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I FRA: 2

Era il mattino seguente, orario di colazione.

Vicino all'entrata della sala ristorante, c'era il tavolo più pieno, una ventina di piatti divisi tra Sascha e la sorella gemella, Jessica. La copia identica del ragazzo, bassa e molto magra, bionda e con gli occhi azzurri.
Entrambi avevano bisogno di ingerire un'elevatissima quantità di calorie al giorno.

Allo stesso tavolo c'era una porzione più piccola, appartenente al fratello minore, Augusto.
«Io sono sazio» disse quest'ultimo, dopo aver mangiato l'ultimo pezzo di ciambella. «Vado, ci vediamo dopo.»

Sascha lo osservava andarsene, forse rammaricato. «Non gli sto tanto simpatico.»
Jessica provò a tranquillizzarlo.
«Ma no, Sascha, vi conoscete da poco, ha bisogno di tempo. Lui è timido, poi deve ancora digerire questo nuovo stile di vita.»

L'incidente alieno diede la possibilità a Sascha di scoprire qualcosa della sua vera famiglia.
Sin da quando aveva pochi giorni aveva vissuto con quella adottiva a Napoli. L'evento catastrofico gli permise di conoscere i fratelli e le sorelle che aveva sparsi in giro per il mondo.
Non si sapeva bene il come o il perché.

«È anche un po' deluso dall'Inglese. Gli sarebbe piaciuto conoscere anche gli altri. Poi, sai, lui non ha ancora sviluppato nessun potere.»
Sascha non sapeva bene come rispondere, era una situazione nuova, non avrebbe voluto dire la parola sbagliata, stava cercando di creare un legame con la famiglia ritrovata, non voleva commettere errori.

Dunque, afferrò il cappuccio e provò a calarlo ancora di più sul viso. Come a volersi isolare da tutto, anche dalla gemella.
Si chiedeva se davvero fosse pronto, se fosse capace, di instaurare un rapporto con lei, con una persona importante.

Di tanto in tanto, Sascha buttava l'occhio verso qualche tavolo più avanti.
Ad occuparlo c'erano Andreas e la persona con cui era riuscito più a interagire, la tedesca Vanya.
Anche lei bassa e dal fisico esile, occhi marroni e capelli mossi, con un taglio a caschetto, castani.

«Come è stato?» domandò Vanya ad Andreas.
«Mi sono divertito...» rispose il connazionale, non staccando gli occhi dal piatto.
«Hai provato a parlare con loro? Mi farebbe piacere se superassi la tua timidezza, Andre.»
«Sì» rispose Andreas, cercando di tenere nascosto il fatto che fosse infastidito da quelle tante chiacchiere. Vanya era capace di tirargli qualsiasi cosa da bocca, anche senza volere, come se fosse sua madre. Ciò lo infastidiva.

«Non sono stato muto come un pesce. Sembrano tipi simpatici.»
«Anche Sascha?» domandò la ragazza, con molta curiosità.
Andreas la guardò titubante. «Non mi hai ancora detto come fai a conoscerlo.»
«Ci siamo incontrati qualche ora prima che gli alieni provassero a ucciderci» spiegò lei, frettolosa.
Andreas provò a studiare il suo sguardo, voleva ricambiarla col suo stesso giochetto, ma non era capace come lei.
«Lo guardi costantemente. E non capisco se lui stia guardando te o me. O il vuoto.»

«Ne ha passate tante» disse lei calando lo sguardo e facendo un piccolo sorriso.
«Cosa? Allora parlate?» la cosa lo sorprese.
«Ci siamo anche scambiati i numeri di telefono» disse, vergognandosi, Vanya.
«Eppure non sembra uno così propenso ad aprirsi» pensò ad alta voce Andreas, mentre lo studiava sott'occhio.
«La sorella invece... ti direi di provarci, ma sei troppo timido. Probabilmente sarà lei a venire da te.»
«Perché dovrebbe?» domandò il ragazzo, con tono agitato.
«Perché le piaci.»
«Impossibile» rispose senza esitazione, ma con voce tremante.

Eppure i loro occhi continuavano a incrociarsi, timidi e colpevoli.

Staccato da tutto e tutti c'era Erik.
Da quando era arrivato lì si era sempre messo in disparte, e aveva sempre, furbamente, evitato i contatti con... in pratica tutti.
Si allenava da solo, mangiava da solo. L'unico con cui ebbe il coraggio di interagire fu il dottor Cavanagh.
I suoi “colleghi” li evitava sempre, nemmeno per errore aveva mai rivolto la parola, infatti la sua voce era un mistero.

