Capitolo Cinque
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Altrimenti, sarò costretta a bloccarvi o a togliere la storia da questa piattaforma. Mi dispiace scrivere questo avviso all'inizio di ogni capitolo, ma sono arrivata al limite.
Grazie e buona lettura 🌹
A solo una settimana dal suo ritorno a casa, Harry non avrebbe mai pensato di saltare su un treno e tornare a Manchester, soprattutto di varcare le soglie della clinica ancora una volta.
Si era illuso del fatto che un nuovo inizio significasse soprattutto tagliare i ponti con il passato, ma non aveva messo in conto Louis, la sua mancanza e le volte in cui quel viso e quegli occhi tornavano ad addolcire i suoi sogni. Harry non sognava più la notte dell'incidente, ma quelle mani delicate sulla sua schiena, l'odore del tabacco che impregnava la sua divisa bianca solleticargli le narici, quelle labbra sottili plasmarsi alle sue più piene e morbide. Lo sognava anche a occhi aperti e per lui aveva viaggiato su un treno freddo e inospitale con un solo pensiero in testa, quello di rivederlo al più presto. E sempre per lui era tornato alla Saint James, quella volta da vincitore perché ora si reggeva sulle sue gambe, le cicatrici sulla schiena si vedevano a malapena e il solito broncio sulle labbra era sparito a favore di un sorriso rilassato.
Giunto in clinica, salutò la signora Barbara con un bacio sulla guancia e un abbraccio, rivelandole che non fosse stato molto facile tornare a casa sua e abituarsi a quella nuova o, forse, vecchia vita. Poi, schiarendosi la voce e arrossendo per l'imbarazzo, chiese «è possibile vedere Louis?».
«Sta lavorando, tesoro.» rispose lei dispiaciuta. «Puoi aspettarlo nella sala comune, però. Il suo turno termina alle sei oggi.»
Harry indossò il badge per visitatori che la receptionist gli porse e la salutò ancora, ringraziandola per la sua gentilezza e disponibilità. Si diresse nella sala comune, intenzionato ad attendere l'altro per un paio d'ore, e il suo pomeriggio sembrò d'un tratto rivoluzionarsi quando lì incontrò Margaret. Giocarono a scarabeo davanti a un tè caldo, ma l'anziana si mostrò presto più interessata a chiacchierare e a scoprire ogni suo segreto invece di formare parole sulla plancia del gioco.
«Sto aspettando Louis, Margaret.» ripeté per la terza volta. «Quante volte dovrò ancora dirtelo?»
«L'ho capito, ma nessuno torna in questo posto per aspettare semplicemente un infermiere che si è preso cura di lui. C'è qualcosa che non mi stai raccontando.»
Lui ridacchiò, prima di alzare gli occhi al cielo. «E cosa?»
«Un flirt, un bacio...forse anche qualcos'altro!»
«Se lo sai già, allora perché me lo chiedi?»
«Perché è sempre bello avere delle conferme e tu me ne hai data una proprio in questo momento, grazie!»
Harry scosse la testa a metà tra il divertimento e l'imbarazzo, ma non poté evitare di sorridere davanti al tono malizioso di Margaret o alle sue ipotesi. Gli dispiacque molto salutarla qualche minuto prima delle sei, quando chiese ad Amelia di mandare Louis sul tetto, ma di non dirgli il perché. Salì le scale di servizio a due a due e, non appena aprì la porta antipanico, fu felice di sentire sul suo viso quel venticello familiare e di vedere quel panorama che pian piano aveva conquistato una parte del suo cuore. Il sole era ormai tramontato e delle pennellate violacee coloravano il cielo, le superfici vetrate dei grattacieli e persino il fiume Irwell. Frugò nella tasca del cappotto a quadri che indossava e ne tirò fuori un piccolo taccuino e un carboncino per immortalare quello spettacolo sorprendente.
