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CAP 4 - PARTE V

4.10

"Non vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo, ma come se fosse il primo."

Bethany aveva sentito sussurrare questa frase a Ted da suo padre, in uno dei suoi ultimi giorni di vita. Non aveva mai perso la lucidità e il sorriso, nonostante i dolori e le dosi di morfina che lo intontivano. Una forza d'animo che lei non credeva di avere.

Una punta di gelosia verso quel rapporto nonno-nipote così potente e genuino la invase, prima di scoppiare in lacrime. Nonostante l'età, era sicura che il figlio fosse consapevole di quanto stava accadendo a Richard e questo l'aveva gettata ancor di più nella disperazione, perché non si sentiva abbastanza forte da consolarlo.

Per lei la morte rappresentava la fine di tutto, per altri un nuovo punto di partenza, ma che prove avevano che lo fosse, se non la fede? Doveva dare ascolto ai religiosi?

Si stava aggrappando a quei dolorosi ricordi per rifuggire il presente. Cosa le stava accadendo? Le aveva viste solo lei quelle figure sanguinare all'Università? O anche Tomáš? Provò a chiamare David ma senza risultato. Aveva bisogno di lui, doveva esserci una spiegazione razionale agli ultimi eventi, alla minaccia che aveva ricevuto durante il tragitto per raggiungere l'ateneo. Forse uno spiacevole scambio di persona. Ma Josef? Come poteva giustificare il suo comportamento?

Non doveva essere irrazionale, farsi prendere dal panico. Sì rigirò tra le mani il libro che le aveva lasciato il padre in eredità. Accarezzò la F, domandandosi cosa volesse significare. Cercò di capire se ci fosse un pulsante per sbloccare la sorta di lucchetto che impediva di sfogliarlo. Non voleva forzarlo o rovinarlo in alcun modo, ma era tipico del suo vecchio complicare le cose.

«Non hai mai amato le soluzioni semplici, vero papà?» Sussurrò con dolcezza.

Lo poggiò sul tavolino posto di fronte al divano dove sedeva. Si sentiva troppo stanca, non aveva più voglia di pensare a complotti o stupidaggini simili. Si chiese se Richard avrebbe apprezzato di più se lo avesse aperto nella sua vecchia soffitta a Londra, magari assieme a Ted e David. Forse avrebbe convinto il figlio a mostrarle l'altro libro in cambio, dato che fino a quel giorno si era addirittura rifiutato di farglielo toccare. Un ricatto non molto etico da parte di una madre.

Entrò in bagno per farsi una doccia, lavarsi i denti e andare a letto. L'indomani si sarebbe dovuta alzare presto per andare all'aeroporto e avrebbe analizzato tutti gli avvenimenti a mente fresca. L'acqua tiepida le scorreva sul corpo, portando via tutte le scorie della giornata. Indugiò per un altro minuto sotto il getto, chiuse il rubinetto e si avvolse con l'asciugamano giallo ocra dell'hotel. Non era male, piuttosto morbido e accogliente.

Udì un rumore metallico, come se qualcuno schaivicciasse con una serratura. Rimase ferma in ascolto per un attimo, poi si affacciò dal bagno, da cui riusciva a vedere la porta d'entrata all'alloggio. Fissò il pomello, per cogliere un'eventuale rotazione; le parve un'eternitá, avvertì le gocce di sudore imperlarle la fronte. Il silenzio fu rotto da un tonfo secco che la fece sobbalzare. Si era sbagliata, avevano forzato una delle finestre. Trasse un respiro profondo e si posizionò di fianco alla soglia del bagno per non farsi scorgere. Spense la luce, il rumore che emise l'interruttore le sembrò lo sparo di una pistola.
Si accorse che aveva una mano sul cuore, le batteva così forte che temette potesse essere avvertito dall'estraneo che era penetrato nella sua stanza. Non captava alcun movimento, il panico la stava per sopraffare. Non aveva niente con cui difendersi, l'oggetto più pesante a portata di mano era un phone e non le sembrava un gran piano.

Qual maledetto hotel non era mai stato così silenzioso, dove si trovavano tutti gli studenti? Avrebbe voluto urlare ma un groppo alla gola glielo impediva, la stava soffocando, faceva fatica anche a respirare. Si sentiva come un animale in trappola, non poteva rimanere lì con le spalle al muro, l'avrebbe comunque trovata. Le pareva di cogliere il suo respiro in avvicinamento, lento, roco, malsano. Non aveva più scelta.