Preferiva così, piuttosto che rischiare di subire qualcosa di simile a quello che gli fecero gli unici “amici” che ebbe tanti anni prima.

Venne avvicinato mentre, calmo e quasi immobile, gustava un caffè.
«Dottor Cavanagh» salutò, cordialmente.

«Come si sono comportati i tuoi compagni?» domandò il dottore.
«Bene» rispose lo svedese.
«Ho saputo che siete stati zitti per la maggior parte del tempo.»
«Era un silenzio condiviso» analizzò Erik.
Il dottore sorrise, anche se non era passato molto da quando avevano cominciato a fare conoscenza, aveva già imparato che Erik fosse uno con cui non era semplice parlare.
«Tu? Come ti sei comportato?»
«Ho curato chiunque potessi» e ricordò che fu preso in giro per quello. Ma non gli dispiacque, anzi, quei commenti lo avevano divertito, in un certo senso.
«Mi raccomando, Erik. Loro sono persone di cui fidarti.»

Gli diede una pacca sulla spalla e se ne andò.
Mentre lo svedese rimase con la testa verso il basso, verso quel caffè caldo, che ormai era diventato freddo.
Come piaceva a lui.

Qualche tavolo più in là.
Michael aveva riempito i suoi due piatti e si incamminava in cerca di un posto in un angolo, da solo, come al solito, quando sentì urlare il suo nome.
Era Alessio, che lo sta invitando a sedersi vicino a lui.

«Dormito bene amico?» domandò Alessio, punzecchiandogli il pancione.
«Gr... Ci ho messo un po' ad addormentarmi» ringhiò il gigante Michael.
«Anche tu agitato?» domandò il napoletano con molta enfasi. «Io non riuscivo a non pensare alla missione.»
«Già. Mi sono divertito. Le missioni che ho fatto con l'esercito non erano così.»
«Eri nell'esercito?» Alessio sembrò molto sorpreso dall'affermazione. «Hai solo venticinque anni.»
«Al presidente piaceva la mia grandezza, era facile far male a qualcuno» rispose l'americano, costretto a ricordare le orribili richieste fatte da quello che veniva spesso considerato l'uomo più importante al mondo.

«Quel figlio di puttana. Ti ha sfruttato.»
«Sono riuscito a farmi cacciare. Poi mi sono vendicato distruggendo qualche settimana fa l'Air Force One.»
«Rispetto fratello.»
Si batterono il pugno.
Alessio quasi si fece male.

Un ragazzo alto, dalla folta chioma bionda si avvicinò ai due, richiamando Alessio in tono severo.
«Sette.»
«Otto, problemi, amico?» fece Alessio, con fare tranquillo.
Sembrava che ne avesse.
«Ho saputo che siete andati in missione, i meno adatti, e per giunta uno di voi non era dei 100.»
«Geloso biondina?» domandò, ancora, Alessio, nel tentativo di infastidirlo il più possibile.

In modo calmo, molto calmo, a voce abbastanza bassa, Otto iniziò a dare la sua visione.
«No Sette, non sono geloso, sono preoccupato. Non siete i più adatti, siete i peggiori, i meno seri, lo sappiamo tutti, chissà che guai avrete combinato, ci avrete fatto scoprire al mondo? C'è gente qui più potente, più preparata, più propensa a collaborare in gruppo, gente che sta a sentire se riceve ordini, anche se a darli è l'Inglese. Tu non hai nemmeno un vero potere.»

Alessio rimase calmo, seduto e sorridente. «Vogliamo vedere se i tuoi fulmini ti proteggono da una mia pallottola a dieci chilometri di distanza?»

«Vedi? Zero serietà, Sette, sei così spavaldo.»
Michael voltò gli occhi verso di lui, mentre sorseggiava del caffè. «Fighetta, noi stiamo mangiando, se hai delle lamentele falle a qualcun altro, a noi non interessa quello che dici. Adesso vatti a pettinare i capelli.»
«Vai principessina» infierì Alessio.

Otto scosse la testa e tornò al suo posto, mentre Alessio lanciò un'occhiata agli altri compagni nella stanza.
Sascha e Andreas si guardano e alzarono le spalle. Non sapevano se ridere o rimanere sulle loro, così da non mettere altra carne sul fuoco.
Ad Erik, invece, uscì un timido sorriso, che fece sparire subito quando vide che una delle “colleghe” lo stava guardando male.