Disegnò le linee dure e spezzate dei grattacieli e quelle più morbide dell'orizzonte e delle nuvole in lontananza, sfumò il carboncino con il polpastrello per creare un sapiente gioco di luci e ombre e in neanche dieci minuti terminò il suo schizzo. Accadeva spesso così. Harry si avventava sul suo taccuino con bramosia e con le mani che fremevano dal desiderio di imprimere quelle sensazioni nero su bianco e poi finiva per ritrovarsi con il volto sporco di carboncino, di grafite o di colore a olio. Finiva per boccheggiare stravolto dalla sua stessa arte, assumendo quasi l'aspetto che aveva dopo il sesso, quello bello però. Chiuse il taccuino con un sorriso soddisfatto e strofinò tra loro le mani per ripulirle invano dal carboncino, ma presto venne distratto dal rumore stridente della porta antipanico.
«Harry?» balbettò meravigliato Louis. «Cosa ci fai qui?»
Non rispose, non immediatamente per lo meno. Fu più impegnato a notare l'altro in una veste nuova, alla quale non era abituato, perché lo aveva sempre visto nella sua divisa bianca e ora, invece, si ritrovava ad ammirare le sue gambe strette in un jeans nero e una giacca di jeans imbottita che nascondeva un maglioncino beige e i palmi delle sue mani. Sembrava molto più giovane della sua età e di ciò che dimostrava indossando la sua divisa, gli sembrò persino più spensierato e rilassato.
«Volevo farti una sorpresa e mi mancava la vista da questo tetto.»
Louis gli si avvicinò incerto. «Ti mancava solo questa vista?»
«Lo sai quanto possono piacermi certe viste, ma sono venuto qui soprattutto per te. Volevo vederti con la divisa bianca, ma mi accontento anche di questo abbigliamento così casual. Anzi, devo dire che il bianco ti sbatte un po'.»
«Io devo dire che l'aria di casa ti ha fatto male, invece. In coma sembravi molto più intelligente.»
«Ma non parlavo neanche!»
«Appunto.»
Harry non riuscì a trattenere una risata, una di quelle rumorose e genuine, che fece vibrare anche il petto di uno stanco Louis dopo un'intera giornata di lavoro in clinica. Gli bastò un suo sorriso per aprire le braccia e invitarlo a rifugiarsi al loro interno, prima di stringerlo nell'abbraccio che aveva tanto desiderato. Inalò l'odore di tabacco che impregnava i suoi vestiti e lo trovò perfetto insieme al suo profumo di vaniglia: dolce e amaro, due opposti che si univano in un connubio perfetto, proprio come loro.
«Mi sei mancato, Lou.»
«Anche tu, Harry.»
Lo mormorarono con un soffio di voce una sola volta, prima che il vento portasse via anche quelle parole e li facesse allontanare.
«Allora, cosa ci fai con questo zaino?» chiese, notandolo soltanto allora sulle spalle.
«C'è il mio cambio lì dentro. Oggi ho la solita partita di calcetto.»
«Oh, non sapevo che fossi impegnato. Posso accompagnarti?»
«Non ti limiterai ad accompagnarmi, farai anche il tifo per la mia squadra e per me, magari riusciremo anche a vincere questa volta!» Louis guardò l'ora sullo schermo del suo cellulare e cominciò a incamminarsi verso le scale di servizio. «Andiamo, siamo già in ritardo.»
E non gli restò che seguirlo tra le strade della città e su un autobus gremito che li portò a ritrovarsi l'uno a un soffio dall'altro, ad abbassare lo sguardo a terra più volte e poi a sorridere imbarazzati. Durante quel breve tragitto Harry si impegnò a imprimere nella sua mente ogni dettaglio che i suoi occhi verdi coglievano, come l'espressione pensierosa che Louis metteva su a volte senza neanche rendersene conto, i tre piccoli nei che aveva sulla guancia e i polsi fini ed eleganti. Arrivarono presto in un campetto di periferia e lui lo accompagnò sugli spalti, prima di scappare negli spogliatoi per cambiarsi. Tornò soltanto pochi minuti dopo con la sua divisa bianca e rossa e qualcosa di blu tra le mani.
«Indossa questo, qui l'umidità è pazzesca e non voglio che ti ammali.» disse, prima di infilargli un cappellino di lana blu e raggiungere i suoi compagni di squadra in campo per il riscaldamento.