Piroettò con uno scatto e fendette l'aria con il phone stretto nella mano sinistra. Un colpo violento, inferto dall'alto in basso, il braccio le andò giù, l'oggetto si fracassò a terra mancando l'obiettivo. Rimase paralizzata davanti all'entrata del bagno, lo specchio rifletteva la sua immagine da dietro pronto a riprendere la prossima scena.
Chiuse gli occhi, in attesa che chiunque fosse entrato l'aggredisse. La luce si accese nel salottino, filtrò appena dalle sue palpebre serrate. Senza alcun senso, se non dettato dalla disperazione, iniziò a sferrare pugni verso il niente e a urlare. Finalmente la voce le era uscita, così come le lacrime dagli occhi.

Sbatté il ginocchio contro il mobiletto basso appoggiato alla parete dell'ingresso che separava il reparto notte dalla sala. Il dolore le fece aprire gli occhi, la luce abbagliante del lampadario la stordì, come i fari di una macchina verso un animale selvatico in procinto di attraversare la strada. Non la ricordava così intensa.

Un fruscio attirò la sua attenzione, abbassò lo sguardo schermandosi gli occhi con la mano, li spalancò spaventata, la luce non le dava più fastidio. Le pagine del libro si agitavano avanti e indietro, sembrava che un vento impazzito le sospingesse, ma le finestre erano chiuse. Nessuno le aveva manomesse. Lo fissò sbalordita, i fogli cessarono di agitarsi, si fermarono di colpo.

«Piccolo cerbiatto.»
«Papà?»
«Segui il tuo istinto.»
«Papà, che sta succedendo?» Si sentiva di nuovo soffocare, non poteva essere reale.
«Segui la musica.»

La lampadina sopra la sua testa gracchiò, il buio si impossessò della stanza, a illuminarla solo il display del cellulare che vibrava con un numero sconosciuto. Credeva di vivere un incubo, una sorta di sospensione della realtà. Prese il telefono, chiunque fosse al di là dell'etere non accennava a rassegnarsi nel chiamarla.

«Chi è?»
«Bethany?» Nell'udire una voce femminile tirò un sospiro di sollievo. Aveva l'assurda paura che a chiamarla fosse il padre, ma lui era morto. Morto. Non esistevano voci dall'aldilà, anime sospese, speranze di vita eterna, soltanto la disperazione che sfociava in speranza e in quella inutile parola che corrispondeva alla "fede".

«Sono Alexandra, scusa se ti disturbo a quest'ora.»
«Come hai il mio numero?»
«Me l'ha dato tuo zio.»
«Non è mio zio!»
Il silenzio calò dall'altro capo del telefono. Il libro giaceva immobile, aperto circa a metà. Le frasi che le era sembrato di sentir pronunciare da suo padre erano scritte sui fogli. Controllò la porta d'entrata e la trovò chiusa a chiave.

«Ho bisogno di parlarti in privato, al commissariato.»
«Domani mattina parto. Non ho intenzione...»
«È importante. Ho bisogno del tuo aiuto. Me lo devi!»
«Pare che devo sempre qualcosa a qualcuno in questa città. Forse anche a me stessa.» Afferrò il libro per sfogliarlo, per scoprire se ci fossero altre frasi tra le pagine, ma si chiuse di scatto. Udì lo stesso rumore metallico di poco prima, che aveva confuso con la serratura della porta.
"Segui il tuo istinto", quella frase non le voleva uscire dal cervello.

«Per favore.» Insistette Alexandra. La sua voce appariva spossata, Bethany non capiva in che modo potesse aiutarla.

"Segui il tuo istinto". No, la sua amica non era stanca, ma disperata.

«Dovrò risarcire il phone all'hotel.»
«Cosa?»
«Lascia stare, ci vediamo domani al commissariato.»

Riattaccò senza darle il tempo di rispondere. Le parve di vedere la F metallica della copertina del libro illuminarsi. Ma lei non credeva a quelle cose.

4.11

Alexandra le aveva inviato un messaggio con l'indirizzo, ma Bethany sapeva come raggiungere il commissariato di polizia di Praga 1.
Un edificio austero, storico, un po' cupo a causa dell'ingrigimento dell'intonaco causato dallo smog. Osservò il quadro attaccato alla parete d'entrata, con la piantina geografica dove era evidenziata l'area di responsabilità del dipartimento. Prese il cellulare dalla tasca, David non accennava a farsi vivo, nonostante l'avesse chiamato più di una volta. Iniziava a preoccuparsi, non era la prima volta che diventava latitante per motivi lavorativi, però di solito avvertiva quando non poteva essere raggiungibile per motivi tecnologici. Ma Torino non aveva certo problemi di linea telefonica.

