cap. 9 Raccomandazioni inutili
Due giorni dopo un cavallo sudato si fermò all'imbrunire nel cortile della nuova caserma. L'uomo che ne smontò era altissimo e Furius accorse ad accoglierlo. La guarnigione li vide scambiarsi una stretta di mano silenziosa, occhi negli occhi; Furius lanciò degli ordini in giro, fece ricoverare il cavallo di quegli e lo portò via, verso casa.
"Vuoi riordinarti prima, o faccio chiamare la donna?", gli chiese, e non avevano scambiato una sola parola di saluto, alcun complimento formale; Furius capiva che Ilruik era teso come una corda d'arco e non voleva imporgli alcun tormento, come parlare di nulla che non fosse nei suoi pensieri.
"Fammi salutare Diaspra, ti prego!"
Furius sorrise:"Casa è vicina, pochi minuti ancora".
Arrivarono in un lampo, con quel passo lunghissimo che potevano alzare. Furius entrando non diede tempo a Urveo di accorrere:"Chiama Diaspra", intimò alla bambina che era accorsa per prima ad aprirgli il portone, e fece entrare Ilruik nella sala.
Ve lo lasciò e bloccò Urveo e chi accorreva. Si recò in cucina a dare ordini per la cena, poi andò in camera a cambiarsi. Nessuno di casa si affacciò per oltre un'ora alla sala grande. Infine Furius tornò, schiarendosi la gola davanti alla porta per non giungere inaspettato.
Ma Ilruik e Diaspra rimasero comunque stretti nel loro abbraccio, con gli occhi chiusi, estraniati da ciò che avevano intorno, in quel dialogo silenzioso che sono capaci di imbastire un uomo e la sua donna provati da una separazione lunga e ingiusta.
Furius tornò a fare discretamente del rumore e Ilruik aprì gli occhi e lo guardò. Allontanò a fatica Diaspra, con gentilezza, come a chiederle perdono di separarsi un attimo da lei, e andò verso Furius. Tentò di dirgli qualcosa, ma non aveva come esprimersi; allargò le braccia, come a dichiararsi incapace di essere all'altezza e disse solo:"La mia vita è tua, ora".
Furius rise brevemente e aveva sentito un calore nel petto che era gioia, soddisfazione e fierezza. "Tientela, per favore. Non saprei cosa farmene, di un cadavere. Però... ", disse poi rifacendosi serio:"... una cosa per me puoi farla".
"Qualsiasi cosa", mormorò Ilruik e davvero, per quello, avrebbe fatto qualsiasi cosa.
"Tieni le mani a posto con la mia donna", disse, facendo segno a Leona di entrare.
A Tauro e a Diaspra era servito del tempo per riprendersi, all'apparire di Leona. E questa li aveva salutati compostamente, seppur emozionata.
A Ilruik bastarono due secondi, e Leona non provò neppure a inchinarsi. In un sol passo, le allacciò le braccia alla vita, sollevandola, e lei gli buttò le braccia al collo, appoggiandogli il capo sulla spalla; "Dio dei venti!", ripeté un paio di volte Ilruik, troppo felice per lasciarla andare mentre Furius borbottava:"Meno male che mi ero raccomandato! Lasciala, stupido geniere!", e sorrideva, incapace di non godere della sorpresa e della felicità che riempiva la stanza.
Ilruik mise giù la donna e tenendole le mani sulle spalle, indagò il suo volto. "Sono molto cambiata?", chiese Leona sottovoce, sorridendo. Quello rifletté un po', dando uno sguardo veloce all'abito lungo e toccando le onde castane sulle spalle. Poi fissò attento i grandi occhi limpidi.
"No", concluse:"non sei cambiata affatto, direi".
Leona rise stupita:"Tauro e Diaspra mi hanno trovata assai diversa".
Ilruik si fece ancora più serio:"Hai parecchie cicatrici in più, ma sei sempre Leona".
"Come lo sai... ", mormorò lei:"... non si vedono affatto!", pensando all'avambraccio sfregiato da Demonio e alla frusta.
"Parlavo dell'anima, donna", e lo sguardo di Ilruik scese così in fondo che Leona ebbe un sussulto. Chinò lo sguardo, e quando lo rialzò gli occhi erano allagati di lacrime:"Mi sei mancato!", e gli si strinse con un singhiozzo; e di colpo il dolore che aveva controllato con Tauro e con Diaspra ruppe gli argini e inondò ogni cosa.
Ilruik cullò quel pianto disperato e improvviso, guardando Furius e cercando lumi. L'uomo sospirò piano e scosse la testa. Era forse la prima volta, dalla notte in cui si erano ritrovati sulla frana, che Leona sfogava nuovamente il suo dolore.
