura? Non hai una bella cera."

Perla afferrò una salviettina di carta dal dispenser e si asciugò. "Mi succede sempre, le solite nausee mattutine." L'aveva detto con nonchalance, aveva abbassato la guardia.

Fiammetta aggrottò la fronte. "Nausee mattutine? Quindi sei..."

"Incinta" ammise Perla, fredda, mentre buttava la carta nel cestino. "E il padre, nel caso te lo chiedessi, è Guglielmo." 

Spazio Sly

Come promesso, ho pubblicato un nuovo capitolo. Cosa ne pensate?

Ho tagliato la conversazione tra Elettra e Fulvio e quella successiva tra Viola ed Elettra perché tanto avrei dovuto comunque riepilogarle qui e non volevo ripetere due volte le stesse cose.

La scena del colloquio è stata più lunga di quanto immaginassi, ma ho dovuto cercare di renderla il più realistica possibile e al contempo dinamica. Ci sono parecchi spunti che fanno presagire come sarà il rapporto tra Viola e Germana...

Essendo la festa della mamma, non poteva mancare Perla. Ho approfittato dell'occasione per capire meglio cosa significa per lei essere madre e, come avete potuto leggere, non è per niente facile. Non riesce a viverla bene e forse non ci riuscirà mai se non sarà sincera. Nel frattempo Fiammetta ha scoperto della gravidanza... come reagirà?

Vi avviso che nel prossimo weekend sarò fuori casa e quindi non riuscirò a scrivere il prossimo capitolo, ma cercherò di occuparmene in settimana. Sono impegnatissimo tra tirocinio e università, ma farò del mio meglio! 

Sentitevi liberi di commentare per esprimere la vostra sincera opinione.

Ci vediamo presto con un nuovo capitolo!

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