Alla reception un ragazzo in divisa dalla corporatura ossuta e molto giovane, l'accolse gonfiando il petto appena la vide.
«Buongiorno, desidera?»
«Desidera me!» L'ispettrice l'attendeva sulla soglia della porta che si apriva sul corridoio verso gli uffici. «Ciao, Bethany! Seguimi.»

Il novellino si sforzò di non accompagnarla con lo sguardo mentre gli dava le spalle.
«Non ti distrarre, Marek!»
«Sissignora!»
Bethany soffocò una risata. I jeans stretti ne mettevano in risalto le gambe, il resto era ben coperto dall'elegante giacca color beige che le arrivava oltre la vita.

«Meno male hai le scarpe basse, altrimenti gli veniva il torcicollo.»
«Non sono un po' troppo matura per lui?»
«Questi ragazzotti sbavano più di un San Bernardo davanti a poppe e culo che si muovono.»
«Ho sentito infatti degli schizzi...»

Lo scambio di battute regalò a entrambe il ricordo di un passato che credevano perso per sempre. Lo sguardo d'intesa, l'espressione divertita dei momenti in cui, da ragazze, sceglievano la vittima maschile da prendere in giro.

Bethany scandagliò la stanza, troppo impersonale per essere l'ufficio di Alexandra. Un grande tavolo centrale con sedie in legno poco curato, mobiletti bassi con le ante scorrevoli in metallo grigio satinato, arredavano l'ambiente. Appesi al muro i quadri di una Praga del passato i cui ricordi sbiadivano come le foto. Si tolse la giacca, lì dentro faceva un caldo infernale, i termosifoni dovevano essere al massimo.

«Il mio ufficio è al terzo piano, ma c'è troppo gente. Qui avremo più privacy.»
«Perché mi hai fatto venire?»
«Ho notato la tua reazione alla vista dei simboli disegnati sul muro.»
«Ero solo stanca.»
«Bethany...»
«Cosa vuoi? Le mie scuse?»
«Ho bisogno di te.»
Alexandra prese uno dei fascicoli appoggiati sul tavolo e lo aprì. Foto di corpi accasciati a terra si sparpagliarono sulla superficie, in una di esse riconobbe il "Ponte Carlo".

«Perché mi fai vedere queste foto?»
«Non sono morti. Per adesso, almeno.»
Bethany osservò quei volti smarriti con gli occhi spalancati, persi nel vuoto. Sembravano bambole abbandonate vicino ai cassonetti della spazzatura, figure di plastica invece che corpi umani.

«Cosa c'entro io con questo?» Non distolse gli occhi da quelle diapositive spoglie di vita, mentre glielo chiese.
«Guarda meglio.» Le indicò alcune delle foto dove il dettaglio appariva più evidente. Sui polsi delle vittime si intravedevano dei disegni stilizzati, dai tratti fini e neri di una stilo o un pennarello a punta fine.
«Sono i soliti simboli, vedi? Gli stessi che abbiamo trovato all'università.» 
«Anche sul ragazzo?»
«In realtà no. È come se avesse, o avessero, cambiato modus operandi. Sempre che ci sia uno schema in quello che stanno facendo.»

Bethany li guardò con più attenzione, prese alcune foto, il tremolio della mano, seppur appena accennato, tradiva il suo stato d'animo.
«Non vedo come possa esserti utile, mi dispiace.»
«Perché non è la prima volta che li vediamo, giusto? E poco dopo abbiamo litigato a causa di David!»
«Ancora con questa storia, Alexandra? Io non c'entro niente e tu lo sai, va bene?»

Scagliò via le fotografie, alcune volarono sul tavolo, altre a terra. Era già sulla soglia della porta quando la voce ferma dell'amica la immobilizzò.
«No, non va bene per niente! Perché io ti ho visto mentre li disegnavi!»

4.12

Anche Alexandra non credeva alle coincidenze, forse era l'unico punto in comune che aveva con David. Poche settimane dopo che lui e Bethany avevano iniziato a frequentarsi, quegli strani disegni comparvero negli alloggi dell'Hotel University dove abitavano. In un primo momento sembrava una bravata di qualche studente un po' troppo appassionato di esoterismo, con il passare dei giorni l'atmosfera aveva iniziato a diventare pesante, alcuni ragazzi li avevano trovati pitturati con il sangue nelle proprie camere.

Il padre di David era un noto studioso di storia antica e aveva la fama di essere un tipo eccentrico. Il figlio, da degno erede sembrava, almeno all'inizio, volesse ricalcare le sue orme. Ad Alexandra non piaceva, per niente, e i motivi erano in parte sentimentali, ma a Bethany non lo aveva mai confessato.