Harry si sistemò meglio il cappello sul capo e non poté evitare di sorridere volgendo lo sguardo al campo ora gremito di giocatori: con qualcosa di suo addosso e i cenni che ogni tanto Louis gli rivolgeva per assicurarsi che stesse bene e non si annoiasse troppo, fare il tifo per lui si rivelò più spontaneo e semplice che mai.
*
Louis aveva sempre amato il clima complice e scherzoso che si creava nello spogliatoio dopo una partita di calcetto.
C'era cameratismo tra lui e i suoi compagni di squadra, c'erano gli scherzi e le battute e ogni dissapore veniva lasciato sul campo e circoscritto alla singola partita che avevano disputato. Quella sera avevano perso, ma Louis era stato felice di segnare almeno un goal e, soprattutto, di ascoltare Harry esultare sugli spalti e vederlo sbracciarsi per incoraggiarlo ancora e ancora. Sperava che la sua presenza fosse passata inosservata per non scatenare la curiosità altrui, ma sapeva che non sarebbe mai stato così perché Harry difficilmente si poteva ignorare.
«Non sapevo che avessi portato con te il tifo stasera.» ridacchiò Liam, gettando la sua divisa nel borsone nero. «Com'è avere un cheerleader personale?»
Louis ridacchiò. «Non lo sapevo neanche io, in realtà. È venuto a trovarmi in clinica e ha aspettato persino che finissi il mio turno, non potevo farlo tornare a casa senza aver passato un po' del mio tempo con lui.» spiegò, mentre strofinava i capelli ancora umidi dalla doccia con un asciugamano bianco. «Inoltre, avere un cheerleader personale è davvero bello. La prossima volta gli dirò di fare il tifo anche per te!» aggiunse con una linguaccia.
«Ci sarà una prossima volta?»
«Non lo so. Insomma, non sapevo neanche che ci sarebbe stata questa di volta. Non abbiamo mai parlato di quel bacio o di quella sera, lui è tornato a Holmes Chapel e io l'ho lasciato andare. Poi, l'ho ritrovato in clinica con quel sorriso e quegli occhi verdi che mi guardavano speranzosi e non mi sono posto alcuna domanda.»
«E hai fatto bene, Lou.» Liam gli sorrise, infilandosi il cappotto. «A volte, soprattutto nel tuo caso, potrebbe essere positivo non ragionare troppo o rimuginare sulle cose.» Prese il borsone e gli fece cenno di seguirlo. «Andiamo, non far aspettare troppo Harry soltanto perché vuoi farti bello per lui.»
Louis alzò gli occhi al cielo e indossò la giacca di jeans imbottita, senza neanche sistemare la sua frangia scompigliata perché sarebbe stata una lotta persa in partenza. Salutarono gli altri e si diedero appuntamento al venerdì successivo, prima di raggiungere ancora una volta il campo, dove Harry li aspettava infreddolito.
«Scusa per l'attesa...» esordì dispiaciuto, mentre lui scuoteva la testa e alternava lo sguardo curioso dal suo viso a quello dell'amico. «...ma Liam non la smetteva di sistemarsi i capelli.» continuò per poi incassare una gomitata giocosa nello stomaco da parte sua. «Anche se non si direbbe, è il mio migliore amico.»
«Io sono Harry.» disse, stringendogli la mano. «Hai un pub, vero? Louis me ne ha parlato tempo fa.»
«Spero che te ne abbia parlato bene dal momento che ci beve gratis quando vuole.»
«Me ne ha parlato sempre benissimo. Il tuo cliente migliore è soddisfatto, non preoccuparti.» ribatté, reggendogli il gioco. «Bella partita, comunque!»
«Già, peccato per i cinque goal che la squadra avversaria ha segnato.» ridacchiò Liam. «Ti piace giocare a calcio? Potresti provare a giocare con noi la settimana prossima.»
Louis vide Harry boccheggiare per pochi istanti, prima di umettarsi il labbro inferiore con la lingua e grattarsi la nuca, e decise di intervenire per liberarlo dall'impaccio. «Non credo che Harry abbia tempo o voglia...»