Rimasero tutti in silenzio. Poi, come improvvisamente aveva ceduto, così reagì a riprendere il controllo. Pochi secondi e già ricacciava indietro le lacrime, soffocava i singhiozzi. "Scusami", disse sciogliendosi e passando le mani rapide sul viso, a cancellare le lacrime, rabbiosamente.
"Sono una donnetta ad accoglierti in questo modo. Vuoi rinfrescarti o mangiare?", e con uno sforzo ridava alla voce un timbro normale. "Mangiare!", rispose quello e fece un gesto buffo, per significare che moriva di fame.
Leona riuscì a ridere. Ilruik sapeva mettere allegria nelle sue espressioni, anche quando dentro era triste. Leona puntò gli occhi in quelli dell'amico:"E bravo Ilruik, sei riuscito a mettermi alle strette! Ma sono troppo felice che tu sia qui per vergognarmi della mia debolezza. Il dio dei venti sia benedetto, per averti protetto!", e si diresse rapida fuori, a chiamare perché servissero la cena.
Appena il tavolo fu pronto Furius mise fuori la servitù e chiuse la porta, certo che Ilruik non si sarebbe scandalizzato se gli proponeva di mangiare a tavola con le donne. Così fecero, e parlarono e mangiarono, e parlarono ancora.
Le terre devastate del Sud furono l'oggetto di ogni discorso, pure se si provava a parlare d'altro. Sempre si tornava a ciò che aveva cambiato radicalmente la loro vita e reciso quella di tanti. Leona chiese a Ilruik se avesse conosciuto il vecchio comandante di Darama, ferito nei crolli del terremoto, e saputo che l'aveva più volte visitato in una foresteria del corpo dove era assistito, pregò l'amico di portare il suo saluto a quell'ufficiale severo e intelligente che ricordava con tanta stima.
Quando infine il pasto fu consumato, dalle finestre entrava l'aria fresca della prima notte e Furius chiese se desideravano far due passi. Diaspra era praticamente una reclusa dal suo arrivo e Ilruik vide il suo desiderio e accettò volentieri.
Uscirono loro quattro e Furius li portò un po' su, lungo un sentiero piuttosto ben segnato, approfittando di una notte chiara di luna. Li portò fino ad un piccolo spiazzo, una sorta di terrazzino, da cui il piccolo gruppo di case nuove si distingueva in basso, tra gli alberi, con le finestre brillanti dietro cui le lampade accese accompagnavano la cena, o gli ultimi lavori. C'era un'aria quieta, profumata, e le cime dei monti bianchi risaltavano contro il cielo nero di velluto.
"È veramente bella la tua valle, Furius", osservò Ilruik a voce bassa, perché in quel silenzio rotto solo dal frinire dei grilli non si poteva parlar forte. L'uomo teneva Diaspra per la vita; rivolti entrambi verso la valle, lui l'abbracciava da dietro e la cullava, socchiudendo gli occhi, respirando finalmente quiete.
Gli occhi di Furius corsero alla frana. Non riusciva a guardare quel versante senza rivolgersi a quella ferita oscena, sotto cui il bosco e la casa e tante vite erano state seppellite. Leona seguì il suo sguardo e gli passò lieve la mano sul braccio.
Furius non potè frenarsi:"Prima era ancora più bella, Ilruik. Lì di fronte, dove ora non resta che una valanga di sassi e rocce nude, c'era il bosco più bello di Chiura. Un castagneto immenso che in questi giorni già avrebbe cominciato a tingersi dei primi gialli, per virare in autunno ad una tavolozza di rossi, come la montagna fiammeggiasse.
Sotto le scosse che già fecero crollare gli edifici, compreso il mio palazzo che era lì a metà pendio, si staccarono due frane enormi che travolsero il bosco e cancellarono ogni cosa fino a fondovalle, fino al vecchio villaggio, fino alla strada d'ingresso di Chiura.
Chi era riuscito a scappare fuori da casa, e terrorizzato era risalito da questa parte, è scampato. Per chi era rimasto sotto le macerie, uomo o animale, non si poté fare nulla".
Furius rivide amareggiato la gente portare le mani al capo, guardando con occhi sbarrati verso il monte, mentre il mondo si scuoteva urlando. Ilruik e Diaspra lo fissarono, perché l'angoscia nella sua voce arrivava loro nitida.
Puntando il dito verso la frana, a metà monte di fronte a loro, chiese se distinguevano tra le rocce un punto verde. Nel chiarore lunare era difficile, pure Furius dava loro una direzione assai precisa, da guardare, e sembrava di poter intuire, sì, un qualcosa di diverso.
"Appena caduta la frana, non si notava né si poteva immaginare che in chilometri quadrati di desolazione un piccolo frammento di spianata fosse stato risparmiato. Dal basso giudicai che ogni cosa fosse stata distrutta.
