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CAP 1 - parte I

PROLOGO

"Londra sarà inghiottita nell'oscurità.
Tutto inizierà da qui, perché qui ho perso la mia anima."

Il terreno divenne più arido di quanto il sole rovente riuscisse a cuocerlo nella giornata più infernale del periodo più caldo che avesse mai calcato quel fazzoletto di deserto.
Un fiore nero spuntò tra le dune, centinaia di crepe si propagarono dal punto in cui il gambo fuoriusciva e i petali appuntiti, simili ad ali di pipistrello, si aprirono, assorbendo la luce in un buco di tenebra. La sabbia divenne scura, si fuse e si trasformò in scaglie di vetro acuminate. I pochi esseri viventi che avevano il coraggio di sopravvivere in quel luogo inospitale furono trafitti, tranciati di netto, mutilati, finché non rimase solo un desolante scenario di morte.
Dopo anni di oblio in cui l'odio mutò in vendetta, si sentiva pronto per tornare a Londra; in pochi conoscevano le origini della città e il perché fu edificata in tempi ormai troppo remoti da essere ricordati. Un punto di partenza, non più di arrivo come accadde la prima volta che decise di rivelarsi al mondo esterno.

CAP 1
1.1

Ted si svegliò di soprassalto, gli occhi sgranati, il respiro affannato, nel buio della stanza cercò qualcosa di distinguibile che lo potesse confortare, con il terrore di trovare un'entità estranea pronta ad aggredirlo.

Madido di sudore, ansimante, si issò appoggiandosi alla spalliera del letto; sempre lo stesso incubo, che lo tormentava da un po' di tempo. I genitori cercavano di tranquillizzarlo, sicuri che fosse una reazione inconscia del ragazzino alla scomparsa del nonno.
Sentiva la mamma piangere alle volte e questo lo rattristava; sapeva quanto fosse legata alla figura paterna, la vedeva soffrire per quanto cercasse di nasconderglielo.

Richard abitava con loro, per Ted rappresentava un punto di riferimento, ma sapeva che si sbagliavano; per quanto il dolore che provava ogni giorno fosse inconsolabile, la causa degli incubi non era la sua morte. Aveva undici anni ormai, si sentiva grande, sapeva distinguere la realtà dall'immaginazione.

Riviveva sempre la solita scena, ma non da bambino, da adulto. Quasi non si riconosceva in quel volto ricoperto da una barba incolta di alcuni giorni, i capelli sporchi, in disordine, le rughe che comparivano ai lati degli occhi e sulla fronte; ma le iridi verdastre gli appartenevano. Aveva l'età di suo padre, forse una quarantina d'anni, ma non ne era sicuro, a lui sembravano tutti vecchi, i "grandi". Però sapeva con certezza di essere l'uomo del sogno e, ogni volta, si svegliava spaventato.

Stava accadendo qualcosa di terribile, aveva paura; una presenza oscura lo teneva in ostaggio assieme a una donna all'apparenza della stessa età, dallo sguardo che non tradiva terrore come il suo, ma determinazione. Fantasticava fosse Linda, aveva gli stessi capelli ribelli, il solito timbro di voce, anche se più maturo, il medesimo sguardo in cui si perdeva ogni volta. 

Non erano prigionieri all'interno di una stanza o una cella, ma si sentiva intrappolato dentro una dimensione oscura, senza vita. Riconosceva i luoghi che sognava, ma apparivano ingrigiti, svuotati dai rumori del traffico, privati dalle voci delle persone, dai versi degli animali, dai profumi della natura. Non un paesaggio abbandonato, lasciato al disfacimento come una vecchia casa, ma rovinato, aggredito, sventrato da un'atmosfera che sentiva cattiva, malvagia.

Il celeste del cielo si mostrava sbiadito, l'aria rifiutava di farsi respirare, gli alberi rinsecchiti sembravano croci bitorzolute che vegliavano su un terreno avvelenato, dove il verde dell'erba e delle piante selvatiche aveva lasciato il posto a fili aridi privati della clorofilla che li sosteneva.

La donna lo fissava senza parlare, quasi fosse un essere alieno da studiare con attenzione. Dopo alcuni attimi inclinava la testa sorridendo, pronunciava il suo nome e gli appoggiava la mano sulla guancia in un gesto affettuoso, tra persone che si vogliono bene in maniera speciale.
Fissava i suoi occhi, sorprendendosi delle lacrime che iniziavano a sgorgare improvvise. Si sentiva felice con lei, ma ogni volta quell'attimo diveniva più breve, come la vita di alcuni insetti che aveva studiato a scuola. Effimero...