«No, mi piacerebbe molto. È che il fisioterapista mi ha consigliato di non fare grandi sforzi e, non essendo allenato, per me anche fare un'intera rampa di scale senza fermarmi è un'impresa al momento.» spiegò nervoso. «Figuriamoci correre per un campo di calcio. E poi non sono così bravo...potrei farvi sfigurare.»
Liam gli poggiò una mano sulla spalla in modo amichevole e disse «ehi, abbiamo appena perso la terza partita consecutiva: come potresti farci sfigurare?» strappandogli una risata genuina. «Non appena ti rimetterai completamente, magari, potresti venire ad allenarti di tanto in tanto.»
Harry annuì e gli sorrise, ringraziandolo per la proposta e la sua gentilezza, ma Louis non poté fare a meno di chiedersi se sarebbe mai accaduto per davvero: dopotutto, nonostante l'invito di Liam a non pensare troppo, sapeva che l'altro appartenesse a Londra e non a Manchester o alla vicina Holmes Chapel e che non si sarebbe mai allenato con loro, non sapeva neanche se lo avrebbe visto ancora una volta.
«Lou?» lo ridestò Harry. «Allora, andiamo?»
«Ehm, sì.» Si schiarì la voce, prima di rivolgere la sua attenzione a Liam. «Vieni anche tu con noi?»
Dì di no, dì di no, dì di no si ritrovò a sperare, mentre Liam lo guardava complice e scuoteva la testa. Spiegò di dover passare al pub e dover rivedere alcune vecchie fatture, ma augurò loro di divertirsi, prima di salutarli con un abbraccio amichevole e rivolgere a Louis un occhiolino. Quest'ultimo sperò ardentemente che Harry non lo avesse notato, ma dal modo in cui sorrideva e guardava imbarazzato le sue scarpe lo aveva fatto eccome.
«Allora, dove andiamo a festeggiare la vostra terza sconfitta consecutiva?» chiese Harry divertito. «Mi sembra quasi un record.»
«Vorresti dire dove andiamo a festeggiare il mio unico goal.» precisò con aria solenne. «Comunque, ho un rituale tutto mio per il post partita del venerdì e dovresti sentirti onorato di poter partecipare dopo quello che hai osato dire.»
«E quale sarebbe questo tuo rituale?»
Louis si godette quella sua espressione tanto confusa quanto adorabile, prima di prenderlo sottobraccio e guidarlo verso la fermata dell'autobus.
«Lo vedrai tra poco.»
*
Harry non avrebbe mai pensato di ritrovarsi a mangiare zuccheri e carboidrati con Louis quel venerdì sera, sicuramente non dopo la partita di calcio alla quale aveva assistito.
L'altro lo aveva trascinato in una bakery del centro per ordinare della cioccolata calda, un paio di scones e un grande biscotto con gocce di cioccolato e lui si era ritrovato a guardarlo scettico per tutto il tempo della sua ordinazione, prima di prendere una tazza di caffè e un semplice panino. Il locale era senza troppe pretese e dallo stile industriale, ma accogliente grazie al profumo invitante delle leccornie che vendevano e alla gentilezza dei camerieri.
«Mi guardi come se avessi commesso un tradimento imperdonabile alla Corona.» affermò Harry dall'altra parte del tavolo, mentre Louis gustava quel biscotto che aveva le dimensioni del suo viso e lo guardava con sospetto.
«Ed è così, dopotutto.»
«Si può sapere cosa c'è?»
«C'è che bevi caffè.» ribatté con un'espressione disgustata sul volto. «Nero e senza zucchero.»
«E cosa c'è di male?»
«C'è di male che io non sopporto il caffè.» Arricciò il naso e prese un sorso della sua cioccolata calda. «Una volta a casa mia, quando ero piccolo, la caffettiera è esplosa all'improvviso e tutto il caffè è finito sulle pareti della cucina, su di me e su mia madre.» Si fermò soltanto per lanciargli un'occhiataccia perché aveva cominciato a ridacchiare e non aveva intenzione di smettere presto. «Non ridere, è stato un incubo.»