Invece uno sperone di roccia che dominava la casa aveva deviato le frane e circa una metà delle rovine non erano state sepolte, insieme a quei pochi alberi che ora, verdi, si distinguono appena ma che allora, spogli sotto un manto bianco di neve, erano invisibili.
Da quelle stanze in rovina i sopravvissuti di Chiura tirarono fuori il poco che bastò a sopravvivere in una cantina puntellata: sette donne e un vecchio, due ragazzi e un bambino. Illese le donne e gravemente feriti di altri; resistettero due mesi al rigore di un inverno assurdo, feroce e lungo come non si ricordava a memoria d'uomo.
Quando salii, rassegnato, trovai allibito che qualcuno era sopravvissuto: una guardia del re aveva saputo organizzare e comunicare tanta energia e coraggio da strappare alla montagna una manciata di vite, a dispetto di tutto. Qualcuno che non si arrende mai, e che protegge chi le sta intorno, vecchio o bambino, uomo o donna, principe o miserabile che sia".
Ilruik e Diaspra ascoltavano intenti, silenziosi, stupiti e commossi dall'intensità di quei ricordi. Leona gli si mise di fronte, a distogliere i suoi occhi da quel dolore e la mente da quel ricordo. "Furius", e lo richiamava dolcemente indietro, "Non c'era alcuna guardia su a Chiura".
Furius la fissò dolente:"Tu sei e sarai sempre una guardia del re, e una delle migliori, anche".
Leona scosse il capo:"La divisa bianca... Quanto ho speso di me stessa per migliorare! Quanto avrei dato, per sentirmi veramente all'altezza di quella divisa".
"Lo sappiamo", mormorò Ilruik:"Avresti dato l'anima".
E Furius, alzandole il viso per puntare gli occhi in quelli castani della donna:"Quale anima?", ricordò con amarezza. "Come hai fatto, a non odiarmi?", chiese poi in un soffio.
Leona dové riprendere fiato:"Non è stato facile", rispose poggiando la mano destra sul suo torace, proprio sul cuore:"Ma quando mi hai lasciato guardare più dentro, non ho potuto più".
E sorrise con gli occhi, aggiungendo silenziosamente altro ancora. Furius mise la mano sulla sua e dal torace la portò al viso, a poggiarvi la guancia ruvida, con gli occhi chiusi, e a Ilruik tremò il cuore ricordando la ferocia con cui l'aveva combattuta; comprese come le si fosse arreso, alla fine, e come così l'avesse irrimediabilmente conquistata.
Incredibile, pensò. E mai una esclamazione, pur rimasta pensiero, meglio espresse la realtà: perché chiunque di loro cinquanta avesse allora avuto uno sguardo su quel futuro, compresi Furius e Leona, avrebbe rifiutato di crederlo.
Quando più sul tardi tornarono a casa Furius, augurato un buon riposo a Ilruik e Diaspra, volle tornare fuori con Leona.
"Sei troppo stanca, per dedicarmi ancora del tempo?", le aveva chiesto, e naturalmente Leona non lo era. Non lo era mai e Furius lo sapeva. Non era mai troppo, quello che poteva chiederle. Ma quella sera Furius esitava.
"Quel pianto quando hai visto Ilruik", cominciò, e Leona abbassò gli occhi.
"Io non posso immaginare... ", le disse rialzandole il viso,"... di fare qualcosa che ti faccia soffrire ancora. Ho paura, di fare o dire qualcosa di troppo".
La donna gli sorrise:"Non temere", disse pensando al discorso delle mogli fatto prima che Diaspra arrivasse:"Sono preparata. Fai quello che devi".
Furius intuì e scosse il capo:"Non voglio altre donne in casa, Leona. Ma vorrei dei figli".
La frase scesa nel silenzio della notte e fermò il tempo. Leona non pensava, intorno a lei non c'erano rumori, dentro di lei non c'erano pensieri. Poi tornarono adagio; il cuore tornò a battere:"Come puoi avere dei figli, senza prendere moglie?", e aspettava una risposta, che non voleva immaginare sbagliata.
"Leona... ", e la voce dell'uomo quasi si spense. Ora il cuore, da lento, prese ad accelerarle. Leona si guardava intorno, smarrita. Sentiva il calore salirle al viso, e l'emozione stringere la gola. Un figlio? Batté le palpebre e tutto sembrò ondeggiare.
Era irreale; poteva capire che Furius si fosse stretto a lei nella solitudine che da sempre l'aveva angosciato e nel dolore che l'aveva colpito, togliendogli la casa, la ricchezza, i luoghi che amava.
Si era considerata un rifugio, un appiglio, una spalla e una confidente. Ma sapeva che il suo restava un ruolo provvisorio, marginale.