~~

Peter uscì dalla sala così come era entrato, silenzioso e invisibile, metaforicamente. Tutte quelle persone, tutto quel rumore, non lo riusciva ancora a sopportare, dopo più di un mese e mezzo di convivenza.

Si scontrò con Novantanove, Markus Watson.
Un ragazzo dalla carnagione scura, mezzo inglese e mezzo francese. Anche se erano al coperto aveva un berretto in testa e degli occhiali da sole.
Unico ragazzo con cui Peter aveva interagito.
«Allora?» domandò guardingo Peter.
«Tranquillo, amico. Tutti i video e tutte le immagini sono stati cancellati. I terroristi che sono stati catturati non sono un problema, non parleranno di noi.»
«Ottimo lavoro» si complimentò, soddisfatto, il londinese, stringendogli la mano.

Seguiti silenziosamente da Novanta, incuriosito e sospettoso, andarono insieme nella stanza di Markus, ben attrezzata per le sue mansioni da hacker.

Il mezzo francese si sedette davanti al computer, Peter lo seguì.
Sullo schermo c'erano i dettagli della nave che avevano recuperato ai terroristi.
«Sai, sono tutti stranamente scomparsi» informò Markus.
«Chi?» domandò Peter, mentre prendeva il cubo di rubik che Markus aveva sulla sua scrivania.
«I terroristi.»
Peter corrugò la fronte. “Perché non sono stati semplicemente arrestati?”

«Riusciresti a trovarli?» chiese all’hacker.
«Posso provarci.»
Intanto, era riuscito a trovare la nave. «È in Cina, hanno consegnato il carico.»
«Di che si trattava?» sperava niente di preoccupante.
«Una bomba atomica» rispose Markus, con tutta la calma del mondo.
«Menomale che gliel’abbiamo tolta dalle mani» tirò un sospiro di sollievo l’inglese.
«C’è un problema» disse, però, Markus. «Ho scoperto che la bomba appartiene agli Stati Uniti.»

Peter rifletté per qualche secondo in silenzio, confuso dall’informazione appena ricevuta. «Come?»
«Sì, amico. Appartiene a loro...» Markus fissava lo schermo mentre girava lentamente la testa a destra e a sinistra. «Non ha un minimo di senso.»
“Gli Stati Uniti che regalano una bomba atomica ai cinesi?” sembrava impossibile.
«Tranquillo, Peter. Ho occhi dappertutto. Qualsiasi pelo fuori posto io lo vedrò.»
Peter muoveva la testa su e giù, con lo sguardo perso nel vuoto e la testa colma di pensieri.
«Dovremmo dirlo a qualcuno?»
«No» rispose secco Peter. «Qui dentro sono tutti degli stupidi ignoranti.»
Ci pensò un attimo: “Forse non tutti”.
Posò il cubo sulla scrivania e fece per andarsene.
«Uh» disse sorpreso Markus, «lo hai risolto.»
«Circa venti volta mentre tu parlavi.»

~~

Sacha era seduto da solo nella sala ristorante.
Dava le spalle all’entrata, il volto era coperto dal solito cappuccio mentre mangiava il terzo cesto di pollo fritto.
Sentì dei passi alle spalle venire verso di lui. Vide sott’occhio il giaccone arancione, riconoscendo, dunque, Alessio.

«Come va, amico?»
Sascha alzò le spalle.
«Ti capisco, anch’io preferisco stare da solo. È successo qualcosa?»
Sascha posò il cesto, si pulì il muso con un tovagliolo e raccontò.
«Sono entrato in stanza e ho trovato la ragazza paraguaiana completamente nuda sul mio letto.»
«Caspita…» disse Alessio, non sapendo bene come reagire. «E cosa hai fatto?»
«Ovvio, sono scappato. Chissà cosa voleva farmi.»
«Chissà…» Alessio lo guardava attentamente, mentre cercava di capire se facesse sul serio.
«Sarà uscita dalla mia stanza?» si chiese Sascha mentre riprendeva tra le mani il cesto.

Alessio rifletté sull’episodio del nuovo amico. Poteva in un certo senso paragonarlo a quello che faceva lui. Al suo continuo allontanare le persone. Certo, a lui non capitava di trovarsele nude a letto, quello era un livello superiore, a quanto pare.
Ripensò, in effetti, all’incontro di qualche giorno prima con la ragazza cubana che gli aveva chiesto di andare ad allenarsi al poligono insieme. Lui aveva inventato le peggiori scuse per non andare con lei, mentre indietreggiava come se avesse avuto davanti un mostro.
Forse era stato esagerato.
Ritornò a fissare Sascha.
“Mai quanto lui.”