L'ultima sera in cui aveva litigato con l'amica a causa di David, entrò nella sua stanza per chiederle scusa e la trovò in uno stato di trance a disegnare strane figure sul muro, con il proprio sangue. Dopo anni, erano di nuovo l'una di fronte all'altra e stavano litigando come se tutto quel tempo non fosse mai passato.

«Tu, cosa? Tu eri solo solo gelosa di me e David!»
«Ok, bene. Allora spiegami queste!» Estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni alcune fotografie e gliele gettò davanti.
«Hai organizzato tutta questa messa in scena per accusarmi di un evento passato che non ho commesso?» Insistette Bethany.
«Guarda le foto.»

Spostò lo sguardo controvoglia, sembrava che una forza esterna le impedisse di esaminarle. Nella prima, lei era in piedi che contemplava i due simboli con aria assente. Del sangue le macchiava il braccio ma non si capiva dove fosse ferita. Le altre foto erano primi piani dei disegni sul muro e su Bethany seduta sopra il letto, la schiena appoggiata alla parete e il volto rigato dalle lacrime.

«Non ricordi nulla? Non mentirmi, Beth! Basta con le bugie, con le cose non dette!» Il tono di voce di Alexandra appariva più una supplica che un atto di accusa verso l'amica.
«Può essere stato chiunque...»

«Quando sono entrata nella stanza le stavi disegnando tu! Con il tuo sangue! Hai ancora le cicatrici, scommetto!»
Le agguantò il braccio destro, la strattonò a sé, ma appena si accorse che non le opponeva resistenza lasciò la presa. Bethany si tirò su la manica della maglietta bianca che indossava, la parte superiore dell'avambraccio era segnato da piccole cicatrici, alcune avevano avuto bisogno di qualche punto. Il polso non presentava alcun segno.

«Non ricordo niente, non ti sto mentendo.»
«Non mi hai quasi più rivolto parola da quel giorno. Mi evitavi come se...»
«Mi vergognavo!» La interruppe. «Poi tu ce l'avevi con David e questo non facilitava la comunicazione tra noi.»
«La nostra amicizia non può essere finita per un ragazzo! Io ti ho coperto, ho ripulito la stanza, non ho mai detto niente a nessuno! Non prendermi ancora in giro! Basta!» Non riuscì a trattenere la rabbia. La mano a pugno chiuso colpì la superficie del tavolo, ignorò il dolore ma non sapeva quanto ancora sarebbe stata in grado di trattenere le lacrime.

«Tu hai sempre pensato che David fosse coinvolto, vero?»
«Dimmelo tu, Beth.»
«Non mi risponde da ieri.»
«Devi dirmi quello che sai, qualsiasi cosa può essere utile al caso, prima che me lo tolgano.»
«Perché dovrebbero?»
«Perché ieri c'è stata la prima vittima.»

In presenza di crimini gravi, come assassini, le indagini passavano alla Divisione Investigativa Omicidi, che ospita le principali unità investigative specializzate. Alexandra era consapevole che il tempo a sua disposizione aveva iniziato a percorrere gli ultimi giri di orologio e voleva fornire qualcosa di concreto ai futuri responsabili dell'indagine, con la speranza di essere coinvolta.

«Ieri al mio arrivo, qualcuno mi ha minacciato.»
«Chi?»
«Non lo so, il volto era coperto da un cappuccio. Ha lasciato un foglietto a terra con scritto "Smettete di curiosare".»
«Lo hai con te? Potrebbe esserci utile...»
«L'ho gettato via, mi dispiace. Non gli ho dato importanza e credo non ne abbia.» Le dispiaceva mentirle, ma alcune cose non poteva dirle, per il suo bene, per la sua sicurezza e perché nemmeno lei ne capiva il significato.

«Parlami di quei simboli, per favore.»
«Non ti potrei dire niente di più di quello che troveresti con una semplice ricerca su internet. Vuoi una mia opinione? Sono coinvolte sette sataniche e potrebbe essere pericoloso. Lascia che se ne occupi chi...» Le stava scappando la parola "competente", ma si morse la lingua appena in tempo. Alexandra la fissò muta, in attesa che finisse la frase.
«Chi è specializzato.»

«È il mio lavoro. Una persona è morta, le altre, forse, sarebbe meglio che lo fossero. Mi devi aiutare, non proteggere!»
Bethany sapeva che non avrebbe mollato la presa, la conosceva troppo bene e non era cambiata per niente.
«Ti ricordi quanti erano i simboli disegnati sui muri degli alloggi universitari?»
«Sì, ho ancora le foto.»

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