Furius di Chiura. Esponente di quell'ala conservatrice di Inurasi che inorridiva ai contatti con i federali. Quanto si poteva chiedere, che la vita stravolgesse il cuore di quell'uomo...
"Un figlio da me?"
E lo chiese in un soffio, con la vergogna di dire una cosa ridicola, d'aver capito malamente, pronta a indietreggiare alla sua risata. Furius non rise.
"Ho paura di chiedertelo. Paura che tu accetti solo per compiacermi; paura che poi possa succedere ancora qualcosa, paura del parto, ho paura di tutto, Leona. Ma ho paura anche che tu non lo sappia, chi sei per me. Perché io non voglio figli che non siano anche i tuoi. Ho bisogno del tuo sangue, per combattere il veleno che ho nel mio, per avere la speranza che nascano creature per la vita e non demoni.
Ho bisogno di te, ma se tu non vuoi lo capirò, anzi ne sarò quasi sollevato. Però, dovevi saperlo".
La donna chiuse gli occhi. Vide il viso di Archés. Lo rivide a Polaris, al molo; rivide se stessa, risentì il dolore di vederlo partire. Archés entrato così profondamente dentro di lei. Fin qui, l'aveva protetto. Aveva sempre scelto lui. Nulla di suo, aveva sciupato. Ma ora, se sceglieva di dare un figlio a Furius...
"Un'ultima cosa", disse Furius:"Non chiedo di essere l'unico, nel tuo cuore, né di essere al primo posto. Posso accettare quello che provi per Archés, se non mi chiudi fuori dai tuoi pensieri".
Leona respirò a fondo.
"Mi hai sempre letto dentro come fossi trasparente, anche quando avrei voluto disperatamente che non ti riuscisse", commentò; poi lo guardò senza più esitare:"Se sei pronto a prendermi nonostante tutto, allora non ci sono dubbi sulla scelta giusta. Ma dovrai farti avanti un po' più spesso, se vuoi provare seriamente ad avere un figlio!", e quasi gli rimproverò di cercarla di rado.
"Non è necessario che sia troppo spesso, basta che non ti eviti più quando potresti restare incinta", fu la sorprendente risposta.
Leona impiegò qualche istante, a ritrovare la parola:"Stai scherzando!", e sentì il sangue affluire al volto.
Furius scosse il capo:"Non ti avrei esposto al rischio di trovarti nuovamente in attesa di un figlio, senza che fosse una scelta, questa volta".
"E come hai fatto... ", e si sentiva le guance calde.
"Una caserma Inuri non è fatta per salvaguardare la propria intimità", le rispose:"Abbiamo dormito nello stesso letto a castello per anni, non mi era difficile capire quando eri più stanca e dolente del solito. Per di più, sei la donna più regolare della storia".
Leona rabbrividì e sarebbe sprofondata, nel capire che tutto di lei era stato così evidente. "Che vergogna!", mormorò ripensando ai giorni di Adamanta. Furius non commentò.
"Quindi mi hai evitata perché non succedesse... ", concluse Leona.
"Non senza che lo volessi", e Furius tentò di prenderle una mano. Fu quasi goffo, nel gesto, e Leona inghiottì.
Un figlio. Sentì l'emozione salire come un'onda. Alzò gli occhi a guardarlo: se avesse potuto somigliargli un pò... fu costretta a chiuderli e ad appoggiarsi all'uomo, perché sentì le ginocchia cedere; per un attimo, aveva visto sorridergli un bambinetto bruno, fiero, e l'aveva sentito chiamarla: madre.
Non mamma... madre, con un'aria seria, già quasi adulta.
"Se sei convinto, Furius, tentiamo... ", ma non uscivano quasi, le parole. L'uomo respirò a fondo.
Ascoltala... aveva suggerito Diaspra.
"Hai paura?", le chiese.
"Le cose troppo belle fanno sempre un po' paura", gli rispose.
"Un figlio mio sarebbe una cosa troppo bella?", le chiese ancora. Leona inseguì con gli occhi il bambinetto tenere le redini del puledro, ormai adulto e imponente come Mistral, e quello si volse a sorriderle, mentre piccolo com'era accarezzava il manto lucido del gigante.
"Non bella , Furius... ", e lo guardò con gli occhi appannati senza trovare le parole per descrivere quel miracolo che le aveva sorriso.
Furius lesse l'emozione, la tenerezza, lo slancio, il desiderio di protezione, la fame d'amore che traboccavano, se la donna smetteva di nascondersi dietro una maschera di pudore. Si chinò ad annusarne i capelli e il collo, perché quel suo odore era magnifico. Lo faceva ridere di gioia, e di desiderio. "Quando decido una cosa la faccio seriamente", le sussurrò.
"Ma io non ti sono da meno", gli rispose.
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