«Di che zona di Napoli sei?» domandò Alessio.
«Zona Nera.»
«Ah…» Alessio cercò di decifrare. «Ah… Beh, amico, tranquillo che se salti in aria tu, salto in aria anche io.»
Alessio la prese sul ridere, Sascha, però, gli fece subito scomparire il sorriso.
«Pensi mai a che cosa accadrebbe se eruttasse davvero?»
Alessio deglutì, ci pensava spesso, era, probabilmente, la cosa che più temeva al mondo.
«Nel “migliore” dei casi mezza Napoli verrebbe spazzata via. Nel peggiore…»
«Crisi mondiale» terminò Sascha.
Alessio scuoteva la testa, pensare alla possibile eruzione del Campi Flegrei gli faceva sempre venire i brividi.
Sascha invece…
«Spero nella seconda, almeno ci portiamo appresso il mondo intero.»

~~

Erik uscì dalla propria stanza.
Proseguì lungo il corridoio per dirigersi nella sala medica. Quando girò l’angolo, però, vide un gruppetto di quattro persone ferme a parlare e a scherzare davanti ad una stanza.
Tornò indietro e si mise appoggiato al muro, in attesa che le persone se ne andassero da lì e gli lasciassero libero il passaggio.

Rimase lì per un po’ ad ascoltare le loro chiacchiere e le loro risate. Dall’altra parte arrivavano, invece, dei rumori molesti. Qualcuno ci stava dando dentro.
“Inopportuno direi…”
Alzò gli occhi al cielo e provò a distrarsi canticchiando un motivetto, sperando che potesse sovrastare i rumori esterni.
Non ci riuscì.
Finalmente il gruppo si divise e poté passare senza rischiare di imbattersi in qualcuno con cui dover parlare.

Arrivò al piano terra dove incontrò Andreas.
Entrambi rimasero fermi e immobili, mentre davanti ai loro occhi c’era un grande assembramento.
Si guardarono negli occhi, imbarazzati.
Dovevano passare in mezzo a quella marmaglia di gente?
Passò al loro fianco Michael, molto più sciolto, fregandosene di chiunque.
Come loro, però, non aveva la minima intenzione di fermarsi a interagire con qualcuno.

Non era uno a cui piaceva parlare con le persone. Sia per le sue particolarità, sia perché aveva sempre la sensazione che le persone lo prendessero per un fenomeno da baraccone, per via della sua enorme stazza e delle sue difficoltà mentali.
«Troppo casino qui» si lamentò il gigante.
«Già…» convenne Andreas.
«Venite con me in sala medica» Erik si sorprese della proposta. Gli era venuta spontanea.

Con Michael che faceva da spartiacque, arrivarono a destinazione.

«Dunque hai fatto parte dell'esercito, Michael?» domandò Erik, mentre faceva simulazioni al computer dei suoi poteri medici.
«Sì, appena ho fatto diciotto anni mi presero. Gr... Inizialmente mi piaceva ma poi ha iniziato a fare schifo. Ho fatto qualunque cosa per farmi cacciare.»
«E quindi riuscisti a farti congedare...» ipotizzò lo svedese.
«Eh... No, nessuno mi ha congelato. Mi hanno cacciato.»
Erik guardò perplesso l'aria e poi Andreas. «Giusto, mi sono sbagliato.»

«Voi siete identici» disse Michael agli altri due. «Anche l’altro piccoletto. Sicuri di non essere parenti?»
«Siamo sicuri Michael» rispose Andreas. «Sascha ha già trovato i suoi veri parenti.»
«Ci aggiungiamo anche noi... meglio di no» commentò lo svedese. «E poi ti assicuro che io non sono stato adottato, e ho già una buona dose di sorelle.»
«Quante?» gli domandò il tedesco.
«Quattro.»
Andreas mostra sorpresa. «Io invece figlio unico.»
«Anche io» gli poggiò una gigantesca mano sulla spalla l'omone. «Mio padre era sempre ubriaco, e mia madre pure. Ho preso il vizio della birra anche io, ma non mi ubriaco mai.»

Michael ripensò ai momenti dell'infanzia di quando, tornando da scuola, dove veniva sempre bullizzato, trovava sempre i genitori a fumare erba, ubriachi, delle volte li trovava a fare sesso, anche con altre persone.
Prese uno dei sigari, che portava sempre nelle tasche, e se lo accese.