«Mi dispiace ascoltare il tuo trauma infantile per il caffè, ma io lo amo. Non sarei neanche qui se non ci fosse il caffè, mi tiene sveglio dal primo anno di università e continua a fare bene il suo lavoro ancora oggi.»
«Esiste il tè per quello, non è normale preferire il caffè al tè se sei inglese!»
«E per te, invece, è normale ingurgitare tutti questi dolci dopo aver fatto sport?»
«Devo recuperare le forze e non puoi criticare il mio rituale visto che sei un profano!» sbuffò Louis quasi offeso dalle sue affermazioni. «Non dirmi che sei una di quelle persone che non si concedono neanche uno sgarro e vanno a controllare gli ingredienti sul retro delle confezioni e bla bla bla.»
«Bla bla bla? Vuoi forse dire "essere consapevole di ciò che mangio"? E comunque no: mi concedo molti sgarri, ma mi piace viziare il mio corpo con del buon cibo e del buon vino invece di riempirlo con dolci pieni di burro e cioccolato.» precisò. «Mi piace molto cucinare.»
«Ti piace o sai farlo?»
Harry alzò gli occhi al cielo e si corresse. «Sono molto bravo a cucinare.»
«E sei anche molto modesto a quanto pare. Qualcuno ti ha insegnato a farlo o è una dote naturale?»
«Dopo il mio diploma, la mamma ha portato me e Gemma in Italia. Abbiamo visitato la Toscana per pochi giorni, poi Roma per una settimana e ci siamo fermati il resto del mese in Puglia, precisamente in una piccola masseria a conduzione familiare sul tacco dello stivale. Credo di essermi innamorato della buona cucina proprio lì.» Harry sorrise, ricordando tempi più spensierati. «C'era una signora che era ben felice di avermi tra i piedi e insegnarmi le basi della cucina durante i pasti e da quel momento in poi non ho più smesso di cucinare e sperimentare.»
«Sembra davvero bello.»
«Lo è stato, anche se da quel momento Zayn e Niall approfittano delle mie capacità culinarie e mi tocca sempre sfamarli e lavare anche i piatti.»
«Io e le mie sorelle, invece, non cuciniamo quasi mai. Insomma, la nonna ha il monopolio della cucina a Doncaster e nell'appartamento di Manchester io e Charlotte la usiamo poco e niente...conta scaldare gli avanzi dell'asporto della sera prima?» chiese Louis, pur conoscendo già la risposta, mentre Harry scuoteva la testa divertito. «Quando c'era mia madre era tutta un'altra storia: la domenica lei iniziava a cucinare dal mattino e tutti noi cercavamo di aiutarla il più possibile, anche se poi finivamo col bruciare qualcosa o con l'aggiungere troppo sale o pepe.» aggiunse, prima di deglutire e abbassare lo sguardo sulla sua tazza quasi vuota. «Scusami, i-io...»
Harry non lo lasciò finire, perché gli coprì la mano con la sua e gliela strinse forte. Ancora una volta, non ci fu alcun «mi dispiace» o «ti capisco» perché nessuno avrebbe potuto comprendere il dolore o la tristezza che aveva nel cuore. Louis rispose alla sua presa, alzò lo sguardo e gli sorrise, ringraziandolo silenziosamente per la sua presenza mai ingombrante, mai indelicata.
«Non devi scusarti, puoi parlare di lei o di quello che facevate quanto vuoi con me.»
«Mi piacevano molto le nostre domeniche insieme non tanto per quello che mangiavamo, ma per l'atmosfera che si creava durante la preparazione del pranzo. La mamma metteva le sue canzoni preferite ad alto volume, le cantava e le ballava in modo buffo e noi la guardavamo sempre un po' scettici prima di unirci a lei e ridere a più non posso.» raccontò, gli occhi gli brillavano di commozione e di gioia. «La nonna diceva sempre che con lei in casa ci fossero sei bambini e non cinque e finiva sempre per prendere in mano le redini della situazione, altrimenti non avremmo mai mangiato qualcosa di decente.»
«Sembra bello, Lou.»
«Era davvero bello.»