Mentre veniva inghiottita dal buio, il sorriso non le abbandonava il volto, ma lo sguardo diventava malinconico mentre scompariva dietro una fitta coltre di oscurità. La completezza di averla accanto si trasformava nel terrore di rimanere isolato in un ambiente inospitale, marcio nel profondo, che non conosceva la compassione e la gioia per la vita. In quell'istante si svegliava ed era solo.

1.2

Sbirciò fuori dalla finestra spalancata che cercava, senza successo, di far entrare qualche raggio di luce. Il sole, come accadeva spesso, veniva sopraffatto dalle plumbee nubi del cielo di Londra. L'aristocratico palazzo in cui viveva faceva bella mostra di sè nel quartiere di Soho, uno dei più caratteristici, cosmopoliti e trendy di quella grigia, ma meravigliosa città. Così lo definivano gli adulti, ma lui non capiva bene cosa intendessero con tali aggettivi.
"Ma che ne sanno loro...", pensò rattristato.

I suoi genitori erano di nuovo partiti per lavoro in qualche bella metropoli europea e lo avevano lasciato a casa con la zia, che ormai vedeva più di loro. Negli ultimi tempi si assentavano sempre più spesso, il lavoro li assorbiva a tal punto da fargli sorgere il dubbio se si ricordassero di averlo, un figlio.

Stavolta il padre si trovava a Torino, a causa di alcuni furti avvenuti nel museo Egizio. Che cosa poi ci fosse da rubare in tutto quel vecchio ciarpame, non riusciva a spiegarselo. Alcuni anni prima lo aveva visitato assieme ai genitori, una delle esperienze più terribili della sua giovane vita. La noia lo aveva quasi ucciso.

L'esimio Dottor David Cohen, anche se di dottore, suo padre, non aveva alcunché, era un famoso direttore di museo e uno dei massimi esperti di antichità egizie. Ted giudicava il "mondo dei grandi" davvero bislacco; perdere tutto quel tempo dietro a robaccia vecchia e di nessun interesse, a cui davano un valore spropositato.

«Ted, la colazione è pronta!»

La voce squillante della giovane zia, sorella minore del padre, risuonò tra le mura dell'appartamento; stava finendo l'università e abitava ancora con loro. Non mancavano certo gli spazi per ospitare una persona in più, ma ormai sospettava che fossero stati i genitori a insistere nel farla restare e non una specifica volontà della ragazza, dettata dai soldi o dalla pigrizia. Averla in casa rappresentava una grossa comodità che gli permetteva di assentarsi ogni qual volta che il lavoro chiamava.

«Sono io che non sono ancora pronto a sopportarti.»  Borbottò a bassa voce ben attento a non farsi sentire.

Non le stava antipatica, ma era una tale secchiona, termine di paragone continuo di cui ogni volta i suoi genitori si servivano per convincerlo a studiare con costanza e impegno. Con quegli occhialini da nerd in metallo e dalla montatura tonda che gli ricordavano Harry Potter, le maglie larghe che nascondevano l'esile corpo, a volte appariva ridicola. Alcune volte però l'aveva sorpresa rincasare con abiti ben più appariscenti, il trucco scuro che le trasformava la faccia acqua e sapone con la quale si ripresentava la mattina.

«Arrivo, Emily!»

Chissà se sarebbe diventata docente universitaria come la mamma, le sentiva parlare spesso di insegnamenti e materie scolastiche. In realtà non sapeva nemmeno cosa studiasse e, seppur curioso, non aveva voglia di chiederglielo.

La madre di Ted si era laureata in chimica e biologia a Praga e alcuni giorni prima l'avevano contattata per condurre dei corsi alla famosa Charles University. Fondata nel 1348, tra i prestigiosi insegnanti del passato aveva annoverato anche Albert Einstein, motivo di grande orgoglio.
Anche lei definita stranamente Dottoressa Bethany Wilson, di certo non sapeva curare l'influenza che ogni anno si accaniva contro il figlio, nonostante il titolo medico che tutti i colleghi le avevano ormai concesso. Non l'aveva mai vista così entusiasta nell'apprendere che sarebbe ritornata nella città dove era cresciuta.