«Ti sembra il momento di fumare?» lo sgridò Erik.
«È sempre il momento per fumare. E di bere, ma gli inglesi me lo impediscono sempre.»

~~

Manuel era nella stanza dell’hotel che gli aveva preso Peter.
Non badò a spese l’inglese. Lo sistemò in una suite.
Era fuori al balcone, seduto sulla ringhiera con le gambe incrociate e gli occhi chiusi.
Se qualcuno da giù lo avesse visto avrebbe chiamato la polizia pensando che volesse suicidarsi.
Meditava, come aveva imparato negli anni trascorsi in Giappone con dei monaci.
Sentiva il telefono vibrare in continuazione, cosa che lo infastidiva molto.
Provò a rimanere concentrato, ma il telefono continuava a interrompere la sua pace.

Aprì gli occhi e sbuffò.
Scese dalla ringhiera e entrò dentro.
Era Peter che gli scriveva. Gli chiese se andava tutto bene, se stava comodo e gli disse che, se voleva, poteva passare alla base dei 100.
Manuel non ne sembrava entusiasta. Se qualcuno lo avesse voluto lì sarebbe stato invitato a far parte del gruppo quando fu creato.
Nessuno lo avrebbe voluto, se lo sentiva, sarebbe stato come un peso.
Ringraziò Peter e gli disse che non se la sentiva di passare dalle loro parti.
Arrivò pronta la risposta dell’inglese.
“Fa come vuoi, ma non lasciare Londra, ho delle cose in ballo e sinceramente ti preferisco agli idioti qui dentro.”
Manuel sorrise.
Chiuse il cellulare, prese le katane che aveva poggiato sul divano e tornò fuori, sulla ringhiera a meditare.

~~

Stati Uniti

Un gruppo di persone stava studiando l'attacco ai danni dei terroristi nel mezzo dell'oceano pacifico.
«Sono quelli di cui parlavate» si rivolse un sottoposto del presidente a una donna.
«L'Inglese si è messo d'impegno» disse lei, sottovoce, mentre osservava le immagini. «Nessun riconoscimento?»
«No signora. Noi non abbiamo la minima idea di chi possano essere.»
«Erano tutti morti, come potrei mai capire...» i suoi occhi si bloccarono su un particolare.
«Cos'ha? Ha ricono...» ma l’uomo venne bruscamente interrotto.
«Devo andare adesso signori» disse frettolosamente, mentre raccoglieva le carte e la sua cartella. «Ci aggiorniamo domani.»

La donna uscì dalla stanza e andò di corsa in un'altra più avanti dove c'era ad aspettarla un “collega”.
Lui la osservava attento, mentre sorseggiava nervosamente un bicchiere d'acqua.
«Cosa c'è. Lilian, hai visto un fantasma?» domandò, quasi con tono derisorio.
«No Drew, ho visto il diavolo.»
E gli mostrò l'immagina dell'attacco ai terroristi. Un'immagine che ritraeva un fulmine rosso.

~~

Giuba

Le zone periferiche della città erano quasi completamente distrutte. La città era allo sbando.

Il caldo diminuiva sempre di più, negli ultimi sei giorni la temperatura massima era stata di soli 6°C.
Da un momento all’altro avrebbe potuto nevicare, nel Sudan del Sud, e nessuno fuori da quella realtà se ne sarebbe mai accorto.

A muoversi in quelle macerie c'era, nascosto da abiti locali, un uomo triste, che non voleva perdere la speranza di ritrovare una persona a lui cara.
Nascosto nell'ombra attendeva un uomo in particolare.
Aspettò per poco.

Si avvicinò insistente al grande uomo dalla pelle scura.
«Scusami... ti prego, fermati.»
L'uomo si voltò scostando l'altro col gomito, poi lo guarda arrabbiato. «Ancora tu?»
«La prego» iniziò a supplicarlo l’altro uomo. «Deve aiutarmi a trovare mia figlia. La prego, Diop. Ho perso mia figlia, mi aiuti.»
«Tante persone qui perdono i figli. Tante. E a voi bianchi privilegiati non frega mai niente. Mi dispiace se ha perso sua figlia, ma io ho tanti altri figli a cui pensare.
«Lei può essere il sovrano di qualsiasi paese, non me ne frega niente. Penso prima alla mia gente.»
Diop lo guardò dall’alto con uno sguardo infuriato.
«Se la trovi da solo sua figlia.»

L'uomo se ne andò, lasciando lì, disperato, inginocchiato a terra mentre batteva ripetutamente il pugno per lo sconforto, il povero re di Svezia.

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