«Non lo fai più perché ti ricorderebbe l-lei?»
«Johannah, lei si chiamava così.»
«...perché ti ricorderebbe Johannah?»
«Se ragionassi così non dovrei neanche respirare, Harry.» sospirò. «Non c'è cosa, gesto o profumo che non mi ricordi mia madre sinceramente. Basta guardarmi allo specchio per rivedere lei perché abbiamo gli stessi occhi, sono un suo marchio di fabbrica praticamente. Ma cucinare la domenica mattina con tutti noi intorno a lei era una cosa soltanto sua e non voglio prendere il suo posto agli occhi delle ragazze. Non voglio sostituirla, anzi, non potrei sostituirla perché non sarei mai alla sua altezza.»
«Nessuno ti chiede di sostituire tua madre, né il suo ricordo nel cuore delle tue sorelle. Tuttavia, potresti affiancarlo. Credo che loro quattro sarebbero felici di fare con te qualcosa che facevano soltanto con lei. Cucinare tutti insieme la domenica mattina, magari ancora assonnati e già affamati, potrebbe essere un bel modo per ricordare lei e quei tempi felici. Non credi?»
Louis annuì lentamente, come se stesse valutando realmente quella proposta, e per Harry era già una vittoria. «È possibile.»
«E...Lou?»
«Sì?»
«Tu sei all'altezza di tutto.» affermò dolcemente, perché era certo che ogni tanto qualcuno dovesse ricordarglielo. «E se proprio vuoi fugare ogni dubbio o incertezza, un giorno, ti farò un ripasso veloce delle basi in cucina, va bene? Così non avvelenerai nessuno.»
«Ti arrenderai dopo il primo minuto.»
Harry sbuffò divertito, prima di giocherellare con le sue dita e chiedere «non hai imparato proprio nulla in questi mesi?». Poi, le intrecciò alle sue, quasi a suggellare quella che sembrava tanto una promessa. «Io non mi arrendo mai.»
*
Il treno di Harry era arrivato da qualche minuto al binario, ma sarebbe partito soltanto più tardi.
Louis lo guardava fare il biglietto e sperava segretamente che perdesse quella corsa perché gli era piaciuto fin troppo il tempo trascorso insieme e non era pronto a salutarlo. Al di fuori della clinica non era più la persona scontrosa che aveva imparato a conoscere e a capire: Harry era un ragazzo solare, gentile ed empatico e Louis adorava scoprire nuove sfumature del suo carattere pian piano. Aveva imparato che gesticolasse molto con le mani, che arricciasse spesso il naso quando era in imbarazzo o che la fossetta sulla guancia sinistra fosse più marcata quando i suoi sorrisi erano genuini e provenivano dal cuore. Aveva imparato ad apprezzare tutto o quasi di quel nuovo o forse vecchio Harry, persino il modo adorabile in cui indossava il cappello di lana che gli aveva prestato qualche ora prima e che sua nonna aveva lavorato a maglia.
Harry tornò da lui sorridente con il suo biglietto tra le mani e un passo un po' affaticato soltanto qualche minuto più tardi.
«Credi che sia stata una buona idea venire qui oggi?» gli chiese Louis, preoccupato per le sue condizioni fisiche. «Insomma, abbiamo camminato tanto e tu sei ancora in via di recupero.»
«Sì, lo credo al cento per cento. Non preoccuparti per la mia gamba, non è niente che il mio fisioterapista e qualche antinfiammatorio non possano curare. Avevo bisogno di trascorrere un pomeriggio così con te.»
«Così come?»
«Spensierato, Lou.» rispose, arrossendo un istante dopo. «Le giornate a Holmes Chapel scorrono lentamente e sono piuttosto pesanti tra mio padre che mi chiama quotidianamente per sapere quando tornerò a Londra e mia madre che non mi lascia scendere neanche le scale per paura che cada e finisca di nuovo in coma. Inoltre, cerco di stare al passo dei miei colleghi e di seguire qualche lezione o laboratorio a distanza, ma non è così facile mantenersi concentrati. Gemma e Robin cercano di alleggerire la situazione in qualunque modo, con una passeggiata o un buon dolce, ma questo pomeriggio trascorso con te è stata una boccata d'aria fresca e ti ringrazio.»