Ted non aveva conosciuto la nonna, morta durante il parto di Bethany, se non tramite qualche sporadica foto che conservava nonno Richard nel suo studio. Dopo un paio d'anni padre e figlia avevano lasciato Londra per trasferirsi a Praga, quando all'uomo, noto bibliotecario ed esperto storico in civiltà antiche, fu offerto un lavoro al Clementinum, come direttore della National Library of the Czech Republic, una delle più belle biblioteche del mondo. In splendido stile barocco, al proprio interno veniva dominata da libri, cimeli storici, dipinti e opere d'arte, custode di alcuni dei testi più antichi d'Europa. Una nuova offerta di lavoro nella città natia fu determinante nel farlo tornare a Londra, dove la figlia gli regalò il dono più bello, che riuscì a lenire il dolore della perdita dell'adorata moglie; il suo splendido nipotino Ted.

1.3

Mancava poco, molto poco, e il martirio sarebbe finito, almeno per cinque settimane. Nel frattempo, doveva sfruttare i giorni di pausa primaverile della scuola per recuperare l'odiata matematica.

Ted fissava l'ingombrante libro, pregno di numeri e simboli misteriosi che portavano sempre a un risultato diverso da quello che aveva calcolato dopo ore di sofferenze mentali. Era deprimente! Voleva diventare uno scrittore di storie fantasy, non un commercialista!

"Fanculo", sibilò a denti stretti lanciando uno sguardo di stizza verso il tomo scolastico. Il nonno lo ammoniva sempre sul rispettare qualsiasi libro con cui avesse avuto la fortuna di imbattersi, per scelta o per obbligo, perché custodivano al loro interno storie, insegnamenti, dai quali attingere per diventare una persona migliore.

"Lasciati rapire dalle loro pagine, liberati da ogni pregiudizio e scoprirai nuovi mondi, universi inesplorati dove smarrirsi e ritrovarsi più completi. Devi essere una spugna e assorbire ogni parola che leggerai, soltanto in questo modo sarai in grado di padroneggiare la penna con la quale scriverai la tua vita. Da protagonista!"

Una carezza o una scompigliata di capelli facevano da epilogo ai suoi arcani consigli. Non capiva sempre tutto quanto gli diceva, ma la sua voce calda e pacata lo ammaliava come il cantico di una sirena verso i marinai. Adorava suo nonno, lo aveva cresciuto, guidato nei momenti complicati più dei suoi genitori, aiutato come il migliore degli amici, sempre presente con i suoi consigli che non diventavano mai rimproveri. 

Si arruffò frustrato i ciuffi castani e ribelli che gli ricadevano sulla fronte senza alcun rispetto o disciplina. Le iridi ambrate, del colore del rame, si soffermarono sull'altro libro che aveva davanti.
Sfiorò la rilegatura in cuoio, invecchiata da anni di letture, ne inspirò il dolce profumo tannico, che gli riempiva le narici e aveva la meglio sul vago odore di umidità e muffa che impregnava l'enorme stanza. Gli unici ricordi che aveva del nonno; il libro e la soffitta dove passavano ore e ore assieme, incantato dai racconti fantastici che gli narrava.

Non era giusto. Una lacrima scese solitaria sulla guancia, percorrendo il giovane volto, solleticandogli la pelle, fino a rompersi in mille cristalli nostalgici sul vecchio pavimento in legno.

Lo aprì, come faceva tutti i giorni, ma non aveva mai confessato a nessuno, nemmeno ai suoi amici cosa accadeva; lo avrebbero preso per pazzo. Ogni volta che lo sfogliava, le pagine ingiallite, così fragili da temere che si sbriciolassero nel voltarle, raccontavano una storia diversa. Non esisteva né titolo né tantomeno il nome dell'autore, ma si creavano mille racconti diversi che gli danzavano davanti come fossero reali.

Da quando suo nonno era morto, ogni volta che finiva di leggerlo e lo riapriva, compariva una nuova storia, che lo accompagnava tra orchi e folletti, tra guerra e oscurità.

"Questo libro è magico", gli sussurrava sempre, "un giorno sarai tu a doverlo leggere a me."

Non arrivò mai quel giorno. Richard aveva deciso che era troppo stanco per continuare a lottare contro la maledetta malattia che da anni combatteva. Udiva dai suoi genitori le parole "cancro" o "tumore", aveva cercato su internet cosa significasse. Lui la chiamava "la bestia".

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