«E per cosa? Insomma, non ho fatto granché.»
«Per non avermi mandato via quando mi hai visto sul tetto della clinica dato il modo in cui ci siamo salutati l'ultima volta. Per avermi mostrato una parte della tua vita su quel campo da calcio e avermi fatto conoscere il tuo migliore amico e qualcosa in più sulla tua famiglia. Anche per avermi fatto partecipare al tuo rituale post-partita.» ridacchiò, prima di tornare più serio. «Insomma, per tante cose. Ma, soprattutto, devo ringraziarti per avermi fatto sorridere come non facevo da tempo.»
Louis abbassò lo sguardo imbarazzato, ma si abbandonò a un sorriso timido perché non gli capitava spesso di ascoltare quelle parole. «Non devi ringraziarmi, è stata una boccata d'aria fresca anche per me e mi piacerebbe farlo ancora.» confessò. «Ora va' e non perdere il tuo treno, altrimenti tua madre sarà in pensiero e non ci sarà neanche una prossima volta.»
«Hai ragione. Allora, a presto.»
Lo strinse inaspettatamente in un abbraccio, un abbraccio di un solo istante, ma che a Louis sembrò durare una vita. Forse, perché non toccava in quel modo qualcuno che gli interessava da anni. Forse, perché Harry aveva un modo speciale di abbracciare. Lo inglobava tra le sue braccia forti e lo stringeva al suo petto quasi a non volersene separare, si piegava di qualche centimetro per raggiungere la sua altezza e far sfiorare le loro guance arrossate e sorrideva per tutto il tempo.
«Ciao, Harry.»
Harry gli rivolse un ultimo sorriso prima di voltarsi e dirigersi verso le porte aperte del vagone: era quasi sul punto di varcarne la soglia, quando si fermò e scosse la testa. Louis, che lo guardò incuriosito per tutto il tempo, strabuzzò gli occhi quando lo vide correre nella sua direzione con un sorriso furbo sulle labbra.
«Cosa è successo?»
«Il tuo cellulare!»
«Cosa?»
«Ho appena realizzato che non ci sarà mai una "prossima volta" se non ti do il mio numero di telefono. Non possiamo affidarci al caso e non siamo più nell'Ottocento, quindi dammi il tuo cellulare così posso lasciarti il mio numero.»
«C-certo.» balbettò, tirando fuori dalla tasca il cellulare e consegnandoglielo. «Non ci avevo pensato.»
«Ed ecco perché ci sono io, Lou.» rispose Harry, dopo aver salvato il suo contatto sotto una semplice "H". «Ora hai il mio numero e, mi raccomando, fanne buon uso.»
Louis annuì, ma non ebbe neanche il tempo di ribattere perché una voce metallica annunciò l'imminente partenza del treno. Harry sospirò dolcemente, prima di prendergli il volto tra le mani e premere le labbra sulle sue in un bacio sentito e desiderato. Durò pochi istanti, giusto il tempo di percepire il sapore del caffè sulle sue labbra e poi ancora una volta il vuoto, ma fu così intenso da lasciarlo senza fiato anche quando l'altro saltò sul treno e scomparve dalla sua vista poco dopo. Premette le mani sulle sue guance ancora calde per raffreddarle, ma tutto ciò a cui riuscì a pensare fu la sensazione dei suoi palmi e dei suoi anelli sulla pelle.
Quel rossore non svanì neanche quando si incamminò verso casa, lo vide ancora sulle sue guance quando si specchiò nelle vetrine dei locali e dei negozi e ridacchiò perché non lo vedeva lì da molto, perché da tempo qualcuno non colorava il suo mondo ormai in bianco e nero e Harry c'era riuscito.
Si sentì in un turbinio di colori ed emozioni e non poté non chiedersi quando lo avrebbe rivisto la prossima volta, quando avrebbe trovato il coraggio di scrivergli un semplice «ciao» o chiamarlo per sentire ancora la sua voce. Con quei pensieri in testa, giunse nel suo appartamento di Oxford Road e non si accorse neanche di aver ancora stampato quel sorriso soddisfatto sul volto fino a quando sua sorella non glielo fece notare.
«Ehi.» lo salutò Charlotte, accoccolata sul divano con una ciotola di pop-corn in grembo e impegnata a guardare un reality in televisione. «Giornata buona?»
«Diciamo piena di sorprese.» rispose, mentre la raggiungeva e si sistemava al suo fianco. «Harry è venuto in clinica oggi.»
«Cosa? Non sta di nuovo male, vero?»
«No, no, è venuto in clinica a trovarmi, soltanto per vedermi. Insomma, ha assistito alla mia partita di calcio, ha conosciuto Liam, mi ha visto spazzolare una cioccolata calda, due scones e un biscotto che aveva le dimensioni della tua faccia e, a fine serata, prima di salire sul suo treno, mi ha baciato comunque.»
«Ti ha baciato nonostante le tue pessime abitudini alimentari? Questo è vero amore!»
«Lottie, andiamo! Non prendermi in giro, era per dire che mi ha baciato ugualmente dopo aver visto quanto sia noiosa e patetica la mia vita.»
«Possiamo tornare a un secondo fa, quando eri ancora felice per quel bacio e non ti piangevi addosso inutilmente?» sbuffò lei, alzando gli occhi al cielo. «Non riesci a goderti proprio niente tu.»
«Lo so, ma funziono così e non posso farci nulla.» affermò, poggiando il capo sulla sua spalla. «Comunque, gli ho prestato il cappellino blu che mi ha fatto la nonna e non gliel'ho chiesto indietro prima che andasse via.»
«È un pegno d'amore?»
«Forse, in ogni caso stava meglio a lui che a me. Credi che la nonna me ne farà un altro?»
«La nonna ne ha già pronti altri cento, Lou. È successo altro durante il vostro appuntamento oppure mi hai detto tutto?»
«Non era un vero e proprio appuntamento. Comunque, abbiamo parlato anche della mamma.»
«Davvero?»
«Davvero, mi piace parlargliene.» confessò. «L-lui non mette su quell'espressione dispiaciuta che hanno tutti, anzi. Non fa altro che ripetermi quanto siamo coraggiosi e forti tutti noi e lo dice con il sorriso, un sorriso che sa più di ammirazione che di compassione.»
«Mi piace questo Harry. Sembra un bravo ragazzo, Lou.»
«Già, lo è. E mi ha anche fatto pensare a una cosa.»
«E cosa? Non mi piaci quando pensi troppo, lo sai.»
Louis ridacchiò. «Questa, però, è una cosa bella.» premesse. «Cosa ne dici di cucinare insieme questa domenica mattina? Una specie di prova generale, prima di tornare a Doncaster e farlo anche con le altre tre.»
«Come facevamo quando c'era anche la mamma?»
«Sì, un vero e proprio pranzo della domenica con balli intorno all'isola della cucina e mestoli usati come microfoni.» rispose, alzando il volto dalla sua spalla e guardandola speranzoso. «Cosa ne dici?»
«Affare fatto.» affermò lei sorridente, prima di tornare a guardare la televisione e dire «i piatti, però, li lavi tu».
Louis alzò gli occhi al cielo, ma non si lamentò. Si accoccolò ancora al suo fianco e le rubò qualche pop-corn prima di commentare quel reality in televisione con il petto un po' più leggero. Avrebbero rispolverato le ricette di Johannah, avrebbero ballato intorno all'isola della cucina le sue canzoni preferite e avrebbero affiancato ricordi più recenti a quelli che appartenevano a un passato sbiadito.
Ovunque si trovasse al momento, sapeva che sua madre ne sarebbe stata felice.
Abbiamo fatto qualche passo in avanti o la strada è ancora lunga per quei due?
Non resta altro che scoprirlo nel prossimo capitolo, che ci riserverà diverse sorprese!
Spero che il capitolo nella sua semplicità vi sia piaciuto. Fatemelo sapere con un commento qui o su Twitter con #isytcst.
A presto,
Lucia
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